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Siamo qui per stupirvi! [quinto capitolo]

Numero cinque [qui prologo/primo capitolo, secondo capitolo, terzo capitolo, quarto capitolo, quinto capitolo, sesto capitolo]

Pensavo a lei e passeggiavo tra vie e viuzze del centro storico. Una casba che mi causava vertigine allo svenimento. Troppi odori. Troppi stimoli per i miei poveri sensi. Carolina mi aveva dato appuntamento alla taverna.

“Ti offro un bicchiere di sangue siciliano…” aveva detto. Me ne offrì uno anche di zibibbo. Il mio autocontrollo era in fin di vita. Lei sembrava forte mentre mi aggrappavo al suo braccio. “Perché non mi vuoi commuovere?” – la pregai. Mi strinse per comprensione. Avevo paura di cadere. Lei voleva che mi lasciassi andare. Le sensazioni forti mi lasciavano sempre un po’ frastornato. Dovevo piegare quello che non riuscivo a controllare. Se non si piegava ci rinunciavo. Oppure lo uccidevo.

Carolina mi condusse in casa sua. Mi guidò sul letto e si lasciò scappare una carezza lieve. Poi chiuse la porta e mi lasciò al buio in quella stanza. Niente era al suo posto. Oggetti e angoli si inseguivano. La mia testa come un vortice. Ingoiavo tutto. Invece sputai sangue, zibibbo e anima. Il sonno fu il mio premio. Al risveglio la vidi intenta a cercare rogna su internet. Pensavo mi avesse lasciato dormire sul vomito. Però ero pulito. In fondo non era poi così cattiva. Scambiai la cura per l’igiene con un gesto di attenzione e mi chinai per darle un bacio. Si scostò d’urgenza e si diresse verso la cucina.

“Ho lasciato il caffè sul fuoco! – si giustificò – Ne vuoi un po’?”

“Si, grazie!” – e la conversazione divenne subito quasi formale. La mia certezza era che Carolina praticava sostegno se mi trovavo in stato d’incoscienza. Meglio che niente. La donna aveva trovato un indirizzo, poi un altro e ancora uno, fino a che non era riuscita a rintracciare il nome della società che si occupava della promozione della Light. Per beccare indirizzi e nomi si era creata un profilo da ninfomane su un canale chat. Li voleva maschi e di Palermo. Le donne non sarebbero state altrettanto utili. Un certo Venticentimetri, soprattutto,  dopo una chiacchierata e un round di sesso virtuale, le disse qual’era il suo lavoro. Dopo aver ricevuto altre lusinghe e una foto di una arrapante sconosciuta che Carolina aveva spacciato per se’, Venticentimetri le confessò nome e indirizzo dell’azienda per cui lavorava.

La vicenda non fu affatto semplice ma Carolina sapeva fare sognare quei  fantasmi. Traduceva in parola scritta la sapienza di amante rifinita. Ne aiutò più d’uno a farsi di impeto e sensualità, di eccitazione ed erotismo. Come l’avesse fatto da sempre. Niente di nuovo. Una foto falsa e tante parole a trovare uomini già disponibili a scoparsi da soli. Carolina interveniva dove faceva difetto l’immaginazione. Per rendere quasi reale qualcosa di falso. Sesso sicuro. Senza pregiudizi ne’ confini di genere. Carolina, per quanto ne sapevano quegli originali Nickname, poteva essere chiunque e qualunque cosa. Il tizio dei Venticentimetri per mollare tutta l’informazione però ebbe bisogno anche di un numero di telefono. Voleva essere sicuro di aver ceduto ad una voce di donna. Che almeno fosse femmina. Per non andare troppo in contraddizione con se stesso. Per ritrovare grammi di sicurezza mascolina dopo aver eiaculato su una tastiera.

Primo squillo.

“Vieni. Metto il vivavoce…” – mi convocò in fretta facendo segno con la mano. 

Secondo squillo. Vivavoce.

“Pronto.”

“Ciao. Sono io…” – aveva un accento orribile e una voce da magnaccio.

“Si. Ciao. Vedi che sono una donna? Non ti ho mentito…”

“Hai una voce bellissima. Perché non ci vediamo?

“Adesso non posso. Puoi richiamarmi e fissiamo per un altro giorno…”

“Va bene, cara. – ed era sempre più viscido. Lo squallore straripava dall’apparecchio – Allora ti chiamo domani.”

“Certo. Aspetto la tua telefonata.” Click.

Non capivo qual’era il mio ruolo in tutto quel casino. Carolina me lo chiarì subito. Dovevo andare al giornale a cercare informazioni su quell’azienda e poi dovevo accompagnarla se il tipo insisteva per vederla. Dovetti chiarirle che da noi non funzionava come nei film americani e che il giornale non era un buon posto per tirare fuori informazioni. Le inchieste non esistevano quasi più. I giornalisti che le facevano, nemmeno. La rimproverai perché era stata davvero incosciente a dare il numero di telefono di casa. Venticentimetri poteva scoprire il suo indirizzo in due minuti. Poi mi venne in mente che forse era quello che lei voleva. Forse aveva il gusto squallido per certi uomini unti e grassi come il suo capo al ristorante. Poteva essere così. Magari lo era davvero.

Misi a tacere le mie paranoie e la accompagnai all’indirizzo della Finlet, la azienda di marketing che procacciava contratti per conto della Light. Si trattava di un edificio a due piani in una traversa di Viale della Regione Siciliana, la circonvallazione della città. Venticentimetri le aveva detto che vi lavoravano più o meno un centinaio di persone. Lui si occupava della manutenzione tecnica degli strumenti informatici. Poi c’erano molte impiegate call center che lavoravano a cottimo, a percentuale, senza fisso. Il tizio aveva detto che erano alla continua ricerca di personale perché le donne del call center si stancavano, abbandonavano presto, non erano brave a fare contratti e soprattutto “non avevano nessuna voglia di lavorare”. Carolina voleva offrirsi per un part time da fare durante le ore di pausa di quell’altra schiavitù al ristorante. Pensai che avesse bisogno di stare a contatto con capi o colleghi di merda per sentirsi realizzata. Provai ad opporre qualche stronzata perché ci ripensasse. Non servì a niente. Lei era determinata in quel suo folle progetto. Doveva trovare la femmina che le aveva appioppato il contratto fasullo.

La portai al mare. Era il suo giorno di libertà e lo aveva sprecato a ripulire un ubriaco. Si consumò le dita per scavare nella sabbia. Raggranellava mucchi e li spargeva in fretta. Poi rifaceva montagne e le spianava a pedate. Chiese di mangiare un gelato e lo divorò senza un pensiero, una parola, una pausa. Sembrava persa e mi intromisi per toccare i suoi capelli. Le uscì fuori un sussurro che pareva mischiarsi al rumore della risacca. La misuravo con gli occhi e lei parlava.

“Mia madre è pesante. Sembra magra ma ha le ossa grandi. La sua pelle è per finta. Come se fosse appiccicata con la colla. Quando lei cammina, cigola. Io la sento sempre che si avvicina e mi viene alle spalle. Mi porta il caffè, mi sistema la stanza, mi mette a posto i vestiti puliti. Mia madre è stanca. La vedo dalla faccia. Ha una ruga brutta che sta dove non dovrebbe stare. Ha i capelli di plastica. Glielo dico sempre che non dovrebbe buttarci sopra quella tintura. Sono diventati come stoppa, come fili d’erba bruciata dal sole. Il suo piede è strano. Ha le dita storte. Si tinge le unghia di rosso. Non mi è mai piaciuto quel colore. Appesa a quella trave sembra pure più alta. Ora come faccio a tirarla giù.”

Serrò gli occhi, come una saracinesca calata con violenza. Si lasciò afferrare dalla spiaggia e si addormentò abbracciando sabbia. Non sapevo proprio niente di lei. Un poco di confidenze, qualcuno dei suoi traumi. Niente. Carolina non piangeva, non recitava mea culpa, non faceva la madonna votata al martirio. Lei non sapeva di umanità commestibile. Non la riuscivo ad acchiappare, neppure in superficie. Non era una cosa mia. Ma non era di nessuno. Quella, le parole e il tono, aveva l’aria di una confessione. Mi toccava approfondire. Sentire meglio. Capire di più. Sapevo che la sua famiglia era lontana, sperduta in un paesino della provincia. Carolina colorava spesso frasi del suo discorso con detti e aneddoti che avevano quella provenienza. Ma la sua famiglia rimaneva un mistero. Sembrava non avere nessuno ne’ padre ne’ madre. Una sorella, un fratello, qualche zio. Sempre niente. Nella sua casa non avevo visto fotografie, ricordi.

Carolina viveva una vita per volta. Mai tutte e tutte assieme. Non c’era da stare in confusione. Ma allora da dove veniva quella storia? Di che parlava? Perché doveva tirare giù la madre da una trave? L’avrei interrogata alla fine del suo sonno. Senza dare troppa importanza alla cosa. Temevo di vederla scappare, a rinchiudere il pianto con un lucchetto grosso che non lo apri neppure con la fiama ossidrica. Mi scoprivo a sentire tenerezza. Mi serviva proteggerla. Forse anche essere protetto. Lei di certo non era la persona adatta. Mi faceva sentire al sicuro solo in stato di incoscienza. Lo capivo. Si sostituiva a me. Io cedevo e lei si metteva a sputare fiamme per non darmi in pasto alle fiere. Una sera al ristorante ero assente, distratto. Un collega disse qualcosa di brutto e lei lo urtò con una brocca piena di vino rosso. Gli scivolò addosso, corposo e denso, come fosse sangue. Lei lo sfidò con gli occhi, in silenzio. Lui ebbe paura e abbassò lo sguardo. Non ne fece mai più parola ne’ in quel luogo ne’ in redazione. Solo non pronunciò mai parole o frasi d’offesa contro di me. Carolina sapeva di condanne senza perdono. Non penso praticasse amnistie. Neppure su se stessa.

[e.p.] 

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