Ultimamente ci è stato chiesto più volte di segnalare il blog ‘il Porco al Lavoro’.
Prima di tutto, onde evitare in futuro che si creino situazioni analoghe in grado di provocare imbarazzi o malintesi, ci teniamo a precisare, nel caso non fosse evidente, che noi non siamo solit* produrre contenuti a richiesta – non lo abbiamo mai fatto, ma abbiamo sempre, in piena autonomia, pubblicato ognun* i propri post, segnalazioni (o diosacos’altro!), dato che non siamo un aggregatore di contenuti.
Quello che è ulteriormente necessario premettere è che, se la segnalazione poi viene fatta, non è possibile garantirne a priori il tenore… perciò qui di seguito le nostre impressioni, che forse non piaceranno a chi ci ha richiesto un interessamento in merito.
Già solo il nome del blog ci ha fatto storcere il naso, così come la ‘simpatica’ illustrazione in homepage: il ‘porco’ come parola dispregiativa e la figurina dell’uomo con l’ombra a forma di maiale è dichiaratamente specista (come anche la prima descrizione di questo datore di lavoro con ‘occhi di mucca’…). E noi, che siamo un collettivo antispecista oltreché antisessista, non possiamo che trovarla una trovata di pessimo gusto – e sottolineare una volta ancora come sia veramente miope continuare ognun* a badare al proprio orticello senza un reale cambiamento nel linguaggio utilizzato e nelle prospettive di lotta politica.
In merito al contenuto del blog poco importa sapere se gli eventi narrati sono reali o di pura fantasia: è il modello proposto che proprio non risulta apprezzabile. La figura della giovane donna che, incastrata suo malgrado in una realtà nella quale un uomo – approfittando della propria posizione e giocando con continue allusioni sessuali – tenta di portarsela a letto, e ciononostante resta dov’è (invece di andarsene seduta stante dopo aver assestato al viscido individuo un bel calcio negli zebedei e averlo smascherato di fronte a tutt*), per la remota possibilità di far ‘carriera’, è di una tristezza infinita e quasi anacronistica.
Lo dico da precaria e da individuo che, in quanto donna, ha subito nel proprio passato forme più o meno velate o urlate di molestia fisica sul luogo di lavoro. Lo dico però anche da persona che, nel corso del proprio percorso esistenziale e lavorativo, è giunta a ridimensionare fortemente quel senso di realizzazione che passa, o meglio dovrebbe passare, dal successo in campo professionale. Oh, si certo: sarebbe bello se questo desiderio fosse realizzabile, e sì, lo sappiamo, ci sono persone che guadagnano un botto di soldi per fare poco o niente. Così va questo mondo, e non penso che ciò sia giusto o accettabile. Ma inghiottire l’altrui merda e la propria dignità nella speranza di arrivare prima o poi a poter godere della propria fetta di torta… anche no, grazie.
Essere precari* è oramai un dato di fatto per la maggior parte di noi e ci colpisce tutt* indiscriminatamente: così capita che persone intelligenti, che hanno magari dovuto fare sacrifici per guadagnarsi dei titoli che si illudevano, ahimé, di poter spendere nelle proprie ‘magnifiche sorti e progressive’, si trovino di fronte a una torta che si fa sempre più piccola e risicata, e ad orizzonti personali sempre più rarefatti… mai come oggi il detto ‘homo faber fortunae suae’ è solo più una frase svuotata di senso.
Ciononostante, un percorso politico dovrebbe portarci a decostruire tutti quelli che vengono propagandati (dallo stesso sistema che poi ci stritola) come esiti desiderabili per ciascun*; a quel punto risulterebbe palese l’assurdità di alcune delle affermazioni della protagonista del racconto che sostiene ad esempio, nell’ultimo post pubblicato: “Smettila di lamentarti. Pensa a chi fa davvero fatica: tu sei solo una bianca occidentale che ha milioni di possibilità di fronte a sé. Tu non muori di fame, di tifo, di ebola. Tu non sei stata venduta a un bordello quando avevi 7 anni. Precaria sì, ma poteva anche andare peggio. E di molto. Una retorica, questa, che mi dà sollievo. Ma dura il tempo di un minuto. Poi ripenso la domanda. E rispondo: no, non tutte e tutti hanno fatto questa fatica.”
Già solo poter dimenticare in un minuto le realtà terribili enunciate poche righe prima (definibili retorica solo da chi ha la fortuna di non viverle in prima persona) dà la dimensione del privilegio che ci si ritrova, evidentemente, a incarnare quasi inconsapevolmente. Inoltre, essere dalla parte di coloro che vengono definit* ‘perdenti’ secondo il sistema dominante (che poi sono la maggioranza delle persone) è, per chi affronta un percorso politico reale, forse l’unico modo di esistere: chi rivendica giustizia – a meno che non la rivendichi esclusivamente per sé – dovrebbe essere incapace di accettare determinati compromessi…con gli altri certamente, ma più ancora con sé stess*.
Di più: che spazio può avere, in una persona realmente in lotta con un sistema che divora le nostre esistenze, il valore del rivendicare il proprio diritto a fare della propria passione un lavoro retribuito, costi quel che costi? Pare un orizzonte abbastanza limitato. Abbiamo ogni giorno davanti agli occhi esempi di persone che per vivere devono arrangiarsi, fare lavori precarissimi e non qualificati, ma capaci di esprimere la loro vera passione al di fuori di una logica salariale e di prestigio o realizzazione personale.
Nel caso in questione, se scrivere è l’obbiettivo, lo si può fare quando si vuole: la rete ha liberato le nostre possibilità di comunicare contenuti già da tempo e, perlomeno per quanto riguarda le persone più giovani, è anche il mezzo di comunicazione più utilizzato. Diventare giornalista – col suo corollario di retribuzione garantita, notorietà e autoreferenzialità – è altro. Per arrivare a quest’ultimo obbiettivo, nel mondo in cui ci troviamo a vivere, è quasi sempre necessario compromettersi.
E se a quel gioco non si vuole giocare, invece di odiare ‘tutti i raccomandati e le raccomandate. Odio i lecchini. Odio i rassegnati. E poi odio i precari come me. Che se la smettessimo di accettare tutto questo le cose cambierebbero. ’ si dovrebbe cominciare a ripensare i propri valori e le proprie esistenze in una chiave completamente diversa. Allora non si desidererebbe più soltanto la ‘propria fetta’, ma fette per tutt*. Si esigerebbe un reddito di esistenza, e non un ‘giusto’ reddito (giusto in base a cosa?). Si parlerebbe di diritto al rispetto e alla propria vita e individualità, per uomini, donne e ‘porci’.
Un conosciuto motto antispecista dice: non gabbie più grandi, ma gabbie vuote. E si può aggiungere: vuote di tutt* noi.
Perché altrimenti, se ci si ostina a cercare di salvare solo il proprio fondo dei pantaloni, senza scardinare alla base i falsi valori che ci sono stati inculcati (per renderci tant* brav* soldatin*) sostituendoli con altri e migliori, ognun* è il porco di qualcun altr*: buono per ricavarci tante salsicce.
i/le pennivendoli/e vendono anche loro stessi…
poi ci chiediamo come mai esistono i vari numa, genco, mazzola…
… se sono disposti a fare i ruffiani per avere un contratto fisso e tanti soldini a fine mese, perchè dovrebbero porsi remore nel distruggere sulla carta straccia le lotte e gli ideali di chi combatte per una causa profonda e vera, di quelle che vengon dall’anima e che sono non rientrano nelle logiche del denaro e del potere.
io capisco comunque che spesso la donna si può trovare in situazioni simili e mi rendo conto che non è sempre immediata la risposta. in un certo senso ho vissuto qualcosa di simile, anche se con modalità differenti. appunto per questo motivo mi intristisce vedere che esistono blog del genere, in cui è palese la voglia di sfruttare al meglio questa “storia” (appunto come dite voi non si sa se vera o fantasiosa… ma nella realtà poco importa) per riuscire a spiccare il volo nel mondo dei pennivendoli, facendolo però passare come una sottospecie di contributo alla lotta antisessista…
Fermo restando che ognuno/a scrive ciò che vuole..a me il tuo post non è piaciuto. Io del blog in questione ho letto pochi post, avevo notato il titolo specista e la tua analisi su ciò mi pare politicamente corretta ma, come ben saprai, il linguaggio è probabilmente l’ultima cosa alla quale si pensa dopo aver intrapreso un qualunque tipo di cammino. Il punto è che di certe espressioni (e non pensieri) ne siamo talmente intrisi che non ci rendiamo nemmeno conto di stare veicolando dei messaggi attraverso di esse. Ammetto dopo anni e anni di militanza (non dico quanti) che anche per me è tuttora difficile controllare il linguaggio e so di essere arrivata dopo moltissimo tempo anche solo a pensare che forse quel fastidio che sentivo, quella discrepanza, era dovuta a ciò.
C’è poi il tuo discorso di fondo sul lavoro che mi sfugge, e mi sfugge spesso come ben sai ogni tipo di contronarrazione precaria. Francamente non capisco la differenza tra questo blog e quello di Malafemmina, c’era lavoro precario in entrambi, c’è la volontà di farsi sfruttare in entrambi, l’unica enorme differenza non sta nel lavoro ma nel fatto che Malafemmina era una donna autodeterminata mentre Olga non riesce ad autodeterminarsi (poi non so come andrà a finire, se finirà). Non vedo poi perchè una persona debba rinunciare a far coincidere le proprie aspirazioni col proprio lavoro, non vedo proprio perchè, per essere meno choosy? Ho amici pittori che vendono le proprie tele piegandosi al mercato del momento ma non mi sembrano meno nobili dell’amica che fa la badante mentre il suo sogno era dipingere e ora si ritaglia del tempo per il suo hobby. Il lavoro è merda comunque, che si tratti di giornalismo o di fare gli infermieri, nessuno si senta migliore o peggiore all’interno di questo sistema. Baci. Jo
bhe noi su questo blog facciamo proprio questo 🙂 esprimiamo la passione per la politica e la militanza pur con vite precarie o addirittura completamente nude, al di la della precarietà
“Abbiamo ogni giorno davanti agli occhi esempi di persone che per vivere devono arrangiarsi, fare lavori precarissimi e non qualificati, ma capaci di esprimere la loro vera passione al di fuori di una logica salariale e di prestigio o realizzazione personale.”
Mmhm… E dove stanno? Io credo che i lavori precarissimi e non qualificati ti rendano incapace di esprimere alcunché (a parte le bestemmie intendo)