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Biografia di una Iena (prima parte)

Capitolo su stereotipi sessisti e violenze sugli uomini. Riceviamo e molto volentieri condividiamo Questo racconto che si svolgerà a puntate, di cui adesso potete leggere la prima parte, dal titolo “Biografia di una Iena” scritto da N., un uomo. Buona lettura.

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Tutto ciò che è scritto in queste pagine, benchè difficile a credersi in molti punti, è assolutamente reale, avvenuto e, volendo, dimostrabile. I nomi delle persone sono volutamente cambiati, così come i luoghi geografici non sono precisamente identificati. Molti fatti che vengono riportati sono piuttosto crudi e queste parole non sono adatte a persone particolarmente sensibili, per quanto per me siano stati l’assoluta quotidianità, sia da bambino, sia da adolescente, sia da adulto. Non giudicatemi per quanto riporto: in molti casi non ho avuto possibilità di scelta. Vi prego di leggere queste parole in maniera acritica, semplicemente come testimonianza personale. Le opinioni espresse nei confronti di persone/situazioni/posti sono assolutamente personali, frutto delle esperienze da cui trassi le mie conclusioni al momento, giuste o sbagliate che possano essere.

1- L’INFANZIA

Nasco nell’ospedale di una cittadina del centro-sud nel 1969, dopo un parto cesareo e un travaglio abbastanza sofferto, almeno a detta di mia madre. Sono un bel bambinone sano del peso di oltre 4.500 grammi e dopo pochi giorni vengo riportato a casa. Mia madre è una casalinga, classe 1935, seconda elementare mai terminata, che legge a malapena e scrive ancora peggio e viene da una famiglia di zappaterra e minatori.

Mio padre è un operaio, classe 1930, orfano di padre fin da bambino, molto colto ma analfabeta per lo Stato: gli anni in collegio dai frati andarono perduti nel grande calderone di sangue e fango che fu la seconda guerra mondiale sulla linea Gustav. La sua passione adolescenziale per l’elettricità e l’elettronica e la tecnologia in genere lo spingono verso studi autodidatti, concretizzatisi dopo anni in un posto da elettricista in Montedison. Vivo in un paesino pedemontano del centro-sud di duemila anime circa, frazioni comprese.

Abito in campagna, assieme ai miei zii materni e ai loro figli, in una piccola fattoria circondata da oliveti e pascoli, senza acqua calda, senza telefono e con il bagno all’esterno, vicino ai recinti per gli animali. Resto figlio unico, a causa di problemi di salute di mia madre. La solitudine mi pesa, ma ho un cugino di tre anni più grande che gioca con me, gli animaletti della fattoria, un bellissimo cane lupo (che mi salva anche la vita tirandomi via da un pozzo scoperto in cui sto per cadere e come ricompensa rimedia un sacco di botte da mio zio che credeva volesse mordermi) e in più c’è mia madre, poverina, che si sforza di leggermi favole e racconti alla sera, con quel suo italiano stentato.

Vivo in una famiglia piuttosto tranquilla per gli standards dell’epoca: mia madre ogni tanto tira qualche piatto a mio padre, che se ne esce borbottando e se ne va a giocare a carte su in paese. Seguono lunghi giorni di silenzi interminabili che io non capisco, ma del resto ho solo 4 anni. In compenso imparo a leggere prestissimo e a 5 anni già leggo libri, almeno quelli che mi sono consentiti dalla supervisione orgogliosissima ma iperprotettiva di mio padre. Il Libro della Giungla è il mio preferito. Ovviamente la televisione non ce l’abbiamo, però ascoltiamo sempre la radio e la musica non manca mai in casa mia, a qualunque ora.

Mia madre è una persona succube della società patriarcale del luogo e del periodo: non prende decisioni, non ha iniziativa, è molto devota e cattolica praticante. Mio padre invece è socialista, partecipa attivamente al movimento operaio: all’epoca in più di un’occasione si ritrova a manifestazioni di fabbrica e scioperi, anche piuttosto violenti. Mio padre è in effetti una persona molto frustrata e molto violenta, ma raramente lo è in famiglia: non ricordo una sola volta in cui abbia mai alzato una mano su mia madre, eppure dalle mie parti è la regola in quegli anni (ma anche dopo), e nessuno ti dice nulla se ogni tanto molli un ceffone a tua moglie, anzi.

Con me è molto affettuoso ma estremamente severo, e più di una volta mi prende a dolorosi sculaccioni, a volte anche esagerando un po’, ma nulla in confronto alla rabbia che esprime nel mondo “esterno”: la sua furia, quando si scatena (piuttosto facilmente) è estrema. Ricordo un episodio in particolare: stiamo andando in macchina da un medico specialista quando, lungo la strada, un cane da caccia esce improvvisamente dalla boscaglia. Mio padre frena immediatamente ma non può evitare di toccare il cane, che nell’urto gli rompe un fanalino dell’auto. Ci fermiamo e lui scende dalla macchina.

Dopo essersi accertato che il cane non si fosse fatto male, aspetta guardandosi intorno in attesa del cacciatore, che esce poco dopo in strada. Papà gli dice di stare attento ai suoi cani e di ripagargli il fanalino. Il cacciatore, non so per quale motivo, imbraccia il fucile e spara al povero cane. Tutto avviene in meno di tre secondi: mio padre gli salta alla gola, gli prende il fucile dalle mani e lo getta via, poi inizia a martellarlo di pugni fino a sbatterlo a terra e poi gli prende la testa e continua a sbattergliela sull’asfalto gridando “bastardo!” “assassino!” “carogna!” mentre mia madre cerca inutilmente di fermarlo ed io assisto muto e scioccato, seduto sul sedile posteriore della nostra Prinz bianca.

Mia madre riesce dopo un po’ a farlo ragionare e così rientrano in macchina e ripartiamo, lasciando un cane morto al limitare della strada e un cacciatore sanguinante e tramortito. Io resto zitto, anche perchè mi accorgo che papà sta piangendo in silenzio e non è il caso di dire nulla. Non so se piangesse per il cane, per il cacciatore (poco probabile) o per avermi fatto assistere al suo scoppio d’ira. Non l’ho mai saputo. Mio padre non è mai stato estraneo dal commuoversi, ma guai a farglielo notare: “sono le femmine che piangono in pubblico: i maschi soffrono in privato”. Io intanto cresco piuttosto malaticcio: mi diagnosticano una brutta forma di colite spastica e mangio poco, vomito spesso e basta mangiare qualcosa di particolarmente condito che mi viene subito la diarrea.

Spendono stipendi interi per portarmi in giro a farmi visitare, senza alcun risultato. Sono magro, con la testa enorme rispetto al corpo e le orecchie da Dumbo, abbastanza denutrito e decisamente sottosviluppato per la mia età. Intanto gli anni passano e io cresco nella fattoria. A sei anni inizio ad aiutare mio cugino più grande, e alle cinque di mattina andiamo insieme a pascolare le pecore fino a poco prima delle otto, quando arriva mia zia o mia madre e noi ci avviamo per prendere lo scuolabus che ci porta in paese. Nel frattempo imparo a fare quasi tutte le attività che un bambino può fare in una fattoria, tranne ammazzare gli animali. Non sono capace. Mia zia ci prova e si impegna nell’insegnarmi ad uccidere almeno un pollo e mi consegna tutta speranzosa uno dei condannati di quel giorno ma, dopo vari tentativi di minacce a mani nude e a mano armata, appare evidente che il pollo si rifiuta di suicidarsi e io non sono in grado di ucciderlo.

Provo anche ad affogarlo, pensando che sia meno doloroso, ma lo sguardo folle di paura del povero pollo mi fa presto desistere. Inutile. Sento lo sguardo di riprovazione dei miei parenti verso questo nipote intelligente ma debole, fifone e senza palle. Opinione che si radica ancora di più quando ammazzano il maiale: non c’è verso di farmi uscire da sotto il letto finchè non è tutto finito. Quindi per i miei zii e cugini sono uno smidollato. Pazienza. Intanto scopro il sesso a sei anni, in maniera del tutto fortuita, mentre porto da mangiare agli animali della fattoria: vedo il coniglio maschio che salta sulla coniglia e dopo un po’ di movimento crolla a terra, apparentemente morto.

Chiamo mia zia dicendo che è successa una disgrazia e che il coniglio è morto, le spiego cosa è successo e mia zia sorridendo bonariamente mi dice che no, il coniglio non è morto, si sta solo riposando, e che è così che nascono i coniglietti. Siccome sono un bambino piuttosto intelligente, faccio due più due ed estendo il concetto a tutti gli animali, persone comprese. Mentre accadono tutte queste cose ed altre simili che non sto a menzionare, i miei genitori intanto si impegnano da pazzi in questi anni a parlarmi solamente in italiano e a non dire la benchè minima parolaccia. Ci riescono talmente bene che al primo giorno di scuola sono praticamente un handicappato: non so parlare il dialetto e non so cosa significano le parolacce.

So già leggere e scrivere rispetto agli altri bambini e non urlo come un babbuino in calore. In quanto “diverso” sono ovviamente un bersaglio rispetto al piccolo branco. Mi ritrovo circondato da venti bambini e bambine che parlano una lingua che non capisco e mi dicono insulti a cui non so dare risposta. Chiedo alla maestra cosa significhi “vaffanGulo” e per risposta finisco dritto dalla direttrice la quale chiama mia madre tramite il bar di una frazione vicina e lei si fa 4 km a piedi per venire a vedere cosa ha combinato questo figlio tanto amato quanto problematico. Non capiscono ovviamente le mie ragioni e racimolo un tot di schiaffoni da parte di mia madre, con l’aggiunta della vergogna perché li prendo in pubblico, davanti alla direttrice che sorride malevola, o almeno così mi pare di ricordare.

Intanto mio padre è diventato specializzato, lo stipendio è più alto e possiamo andare a vivere in paese in modo che “il bambino possa stare di più con i suoi amichetti” . Penso: “Grazie papà, che gioia! Così possono menarmi tutto il giorno anziché solo durante la scuola!” Vabbè, pazienza. Recupero in fretta e dopo alcune dosi di linciaggio collettivo fuori dalla scuola, più varie sassate e sputazze prese, cerco di adattarmi all’ambiente circostante, imparando dialetto e parolacce come un vero indigeno. Se sul versante linguistico mi adatto bene, sul versante del comportamento mi applico con scarsi risultati: c’è un ragazzo grande del mio paese che è un bonaccione, ma è evidentemente disabile e i bambini, specie i più grandi, si divertono a sputargli addosso e a tirargli sassolini giacché lui non può scappare veloce essendo spastico.

Mi impongono di sputare e tirare sassi anche a me, altrimenti vuol dire che sono come lui e dunque il prossimo sarei stato io. Questo tipo di cose è profondamente contrario alla mia educazione, però voglio essere disperatamente accettato, così chiudo gli occhi sperando di non colpirlo e sputo e tiro sassi anche io. Non funziona. I bambini riconoscono la cattiveria e non puoi far finta di averla quando non ce l’hai, così dopo l’umiliazione di essere andato contro i miei principi, mi ritrovo anche io coperto di sputazze e sassate. Torno a casa tutto ammaccato e ci prendo altri schiaffoni da mia madre – “guarda come ti sei ridotto!” – e poi anche da mio padre – “non si fa a botte! Guai a te se lo rifai!” – Ovviamente i miei tentativi di spiegare che non ho “fatto a botte” ma che mi sono limitato a prenderle non sortiscono alcun risultato. Pazienza.

Per fortuna non tutti i bambini sono così, anzi molti sono fondamentalmente buoni, ma guai a mettersi contro i soliti 4 o 5 bulletti, per cui volente o nolente, mi ritrovo quasi sempre da solo o con altri “sfigati” come me. Dai grandi non viene nessuna comprensione né aiuto: mio padre rimane vittima di un grave incidente sul lavoro e si ritrova con un polmone bruciato dal cloro, in più ci sono tutti i macroavvenimenti “che noi bambini non possiamo capire”: le stragi di stato, le BR, il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro e via così. Come se non bastasse, nel mio paese gli hobby principali della maggior parte dei ventenni erano “dai fuoco al gatto randagio”, “spariamo ai cartelli stradali” e “beviamo fino a non capire nemmeno in che pianeta ci troviamo”. Siccome sono un tipo sveglio capisco subito di essere solo, e mi rifugio nella fantasia.

Leggo “l’isola del tesoro” con grandissima emozione e mi convinco fermamente che anche nel mio paese dev’essere pieno di tesori: ci metto del bello e del buono per farmi aiutare da alcuni amichetti ad andare esplorando sotterranei, case abbandonate, grotte e quant’altro. Ci infiliamo nell’ossario di una chiesa del Cinquecento con corde e candele e troviamo montagne di scheletri ammucchiati e vecchie librerie piene di vecchi messali scritti in latino. L’immaginazione è così forte che in quei libri ci sarà sicuramente la mappa di almeno un tesoro scritta in codice con quella lingua ignota, così ne prendiamo uno a testa promettendoci di dividere fraternamente il bottino e ce li portiamo via per “studiarli”. Il giorno dopo mi ritrovo i carabinieri sotto casa e li sento dire a mia madre che sono il “pericoloso capobanda” di un gruppo di teppistelli saccheggiatori di chiese: oltre alla vergogna davanti al paese, mi devo sorbire tutte le botte da mia madre e da mio padre.

Pazienza. Decido che anche la fantasia può essere una cosa pericolosa e quindi devo stare molto attento. Nei mesi successivi il mio gatto muore avvelenato: io collego le uscite serali del mio vicino con cibo in mano alla morte del povero micio e tento per rappresaglia di bruciargli la macchina nottetempo, senza riuscirci ma anche senza conseguenze legali, a parte le botte di papà che la sapeva lunga e che mi intercetta mentre cerco di prendere della benzina dal garage. Una cosa rimasta tra me e lui e che non ha mai detto nemmeno a mia madre. L’anno successivo finisco le scuole elementari con il massimo dei voti e mi accingo alle scuole medie con grandissimo entusiasmo, convinto di essere ormai grande e di vedere finita questa infanzia fatta di solitudine, di delusioni e di botte prese.

Purtroppo, rimango vittima del pollo agli steroidi e mi guardo allo specchio con angoscia vedendo il mio petto crescere dolorosamente e in maniera non naturale. Panico mio e della mia famiglia: altri stipendi spesi in specialisti, punture su punture costosissime. Dico addio ad una infanzia di merda iniziando una preadolescenza di merda. Però con lo sviluppo mi passa improvvisamente la colite spastica e inizio a crescere a dismisura, superando di parecchio in altezza i miei ex compagni delle elementari, i quali decidono saggiamente che è meglio lasciarmi in pace. Forse non è tanto di merda, come inizio.

—>>>to be continued…

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