Pubblichiamo un saggio di Judith Butler, in collaborazione con “London Review of Books”, a cura di Nicola Perugini eFederico Zappino. L’e-book, prodotto interamente dalla redazione de “il lavoro culturale”, è scaricabile gratuitamente.
Si può lottare per l’abolizione della pena di morte, senza con ciò reiterarne l’intrinseco sadismo, l’intrinseca crudeltà – mediante l’incarcerazione, ad esempio, e anche l’incarcerazione a vita? Sulla crudeltà tenta di rispondere a questo interrogativo. In questo piccolo testo, Judith Butler compie un’importante riflessione sulle storie del pensiero e delle pratiche abolizioniste, confrontandosi con le questioni del debito, della pulsione di morte, della dipendenza e del perdono; proponendo – attraverso un dialogo con Nietzsche, Derrida, Freud, Klein e Angela Davis – un ripensamento dell’intero problema, volto a porre l’accento sul suo legame con la distribuzione diseguale della precarietà – e dunque con la crescente, e indotta, precarizzazione della vita.
«Da dove proviene questa bizzarra, bizzarra idea» si chiede Jacques Derrida leggendo le riflessioni sul debito che Nietzsche conduce nella Genealogia della morale – «questa idea antica, arcaica [uralte], questa idea così profondamente radicata, forse inestinguibile, di una possibile equiparazione tra il danno e il dolore [Schaden und Schmerz]? Da dove proviene questa strana ipotesi, questa presunzione di poter equiparare due cose così incommensurabili? Cosa potranno mai avere in comune chi perpetra un danno e chi soffre per averlo subìto?» Nel tentativo di darsi una risposta, Derrida osserva che «l’origine del soggetto giuridico, soprattutto nella sfera del diritto penale, è il diritto commerciale; è la legge del commercio, del debito, del mercato, dello scambio dei beni, dei corpi e delle monete, con il loro equivalente generale, il loro surplus di valore, e il loro interesse».
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