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Processo per la morte di Barbara Cicioni. Il marito: “le davo smanate, non botte”


Femminicidio Barbara Cicioni: le mie impressioni sull’esame di Spaccino.

di Barbara Spinelli (autrice del libro *Femminicidio*)

Nei giorni 27 e 28 gennaio si è tenuto, nell’ambito del processo per il femminicidio di Barbara Cicioni, l’esame di Roberto Spaccino, imputato di aver ucciso la moglie. Molti i suoi parenti presenti in aula, poche le femministe, tutte compagne della rete delle donne umbre.

Questo, a quanto pare, è stato elemento di forza per Spaccino, che psicologicamente ha retto molto bene ai due giorni di esame, sempre evitando lo sguardo della suocera, Simonetta, la mamma di Barbara Cicioni. Nonostante egli continui a negare la propria responsabilità per l’omicidio della moglie, numerose e rilevanti restano le contraddizioni nella “sua” ricostruzione della sera dell’omicidio, del suo litigio con la moglie, della sua vita coniugale.

Ma, aldilà degli aspetti che riguardano l’accertamento la verità processuale, assistere all’esame, per chi estraneo al processo, avrebbe significato cogliere il grado di “normale violenza” della coppia italiana. Un elogio della violenza “soft”, nel quotidiano. Spaccino, imputato anche per maltrattamenti nei confronti della moglie e dei figli per tutto l’arco della vita coniugale, per rispondere alle accuse mosse dal Pm ed alle testimonianze, già numerose, di episodi di violenza cui avevano assistito anche terzi, si è speso in una sofistiche distinzioni tra violenze “perbene” e violenze “permale”.

Io non sono il mostro che hanno dipinto la stampa e la televisione, ha detto. “io a mia moglie non gli ho mai messo le mani addosso, non gli ho mai menato”. E si spiega. O, forse, a mio avviso ci spiega quello che tanti mariti, tanti padri, tanti figli maschi pensano, quando picchiano le mogli, le figlie, le sorelle, le madri, e si stupiscono se queste se ne vanno, li lasciano, o li portano in Tribunale. Spaccino rappresenta l’italiano medio, quello che statisticamente fuori casa è lo stimato paesano e professionista, il piacione, e dentro è l’aguzzino. Ascoltare lui, aiuta di certo a capire quali sono i meccanismi di pensiero alla base della violenza, quali sono i meccanismi culturali da scardinare per cambiare qualcosa.

A una corte di giurati attenti, alla sua difesa agitata, alla P.M. che lo esamina ed agli avvocati di parte civile a volte attoniti dalle risposte, racconta con tranquillità, anzi, arrabbiato e urtato quando non viene capito, la distinzione tra discussione (solo insulti verbali) e litigio (quando si menano le mani). Schiaffetti, schiaffoni, “scoppolotti”, “sventoloni”, “smanate” non sono botte. “Botte”, risponde Spaccino a una PM che non riesce a capire, “sono quelle che lasciano il segno” come i “boccaloni”, gli schiaffi forti dati contromano, quelli che invece qualche danno lo fanno, “gli schiaffi veri” che due, tre, quattro volte sono capitati, con Barbara.

Il quadro che ne emerge è quello di una violenza normale, non riconosciuta in quanto tale da Spaccino, che ingenuamente e con dovizia di particolari confessa i maltrattamenti, non riconoscendoli in quanto tali. “O mi spiego male io o non lo so”, dice spiegando le sue distinzioni, “io non ho mai alzato le mani a Barbara”, insiste. Racconta di una famiglia in cui le discussioni –per il lavoro, per la gelosia di Barbara, o “se la cena non era pronta”, o “quella volta dei calzini” – erano normali: gli “schiaffetti reciproci” si ripetevano “spesso” e, in quei casi, gli sventoloni volavano “per calmarla”. Ma, sottolinea più volte lui, anche Barbara in questi casi “smanava”. Come se parare i colpi fosse una reazione che legittimasse i suoi. Si picchiavano, ma non per farsi male, spiega.

Chiede la PM “ma se dice che gli schiaffetti reciproci è normale, perché dice io non ho mi alzato le mani?” “Perché erano schiaffetti leggeri” risponde lui. E volavano le parole: oziosa, sfaticata, mi fai schifo, sei un cesso, una puttana come tua madre (colpa della madre, quella di essersi separata in giovane età da un marito violento). Le discussioni avvenivano anche davanti ai bambini, che li vedevano arrabbiati, “ma solo in qualche discussione leggera”.

Anche quella maledetta sera, nella discussione con Barbara, erano volate delle smanate, e quando lei –secondo la sua versione- si era messa da sola un cuscino sulla faccia, per non far sentire la discussione ai bambini che dormivano nella stanza di fianco, lui l’aveva colpita sul cuscino con degli schiaffetti, “ma leggeri”, non forti, e parava i suoi colpi. Si, perché Barbara, quella sera, gli aveva pure, con una delle sue smanate, fatto male a un dito. Forse l’ha presa anche per il collo, “ma se l’ho fatto è per difendermi”, dice lui, correggendo quanto aveva dichiarato in fase di indagini preliminari, dicendo che non l’aveva presa per il collo, ma forse, toccata sul collo.

Insomma, per Spaccino le parole fanno la differenza, ma bisogna sempre capire come le intende lui. Ad esempio, spiega alla Corte, era vero che, come emerso da alcune testimonianze, si rivolgeva spesso, in presenza della moglie ma anche parlando di lei con altri, “io questa prima o poi l’ammazzo”, ma spiega Spaccino, è un modo di dire del suo paese, “da noi si usa spesso”, “era un intercalare nostro, mio e di mia moglie”. Però, dice, portatore di una saggezza antica, “tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare”. E si apre un surreale siparietto che, se non fosse stato per il contesto, sarebbe stato a dir poco esilarante. “se avessi dovuto uccidere tutti quelli a cui ho detto prima o poi ti ammazzo”, continua Spaccino, forse non ci sarebbe più vivo neppure il suo difensore, che da giovane, quando giocavano a calcio insieme, se lo era sentito dire da lui parecchie volte. La PM lo riprende, chiedendogli se oltre a sua moglie era morto qualcun altro, di quelli a cui l’aveva detto, lui non coglie però la gravità del contesto, e, nell’imbarazzo generale, risponde che sì, erano morti, “ma non di morte violenta, voglio sperare”, osserva la PM, cui lui risponde si.

Spaccino è esasperato dalle domande sul suo rapporto con la moglie, si arrabbia, dice che tutti ce l’hanno con lui e che “io non ne posso più, non posso pensare di avere fatto quello che dicono di aver fatto”, e insiste: “Io a mia moglie non ce l’ho mandata in ospedale, io ne ho vista di gente che fa violenza, che mena la moglie, io non sono così”. E sorride, nel controesame, in cui risponde alle domande, emblematiche pure queste della linea difensiva, che uno dei suoi difensori gli fa a raffica: “Fuma? Beve? Gioca d’azzardo? Ha mai avuto una relazione extraconiugale fissa?” Tutti dicono che lui è cattivo, ma ….Roberto non beve, non fuma, non gioca d’azzardo, tutti gli anni portava la famiglia in vacanza al mare, regalava le rose alla moglie ad ogni compleanno, salvo poi far scegliere i regali per lei alla zia, “perché si lamentava che gli regalavo sempre le stesse cose”. E, ogni mattina, portava la colazione a tutti a lavorare. E non ha mai fatto delle risse, avuto delle denunce. E’ vero che ha detto qualche volta pure ai suoi figli “ti ammazzo”, ma l’ha già spiegato, è un modo di dire. Se mai ci fosse bisogno di confermare questa sua versione, rinforzarla, gli domanda il suo difensore “ha mai desiderato la morte dei suoi figli?”.
Ogni commento è superfluo.

Si arrabbia Spaccino anche quando si parla delle sue relazioni extraconiugali, (“Barbara non sapeva delle mie scappatelle”) le tante donne conosciute alle terme, quelle conosciute nel giro del calcio, le clienti. Esattamente come avvenuto in sede interrogatorio, alla domanda della PM, se mai avesse fatto delle avances a donne al di fuori del matrimonio, se avesse avuto delle storie, convintamente risponde di no, anche qui accusando di essere stato dipinto male dalle testimonianze, che non ha avuto nessuna scappatella…”si dice che io andavo al night tutte le sere, non è vero, roba che io, nella mia CARRIERA, ci sono andato solo qualche volta”.

E, per approcciare, nega, come testimoniato da una ragazza del night, di aver raccontato che la moglie era malata di cancro, che uno dei figli non era suo…”quando stai li qualcosa ti inventi”….

In realtà, racconta Spaccino smentendo le dichiarazioni rilasciate in sede di interrogatorio, questa ragazza gli aveva rubato il numero mentre era in bagno, e l’aveva “quasi ricattato”, straniera, facendogli gli squilletti spesso perché lei, straniera, voleva un passaggio….
E anche la spogliarellista colombiana, conosciuta a una festa, con la quale ammette di aver avuto un rapporto sessuale, l’aveva provocato…l’aveva chiamato a vedere che doveva lavare dei tappeti, era una cliente della lavanderia…un rapporto in cambio del lavaggio di un tappeto…

E poi F., M. e le altre…. Ma non è come dicono loro, lui non ci provava, faceva le battute, “io facevo le battute anche alle 65enni come clienti”. E, quando Barbara coglieva qualcosa, lui si arrabbiava. “Proprio non ne potevo più di questa gelosia..”, è per questo che convince la moglie ad aprire, a nome suo, una succursale della lavanderia in un altro paese, “perché lavorando insieme si discuteva più spesso”….”non la smetteva più di dire…sta gelosia, sta gelosia”.

Ma il punto chiave dell’esame, riguarda alcune intercettazioni avvenute in carcere, in cui Spaccino a colloquio con la sua famiglia, riporta che avrebbe detto al suo legale che era colpa sua della morte della moglie. E’ il suo legale a fargli la domanda, che cosa volesse dire con quelle parole. Nessuno si aspettava una confessione sull’omicidio, arrivati a questo punto del processo. Non alla fine di un esame agitato come questo, non a fronte di una domanda del suo difensore. Infatti, la domanda rappresenta solo un’occasione per Spaccino per raccontare come, in un primo momento, dopo il suo arresto, a causa di tutto quello che si diceva su di lui voleva uccidersi, “l’unica via di uscita” era di dire il falso, cioè dire che aveva ucciso lui la moglie (ma non l’ha detto, se non al suo legale nell’occasione cui si riferisce nelle intercettazioni). Poi ha parlato con la psicologa del carcere che, riferisce, gli ha detto “Perché devi dire il falso se non sei stato tu? Hai due figli fuori!”. Racconta Spaccino, “io questa parola me la sentivo sempre…colpevole…” ma “alla fine ho capito che non potevo dire il falso”, perché, come gli hanno detto la psicologa ed il prete cui era molto legato “non conviene, non conviene se tu hai la coscienza a posto”.

* * *

A differenza del processo Meredith, una storia di sesso, droga, disagio giovanile, morbosamente seguita da media e pubblico, il processo Spaccino è emblematico dei nostri giorni, del radicamento della cultura patriarcale, del sessismo, della crisi del modello famigliare classico.

Oltre la storia processuale, in questo esame, nelle testimonianze assunte in dibattimento, la storia di una relazione, la storia di come si concepisce ancora, nella mente di tanti italiani medi, la famiglia, e la relazione con le donne, quelle per bene, “il cervello di tutto”, che si prendono come moglie, ci si litiga, ci si discute per il lavoro, per la gestione dei soldi, per gelosia, e quelle per male, che quando capita, senza rovinare il rapporto coniugale, si abbordano, si seducono, si portano a fare cenette, si portano a letto.

La presenza delle donne a questo processo è importante, per conoscere e denunciare questa cultura femminicida, e la non normalità, nei conflitti che pure esistono nelle relazioni coniugali, della violenza psicologica, delle percosse, delle umiliazioni quotidiane.
Per ogni donna stuprata e offesa, siamo tutte parte lesa!

* * *

Prossime udienze:
12/3, 19/3, 2/4, 14/4, 21/4, 30/4
Discussione e lettura del dispositivo: settimana dal 11 al 16 maggio (importantissima la presenza)

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Roberto Spaccino, al processo per la morte di
Barbara Cicioni: «Le davo smanate, non botte»

Processo a un uomo perbene che picchiava un poco la moglie

da Liberazione.it

Laura Eduati
Barbara Spinelli

« Prima o poi
ti ammazzo è una espressione delle nostre parti. Mia moglie non l’ho mai
picchiata, al massimo smanate e schiaffettoni che non lasciano il segno, la
violenza vera è quella che ti manda all’ospedale e Barbara non è mai finita al
pronto soccorso».
Unico imputato al processo per la morte della moglie
Barbara Cicioni, 33 anni, incinta di otto mesi, Roberto Spaccino si difende con
un sorriso beffardo. E’ accusato di omicidio aggravato e maltrattamenti, la pm
Antonella Duchini lo incalza proprio sugli schiaffi che per anni ha riservato
alla moglie come parte integrante del ménage famigliare. E lui, stizzito,
distingue tra litigio e botte. Il litigio, nel mondo di Spaccino, sono
schiaffetti, schiaffettoni, "sventoloni", "smanate", e tutto questo «non sono
botte».

Perché le botte «sono quelle che lasciano il segno», sono i
"boccaloni" dati con il rovescio della mano. Roberto diceva spesso «io questa
prima o poi l’ammazzo», l’uomo precisa che questo è un modo di dire di
Marsciano, «un intercalare nostro, mio e di mia moglie».
Rinchiuso nella
gabbia dell’aula della Corte d’Assise di Perugia, l’uomo trova il tempo per
scherzare con gli avvocati, salvo poi piangere quando pensa ai figli Nicolò e
Filippo affidati al prozio di Barbara. I suoi difensori provano a convincere i
giudici che Spaccino quel 24 maggio 2007 non strangolò Barbara perché lui è un
uomo perbene, non si ubriaca, non fuma, non gioca d’azzardo e insomma al massimo
frequentava qualche night, tradiva talvolta la donna con le clienti della
lavanderia e prostitute e tuttavia non aveva una relazione extraconiugale fissa,
spesso le urlava "sei una puttana come tua madre" perché la madre aveva
divorziato presto da un marito violento, le diceva "sei un cesso" e "sei
grassa", eppure Spaccino le regalava sempre delle rose per il suo compleanno ed
«era cocchino e premuroso», questo padre di famiglia non è stato mai denunciato
per rissa né per maltrattamenti domestici e se Barbara non è mai andata dalla
polizia a raccontare che veniva malmenata dal marito, perché mai lui sarebbe poi
arrivato persino ad ucciderla?

La cronaca del processo Spaccino è la cronaca
di un femminicidio che non fa scalpore e che tuttavia racconta l’esasperante
normalità della violenza domestica. Spaccino, uomo qualunque, è italiano e tutto
porta a pensare che abbia ucciso la moglie: tuttavia non è straniero e non ha
stuprato nessuna. Statisticamente, Roberto impersona l’identikit più frequente e
sottaciuto: il 69% degli stupratori è marito o fidanzato della vittima mentre
soltanto il 10% dei violentatori è straniero. E questo vale anche per i
femminicidi.
Racconta Spaccino che quella sera, sul tardi, tornò a casa e
trovò Barbara morta sul pavimento della camera da letto, i due bambini dormivano
nella stanza accanto ma nei giorni successivi disegnarono la madre a terra in un
lago di sangue. Agli inquirenti Roberto, ex camionista, disse che erano stati
gli albanesi ad uccidere la moglie dopo una rapina: mancavano soldi e gioielli,
la casa a soqquadro. Vivevano in una villetta di Compignano, una frazione di
Marsciano (Pg).

Poche ore prima del funerale scattò l’arresto: Roberto aveva
ammesso le liti frequenti, un famigliare durante una intercettazione disse che
si trattava di una «morte annunciata» perché in paese si sapeva che Roberto
picchiava Barbara ma nessuno aveva il coraggio di intervenire, nessuna folla
inferocita come quella di Guidonia si riuniva sotto le finestre della villetta
per linciare l’aguzzino di quella donna dal viso dolce e serio. Roberto era uno
di loro, un padre di famiglia che portava i bambini a calcio.

Come dice
Spaccino, era Barbara «il cervello della famiglia»: aveva aperto una lavanderia
e la gestiva con il marito. Durante la perizia psichiatrica in carcere, Roberto
evidenzia che «il carattere della moglie era piuttosto forte, più del suo (…)
una donna forte che non si faceva sottomettere facilmente». Di se stesso, allo
psicopatologo forense Giovanni Battista Traverso, dice di essere «un uomo
tranquillo»: Traverso afferma che l’imputato possiede «un piano cognitivo
sostanzialmente integro» e privo di patologie psichiatriche, cioè un uomo
assolutamente normale.

Si erano conosciuti ad una sagra di paese quando
Barbara aveva appena quattordici anni e lui 18, lei aveva vissuto il divorzio
dei genitori in maniera traumatica e non voleva separarsi per evitare un dolore
ai figli. Il marito non era affatto contento della terza gravidanza, le ripeteva
come una cantilena «questo figlio non è mio». La accusava di averlo tradito,
quando era lui a svolazzare di donna in donna. Interrogato questa settimana per
la prima volta durante il processo, Spaccino si lascia andare a considerazioni
contradditorie: «Barbara era molto gelosa, non so perché». Poi modifica la sua
versione: «In tutta la mia carriera ci sono andato (con le donne, ndr ) tre o
quattro volte». Sottigliezze. Le prodezze del marito di Barbara sono varie,
includono persino un rapporto sessuale con una spogliarellista in cambio del
lavaggio di un tappeto del valore di 36 euro. Proprio per sottrarsi al controllo
della moglie, l’aveva convinta ad aprire a nome suo una seconda lavanderia a
Deruta dove ammiccava e seduceva numerose donne. Con la scusa di un incidente
che lo aveva costretto a lasciare il mestiere di camionista, Roberto passava
ogni anno una settimana alle terme e anche nelle piscine calde trovava gradevole
la compagnia femminile. Dai verbali dell’udienza emerge la dicotomia sessita: a
casa la moglie e madre seria, fuori le frequentazioni allegre («Certo che la
gelosia di Barbara mi dava fastidio, io le dicevo che non c’era niente. Del
resto lei che ne poteva sapere? E le avventure, si sa, ce l’hanno tutti»).

Lavorava come un mulo, la donna, figli e lavanderia e un marito che
pretendeva tutto. La sera della sua morte avevano litigato, Roberto insisteva
per andare quella sera tardi a fare il distillo in lavanderia, Barbara
sospettava che fosse una scusa per dedicarsi a nuove scappatelle, lui aveva
alzato le mani contro Barbara e lei si era messa un cuscino davanti la faccia
per attutire i colpi e non svegliare i bambini, questo è almeno il racconto del
marito che oggi ripete continuamente che lei gli aveva fatto male al dito, quel
24 maggio.
La famiglia Spaccino fa cerchio attorno al figlio accusato di
omicidio, d’altronde un giorno Barbara aveva colpito col mestolo Roberto sulla
mano e il suocero, vedendo il figlio col dito sanguinante, le aveva detto: «Se
non la smetti di toccare mio figlio ti mando a casa tua e ti rompo la falce sul
collo». Nel clan Spaccino la violenza era usuale, tanto che la cognata di
Barbara le aveva suggerito un avvocato che curasse la separazione.

Nel corso
del suo esame, il 27 e 28 gennaio scorsi, Spaccino se la prende con la stampa e
la televisione accusandoli di dipingerlo come un mostro: «Io a mia moglie non ho
mai messo le mani addosso, non gli ho mai menato». Una visione distorta della
violenza: io non sono violento, sono violenti gli altri, gli stupratori, gli
stranieri, quelli che mandano all’ospedale. E senza rendersene conto si
contraddice, ammette che gli «schiaffetti» erano continui per motivi banali e
quotidiani, «se la cena non era pronta» oppure «quella volta dei calzini», e
comunque gli schiaffetti erano reciproci, anche Barbara «smanava» e dunque lui
doveva mollarle dei ceffoni «per calmarla» come se reagire per legittima difesa,
da parte della donna, lo autorizzasse a rispondere con maggiore forza. Successe
anche il 24 maggio 2007, Spaccino ammette di aver schiaffeggiato la donna ma di
essere uscito alle 23.30 per andare alla lavanderia quando Barbara era steso sul
letto, viva, e di averla trovata morta al ritorno, a mezzanotte e mezzo.
Dall’autopsia risultò che la Cicioni era stata strangolata verso le dieci e
trenta, massimo undici, provocando inoltre la morte in grembo della piccola
Viola. E poi i Ris trovarono tracce di sangue della vittima, portate
dall’assassino, dalla camera da letto fino al garage e dentro l’Opel Zafira di
Spaccino.

Il 30 maggio l’uomo venne arrestato e portato nel nuovo
pentitenziario di Capanne, nella periferia di Perugia, con l’accusa di omicidio
volontario aggravato da futili motivi, dalla crudeltà verso la vittima e dal
rapporto fra coniugi. Successivamente venne trasferito al carcere di Terni, dove
si trova tuttora. La procura di Perugia gli contesta anche gli abusi nei
confronti di Barbara e dei figli poiché li ha costretti ad assistere ai
maltrattamenti, l’interruzione di gravidanza e la simulazione di
reato.
Cinque associazioni aveva chiesto di costituirsi parte civile, i
giudici perugini ne hanno accettate tre (Telefono Rosa, Differenza Donna,
Comitato internazionale 8 marzo), mentre le altre due (Giuristi Democratici e
l’associazione Ossigeno onlus) stanno comunque seguendo il processo insieme con
la Rete delle donne umbre e il Sommovimento femminista di Perugia per fare
comprendere che la morte di una donna per mano del marito è una violazione dei
diritti umani.

Il processo Spaccino, al di là della cronaca giudiziaria,
entra nelle viscere di un delitto famigliare e della violenza domestica, mostra
come in una grottesca pièce teatrale i meccanismi alla base del sessismo e del
patriarcato: la madre di Roberto che chiama «puttane» le donne che il figlio
frequentava, la difesa di un uomo che minimizza le botte e considera «sfaticata»
la madre dei suoi figli. Le femministe chiedono alle donne di partecipare alle
prossime udienze del 12 e 19 marzo, 2, 14 e 21 aprile e per la lettura finale
della sentenza di primo grado a metà maggio.

01/02/2009

Posted in Fem/Activism, Omicidi sociali.


2 Responses

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  1. fikasicula says

    infatto sandro. è assolutamente terribile!

  2. Sandro kensan says

    Terribile.