Nel 2012 attraverso una sentenza di Cassazione i giudici misero in discussione il dispositivo della carcerazione preventiva – per chi era indagato per il reato di violenza sessuale – deciso con un provvedimento del Ministero alle Pari Opportunità retto da Mara Carfagna ai tempi in cui lo “stupro” in chiave etnica diventava tema sul quale si esercitavano teorie politiche securitarie e razziste.
La carcerazione preventiva non può avere niente a che fare con il nostro sistema giuridico che è un tantino più garantista di quello autoritario propagandato nei film americani in cui basta un’accusa e finisci in galera senza che tu abbia neppure il tempo di difenderti.
La norma era dunque incostituzionale e come tale fu chiaramente ridimensionata. Gli anni dell’emergenza violenza sulle donne alimentati dalla destra e da un pezzo di centro/sinistra securitario e giustizialista avevano comunque lasciato traccia nella cultura che riguardava perfino mondi femministi non sospetti dove a momenti donne di sinistra e fasciste sembravano (in qualche caso lo sembrano tuttora grazie alla deriva securitaria dei movimenti…) parlare esattamente lo stesso linguaggio. I media avevano già colto quello che ora definisco in termini di brand che produceva indignazione, audience e accessi e quella notizia fu data con tutto il carico di sensazionalismo immaginabile dove mettere in discussione la carcerazione preventiva finiva per sembrare libertà e impunità per tutti gli stupratori.