da Abbatto i Muri:
Chi non conosce Emma Dante e il lavoro che lei svolge con la sua compagnia teatrale, la Sud Costa Occidentale, forse rimarrà sorpres@ nel vedere questo film. La stessa estraneità ai luoghi, al linguaggio e alla gente di Palermo potrebbe far pensare che quello che il film racconta sia tutto frutto della fantasia.
Guidare per la città e perdersi in una delle favelas palermitane non è una coincidenza inverosimile. Anzi. Solo a guardare questo film mi sono venuti mille episodi nei quali mi sono ritrovata e uno tra tutti con un signore che rispose ad un colpo di clacson di una delle macchine in fila prendendo a pugni il cofano della mia auto e chiamandomi puttana.
E’ tutta una questione di prospettiva, come il racconto lascia intendere. Dipende da quale punto di vista guardi quel che ti sta succedendo. Se la tua visione è un po’ più aperta ti si aprono nuove prospettive, nuovi possibili spazi. Invece qualche volta ti ritrovi a vivere la dimensione angusta di chi vive nella propria prigione.
Una coppia lesbica torna a Palermo per partecipare al matrimonio di un amico. Tra le due c’è la palermitana che vive con rabbia quel ritorno in una città che vive con insofferenza. Linguaggi, carnalità, corpi, sudore, sapori, puzze, ritagli di pelle. C’è tutto questo nelle scene che raccontano l’inizio della storia. Le due ragazze vivono i gesti normali di chi non riesce più a comunicare. Tra battibecchi e gesti impazienti si perdono in una strada senza sbocco, bloccati dall’auto di una famiglia in cui restare muti sembra una azione rivoluzionaria.
I Calafiore sono capeggiati da un uomo disgustoso, feroce, violento. La vita di quella famiglia è regolata da quella specie di capo famiglia che mortifica, ricatta e umilia la madre della sua seconda moglie, lui, due volte vedovo, lei alla guida dell’auto a portare avanti una sfida all’ultima botta di paraurti.
Due macchine che si fronteggiano, nessuna delle due fa retromarcia per fare passare l’altra, c’è Rosa che non può darsi per vinta e cedere la pelle a quella città che non la fa stare bene. Samira racconta un’altra lotta, fatta di orgoglio e di riscatto, lontana da quel genero scellerato, in uno scontro tra donne mentre attorno ad esse gli uomini organizzano comunque un modo per trarne guadagno. La resistenza, quella forza, la rinuncia, lo sciopero della fame, della sete, il colore della piscia, quello che è vita e morte allo stesso tempo e infine la speranza di un cambiamento perché c’è un giovane ragazzo che da quella melma viene fuori con uno sguardo un po’ meno indifferente e complice.
Il film riesce a farti entrare in una relazione lesbica, dentro una famiglia maschilista e patriarcale, in un contesto in cui l’unico linguaggio è la violenza, nella stessa relazione madre e figli, dove non si riesce a parlare se non attraverso gli urli, nelle case di tante persone che nelle favelas vivono, baracche un po’ più “belle” perché al posto delle pareti di lamiera vedi le pareti abusive con i mattoni di tufo, nelle relazioni di famiglie fatte di personaggi sporchi e così inevitabilmente veri.
La storia parte da qualcosa di vero ed estremizza in chiave narrativa le sue conclusioni ma tutto quel che ho visto è roba impressa nella mia carne e nella mia memoria. Conosco quei dettagli e riconosco il genio di chi è riuscito a renderli così evidenti, a definire le storie familiari di tanta gente che è vittima e carnefice e che va vista in tutta la sua complessità.
Se volete sapere perché l’umore palermitano arriva dritto allo stomaco e di che pelle è fatta Palermo leggete il libro o guardate il film. E’ in palermitano ma con i sottotitoli. Con attrici e attori bravissimi. E sono certa che stupirà anche voi.