E’ uno splendido post del nostro amico Riccardo. Non possiamo non condividerlo con voi.
Questo post non può prescidere da Lapidazioni italiane, provienente da Femminismo a Sud, e neppure da C’è un problema, scritto da Sassicaia Molotov. Un’avvertenza necessaria e tutta una serie di cose da considerare bene.
L’immagine che vedete, non si vedrà mai su nessun monumento. Su nessun Palazzo Vecchio. Su nessun Colosseo, che ultimamente è arrivato persino a fungere da supporto mediatico anche per soldatini di un esercito di assassini invasori. Non la vedrete mai come icona alla moda. Non ne sentirete mai parlarne nessun Sarkozy, nessun Saviano, nessuna Santanchè, nessun Napolitano, nessun sindaco di una città o di un paesino. Non ha nessun nome esotico; anzi, potrebbe avere benissimo il tuo nome. Potresti essere tu. Giovanna, Isabella, Fatma, Rachel, Vanessa, Dagmar, Aysha, Françoise, Encarnación. Potrebbe essere quello di qualsiasi donna di qualsiasi parte del mondo. Potrebbe essere qualsiasi immagine, in qualsiasi momento.
L’immagine di una casalinga qualunque, tra la cucina e la violenza quotidiana, tra i figli e la certezza che, a una data ora, si aprirà una porta e non ci sarà nulla da fare. Non è, però, un’immagine che serve ai giochetti dei potenti e delle loro corti; serve solo a una brevissima cronaca, e a due o tre giorni in cui, in mancanza di meglio, può contribuire alle vendite o agli accessi pubblicitari. L’immagine di una ragazzina che, in queste ore, potrebbe essere nelle mani del branco di scusabili, ché un pretesto buono lo si trova sempre. Potrebbe essere l’immagine di una donna di Ciudad Juárez, una fica con qualche chilo di carne da macello intorno; o quella di un’attiramaschi da discoteca, a ballare sul cubo in mezzo a vomiti, sudori, musiche assordanti. Le stesse che ti schiacciano in un tunnel a cura di una polizia, mentre credi di divertirti; le stesse che coprono le tue grida mentre, in un piccolo appartamento d’una periferia strana, il gentile ragazzo conosciuto alla festa sta ponendo fine alla tua umanità.
E non importa quel che credi, quel che pensi. Potrebbe essere la tua immagine anche se sei quella sedicenne che, non più di due sere fa, mi ha detto di persona di odiare i rumeni perché loro hanno lo stupro nella loro cultura; li odiava, sembra, anche la sua coetanea che poi è stata oggetto di un’esecuzione capitale in bicicletta, a cura del fidanzato veneto. Potrebbe essere la tua immagine anche se ti vendi e ti svendi, ché non ha alcun senso mettere la cosa in questi termini ora come ora. Potrebbe essere sì l’immagine di una delle gheddafine, ma nessuno si indignerebbe tanto per una qualsiasi hostess ingaggiata per un congresso di pentole, di medicine, di biancheria o di filmati. Ti vogliono sempre giovane e di bella presenza. Ti vendi perché fai parte, come tutti, del sistema in cui ciò che soltanto conta è vendere e comprare; e ne fai parte perché, poco o tanto, ti pagano. Esattamente come un operaio alla catena. Esattamente come un insegnante ligio o non ligio alla Gelmini. Esattamente come un precario o una badante, esattamente come un addetto teatrale o un autista di ambulanze.
Potrebbe essere, con quel punto interrogativo nel mezzo, la tua immagine viva o la tua immagine morta; l’immagine di un oggetto che può trovare o meno il suo uso. Potrebbe essere anche quella della signora Carla Bruni, quella di Nadia Desdemona Lioce, quella di Diana Blefari Melazzi, quella della madre sparata per strada con la figlia in braccio per dissidi familiari, quella della donna rom ammazzata come un cane dall’ex poliziotto razzista, quella di una delle decine di donne che ogni giorno muoiono male in tutto il mondo senza che a nessuno gliene freghi nulla. Perché nessuna è immune. E potrebbe essere anche quella di Sakineh, lontana dal vomitevole balletto che le viene danzato sulla testa e sulla pelle; ché a lorsignori non gliene importerebbe niente, se invece di essere in Iran fosse in una qualsiasi altra parte del mondo dove non stanno a arricchire l’uranio, a estrarre petrolio, a scompigliare equilibri internazionali. Non gliene importava a nessuno di Karla Tucker o di Aileen Wuornos, a parte a Diamanda Galás che le dedicò la sua impressionante versione della Iron Lady di Phil Ochs.
Ché l’immagine è quella decisa da Teo, e Teo decide se meriti di essere conosciuta o ignorata, se se sia utile o inutile, se convenga o non convenga a chi comanda. Decide Teo come debba essere l’immagine, se coperta o non coperta da un velo, se avvolta dal possesso travestito da finto amore per il contratto o la riproduzione, oppure fatta oggetto di pietre, di scariche elettriche, di iniezioni letali e di morali più letali delle iniezioni. E Teo è un personaggio strano, evanescente, proteiforme. Spesso va sotto il nome di Stato, perché non esiste uno Stato che non se ne faccia scudo; neanche uno. Non esiste lo Stato senza Teo, senza i suoi pilastri, senza la sua famiglia, senza la sua legge. C’è la Repubblica Islamica dell’Iran e la Repubblica Cattolica dell’Italia. Ed è totalmente inutile battersi per cose come la laicità, perché la laicità non potrà mai esistere finché esiste qualsiasi forma di Stato. Ci hanno abituati, da un po’, a credere che ci sia un Teo meglio di un altro; che ci sia un Teo d’amore e uno di odio, un Teo mit uns e un Teo nemico, un Teo giusto e un altro ingiusto; ma ne esiste uno solo, in tutte le sue mille forme in finto contrasto. Lui e il suo compare Stato. Lui e i suoi officianti in divisa da poliziotto o da prete, da giudice o da benefattore, da burocrate dei fogli o da burocrate dello spirito, da carceriere o da madonnina; e si pensi soltanto alle migliaia di volte in cui tutte queste sue forme si confondono, ai crocifissi nei bracci della morte e non soltanto nelle aule scolastiche, alle barbe marce e puzzolenti di tutti gli amministratori di violenza e di morte, e soprattutto al modo in cui liberarsene definitivamente, una volta per tutte.
Sulle facciate dei palazzi storici dovrebbe andare il profilo senza volto di una donna, perché la donna è una variabile impazzita nell’ordine di Teo e dei suoi servi. Una variabile che ha tutti i nomi del mondo, e che deve essere semplicemente utilizzata, gettata via, piegata, neutralizzata, sterminata. E non è, a questo punto, soltanto questione di disertare: è questione, invece, di lottare senza quartiere, di passare all’attacco frontale. Contro Teo e la sua morte, per la vita. Per un mondo dove non ci siano più morali costruite sulle più micidiali panzane trasformate costantemente in Stato e Legge. Per un mondo senza sacri pilastri. Per un mondo veramente libero. E smettere di crederci significa farsi complici di Teo e del suo Stato. Significa aprire lo sportello della macchina del branco che ti porta via. Significa scagliare la prima pietra, e non soltanto la prima.
Perché Teo odia le donne e le vuole morte. Ed è del tutto chiaro come mai. Teo è come il dottor Antonio dello straordinario episodio felliniano di Boccaccio ’70, interpretato da Peppino De Filippo. Teo ha sempre davanti il manifesto di Anita Ekberg che invita a bere latte, ché il latte fa bene. Teo deve distruggere quella tentazione, che lo ridurrebbe a quel che è: un ometto con il cazzo ritto, e con la rabbia di doversi tirare una sega perché lei non gliela dà. La morte, Teo, la ha creata per quello. Da qualche parte nell’universo c’è un armadio con dentro il cadavere di Tea, e anche lei è dentro quell’immagine senza volto e li ha tutti quanti.
Per coincidenza, proprio poco fa ho visto la notizia che lo stupratore femminicida Stevanin che ha fatto a pezzi sei donne e sta all’ergastolo, ora vorrebbe farsi frate ed entrare in convento
(…magari per uscire di galera? visto che con le perizie di quasi-pazzia che gli hanno fatto gli psichaitri, non ce l’ha fatta a evitarla…)