Anna ci invia questa interessante riflessione. Parte da un articolo di repubblica, più precisamente dal suo titolo, e fa quello che dovremmo fare tutte: si chiede come mai l’articolo dimostri evidentemente il contrario di ciò che dice il titolo (titolista e articolista sono persone diverse (?) e spesso il titolista segue la linea redazionale) e faccia intendere semmai che le donne, ben lungi dall’aver ottenuto qualunque forma di parità nelle professioni, a parità di condizioni guadagnino molto meno dei loro colleghi uomini e guadagnino certamente meno di tante loro colleghe in vari posti d’europa.
Concordiamo certamente con quanto ci scrive Anna. Evidenziamo come questo genere di articoli che ci danno per "vincenti" possono essere letti assieme alla serie di articoli misogini [1] [2] [3] in cui la parola "lavoro" riferita alle donne non è mai scissa dalla parola "carriera" e da quell’altra "cattiveria", sollecitando una mentalità che criminalizza le donne che lavorano, descrivendole come arpie sfasciafamiglie, perfide stronze che sul lavoro si comportano "peggio che gli uomini". Nessuno ovviamente si chiede perchè mai debbano sentirsi offese le donne e perchè l’accento negativo non sia posto sugli uomini usati come parametro di riferimento in quanto a perfidia e stronzaggine.
Uniamo tutto alla notizia della nascita di una associazione che dovrebbe tutelare i diritti delle donne nel lavoro, mettendo comunque in evidenza che di donne che agevolano altre donne, che le incoraggiano, che fanno posto, che le aiutano ad andare avanti nella professione e sul piano pubblico invece che seppellirle tra invidie, dispetti e rivalità, pare ce ne siano poche, e otteniamo un sistema che si autoalimenta.
Un sistema in cui manca il lavoro, poche riescono ad ottenerlo, la maggior parte in condizioni di grande precarietà (altro che donne in carriera!), più grande è la precarietà più forte è la tentazione di fare le scarpe alla collega, un sistema che ci spinge a restare a casa a fare le mogli e le madri perchè è quel ruolo che il governo ci assegna per risparmiare in strutture e in servizi, un sistema in cui gli uomini guadagnano più di noi, hanno certamente qualche possibilità in più e non possono che gioire se le donne si scannano tra loro tenendo la tensione al livello di guerra tra "povere" invece che elevarla ai piani alti verso chi ci manda al massacro.
Ed ecco che la riflessione di Anna ha un senso pieno e si capisce anche che Repubblica, la Saraceno e chi per loro hanno evidentemente deciso di collaborare a pieno titolo con chi sostiene che se non ce la fai è per colpa tua perchè, "non è forse questo il migliore dei mondi possibili?". C’è chi nasconde la crisi e c’è chi insistentemente, ovunque, senza differenza di testata giornalistica, nasconde il fatto che di lavoro non ce n’è, men che meno quello "rosa", dove il "rosa" sta per trattamento discriminatorio e dunque diverso nonostante il nostro cervello abbia lo stesso identico colore di quell’altro maschile. Ringraziamo Anna e buona lettura.
Il potere della parola e l’ipocrisia di Repubblica
Care tutte di “Femminismo a sud”,
volevo segnalarvi lo speciale di Repubblica apparso venerdi nell’inserto R2 sul lavoro femminile dall’ammiccante titolo di “Il lavoro in rosa”. Zucconi apre con un incoraggiante editoriale sull’imporsi delle donne nel mondo del lavoro e sugli enormi passi avanti compiuti nell’ultimo secolo.
Anche i sottotitoli degli articoli sembrano far riferimento ad una crescita esponenziale della partecipazione femminile nel mercato del lavoro, quasi sembra evocare una trasformazione antropo-sociologica del lavoro stesso!
L’articolo centrale è firmato da Chiara Saraceno, sociologa della famiglia, una delle voci più autorevoli sul tema della discriminazione sessuale generata dalle istituzioni sociali e dai meccanismi che regolano il mercato del lavoro e le politiche di welfare. Quando leggo il suo nome associato ad un titolo tanto “ottimista” sono molto sorpresa e penso: “ O la saraceno si è venduta, oppure io non mi sono accorta che stiamo conquistando il mondo!…coma mai nessuna mi ha avvisato!”. Ancora dubbiosa comincio a leggere l’articolo a firma della Saraceno che dopo 3 righe dedicate ad informare di un lieve miglioramento della partecipazione femminile al lavoro, comincia a snocciolare una serie infinita di statistiche che dimostrano che l’equità è tutt’altro che a portata di mano! Vi ho mandato i link in modo che possiate verificare voi stesse.
A questo punto mi sorgono due osservazioni: una, che Repubblica avrebbe potuto,anzi avrebbe dovuto, scegliere tutt’altro titolo rispetto a quello rassicurante e confortante che ha pubblicato. E mi chiedo allora perché la scelta di un tale titolo? Io una idea me lo sono fatta e chiedo la vostra opinione a riguardo: non pensate che per l’ennesima volta, come anche per altri aspetti della vita sociale del nostro paese le cose si rappresentano come si vorrebbe che fossero nell’intento che la gente creda a quello che leggono o ascoltano piuttosto che a quello che sperimentano quotidianamente nella propria vita?
In secondo luogo credo sia utile soffermarsi sui dati esposti dalla Saraceno anche per noi donne e magari aprire un dibattito pubblico capace di sollecitare la coscienza di noi donne e smuovere l’opinione pubblica. Solo qualche esempio. “… una donna manager in Italia guadagna il 35% in meno di un pari grado, a fronte del 15% medio nella UE… In Italia una laureata guadagna in media solo il 3% (media UE 12%) in più di una con la licenza di scuola media superiore, a fronte del 58% (media UE 63%) in più spuntato da un laureato.” Proprio quella stessa mattina di venerdi mi sforzavo di convincere un mio collega di quante fossero le ragioni di discriminazione per una donna lavoratrice e quante le iniquità rispetto agli uomini, eppure lui, persona colta, istruita, e sensibile a certe tematiche stentava a credermi e sinceramente riteneva quanto gli dicevo un po’ “esagerato” frutto di un atteggiamento vittimista o revanscista (sic!)…
Con stima,
Anna