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Otto domande che i queer palestinesi sono stanchi di sentire

Da Communianet.org:

Si potrebbe pensare che il risultato principale di un gruppo di attivisti queer in Palestina come noi in Al-Qaws dovrebbe essere l’obiettivo apparentemente senza fine di smantellare le gerarchie sessuali e di genere nella società di appartenza.

Lo è. Ma si dovrebbe pensare diversamente, giudicando dalle domande ripetitive che riceviamo durante i nostri incontri o eventi, o dalle richieste che riceviamo dai media o dalle altre organizzazioni internazionali.

ogliamo farla finita una volta per tutte. Educare le persone sulla loro condizione di privilegio non è un compito che grava su di noi. Ma prima di annunciare il nostro ritiro formale da questo compito, ecco le otto domande più frequenti che abbiamo ricevuto e le loro risposte definitive.

1. Israele non offre ai queer palestinesi un porto sicuro?

Di certo lo fa: il muro dell’apartheid ha porte rosa luccicanti che lo rivestono, pronte ad accogliere quelli che esibiscono una posa favolosa. Infatti, Israele ha costruito il muro per tenere fuori i Palestinesi omofobi e proteggere gli lgbit palestinesi che cercano rifugio al suo interno.

Ma seriamente: “Israele” crea rifugiati; non protegge i rifugiati. Non c’è mai stato il caso di un Palestinese o una Palestinese, discendente da una famiglia o da famiglie portate via con la forza, alcune volte massacrate, spesso gettate in prigione senza capi d’imputazione formale, che magicamente trascenda l’eredità vivente di questa storia per aver trovato asilo in “Israele”, lo stato che ha commesso queste atrocità.

Se alcune persone riescono ad attraversare il muro e finire a Tel Aviv, sono considerate “illegali”. Finiscono per lavorare a vivere in condizioni orribili, cercando di evitare di essere arrestate.

2. I Palestinesi non sono tutti omofobi?

Gli Americani sono tutti omofobi? Di certo no. Sfortunatamente, la rappresentazione occidentale dei Palestinesi, in particolare lesbiche, gay, transgender o queer, tende a ignorare la diversita nella società palestinese.

Detto ciò, i Palestinesi stanno vivendo sotto un’occupazione militare di decenni. L’occupazione amplifica le diverse forme di oppressione che si ritrovano in ogni società.

Comunque, l’omofobia non è il modo in cui noi contestualizziamo la nostra lotta. Questa è una nozione che viende da un tipo specifico di attivismo del Nord del mondo.

Come possiamo astrarre l’omofobia da un sistema oppressivo complesso (quello patriarcale) che opprime le donne e le persone che non si conformano all’identità di genere imposta?

3. Cosa fate riguardo il vostro nemico principale, l’Islam?

Oh, abbiamo un nemico principale adesso? Se dovessimo trovare un nemico principale sarebbe l’occupazione, non la religione, l’Islam o un’altra.

Forme più fondamentaliste di religione stanno godendo oggi di una rinascita a livello globale, anche in molte società occidentali.

Non vediamo la religione come la nostra sfida principale. Ancora, l’incremento del sentimento religioso, aldilà di quale religione si tratti, quasi sempre crea ostacoli per quelli che vogliono promuovere il rispetto per la diversità sessuale e di genere.

Il nazionalismo palestinese ha una lunga storia di rispetto per il secolarismo. Questo porta ad un assetto di valori culturali utili da sostenere per i Palestinesi LGBTQ.

Oltretutto, la religione è spesso una parte importante dell’identità delle persone palestinesi LGBTQ. Noi rispettiamo tutte le identità della nostra comunità e lasciamo spazio alla diversità

4. Ci sono Palestinesi che hanno fatto coming out?

Mi fa piacere che mi sia stata fatta questa domanda. Abbiamo fantastici carpentieri gay palestinesi che costruiscono guardaroba per queer con tutti i comfort occidentali che puoi sognarti, non ce ne vogliamo mai andare via.

Ancora una volta la nozione di coming out, o le pratiche politiche di visibilità, sono una strategia che è stata adottata da alcuni attivisti LBGT nel Nord del mondo, per alcune circostanze specifiche. Imporre questa strategia al resto del mondo, senza capire il contesto, è un progetto coloniale.

Chiedeteci invece quali strategie di cambiamento sociale si applicano al nostro contesto e se la nozione di coming out ha ancora senso.

5. Perché non ci sono Israeliani in Al-Qaws?

Il colonialismo non significa che ci sono persone cattive che si comportano male con altre (“cattivi” Israeliani che rubano i soldi per il pranzo ai Palestinesi queer). Essere “buonissimi” non dissolve magicamente i sistemi di oppressione.

La nostra organizzazione lavora con la socetà palestinese, attraverso le frontiere imposte dall’occupazione. Le sfide che gli Israeliani LGBTQ affrontano non sono niente a confronto con quelle che affrontano i Palestinesi.

Parliamo di due differenti società con storie e culture differenti; il fatto che stiano occupando ancora oggi la nostra terra non ci rende un’unica società.

Oltretutto, essere queer non elimina le dinamiche di potere tra i colonizzati e i colonizzatori a dispetto delle migliori intenzioni.

Noi resistiamo all’idea di una famiglia “globale, pink, felice e gay”. L’organizzazione dei soli Palestinesi è fondamentale per la decolonizzazione e per migliorare la società palestinese.

6. Ho visto questo film sui gay palestinesi (Invisible Men/Bubble/Out In The Dark, etc.) e sento di aver imparato molto sulla vostra lotta.

Intendi quelle pellicole prodotte da registi privilegiati Israeliani o ebrei che ritraggono gli Israeliani bianchi come salvatori e i Palestinesi come vittime che hanno bisogno di essere salvate?

Questi film tolgono la voce ai queer palestinesi, ritraendoli come vittime che hanno bisogno di essere salvate dalla loro stessa società.

Per di più, questi film dipendono da una retorica razzista che vede gli uomini arabi come instabili e pericolosi. Questi film sono semplicemente propaganda passata sotto il pinkwashing, finanziata dal governo Israeliano, con un’intensa storia d’amore tra oppresso e oppressore come glitter finale.

Se si vuole conoscere la realtà della nostra comunità e della nostra lotta, provate a sentire che cosa hanno da dire i Palestinesi queer, sui siti di Al-Qaws o dei Palestinian Queers for BDS.

7. Combattere per i diritti dei gay non è un’istanza più pressante del pinkwashing?

I gruppi LGBT mainstream del Nord del mondo vorrebbero farci credere che i queer vivono in un mondo a parte, connesso alla propria società solo in quanto vittime di omofobia.

Ma non puoi avere una liberazione queer sotto l’apartheid, il patriarcato, il capitalismo e altre oppressioni. E’ importante centrare le connessioni di queste forze oppressive.

Oltretutto, il pinkwashing è usato strategicamente dalla campagna Brand Israel per garantire il supporto dei queer in altre parti del mondo. E’ semplicemente un tentativo per rendere il progetto sionista più appetibile per le persone queer.

Questa è un’altra reiterazione di una familiare e tossica fantasia coloniale, quella per cui il colonizzatore può portare qualcosa di importante e necessario che il colonizzato non può procurarsi per se stesso.

Il pinkwashing ci toglie la voce, la storia, la rappresentanza, dicendo al mondo che Israele sa che cosa è meglio per noi. Centrando l’attenzione sul pinkwashing stiamo reclamando la nostra rappresentanza, la nostra storia, la voci e i corpi, dicendo al mondo che cosa vogliamo e come fare a supportarlo.

8. Perché usate termini occidentali come LGBT o queer per descrivere la vostra lotta? Come rispondete a quella critica?

Benché siamo stati talvolta etichettati come simboleggiati da, complici con Israele, naïve e occidentalizzati (da quelli che si trovano in Occidente), i nostri attivisti portano su di sé decenni di esperienza e analisi sul campo dell’imperialismo culturale e dell’orientalismo.

Questo ha fornito la materia prima per molti teorici itineranti. Comunque, il lavoro di questi nella loro Torre d’Avorio ha risposto raramente, se mai lo ha fatto, a quelli che lavorano sul campo né riconosce il suo potere (derivato dall’economia coloniale stessa) sugli attivisti.

Noi rispondiamo alle nostre comunità locali e ai valori sviluppati in anni di organizzazione.

Il linguaggio è una strategia, ma non eclissa la totalità di chi siamo e di quello che facciamo. Le parole che hanno ottenuto valore globale, LGBTQ, sono usate con grande attenzione nei nostri movimenti di base. Semplicemente perché parole del genere emergono da un particolare contesto e momento politico, non significa che portino lo stesso contenuto politico quando sono impiegate nel nostro contesto.

Il linguaggio che usiamo è sempre riviso ed espanso attraverso il nostro lavoro. Il linguaggio catalizza discussioni e ci spinge a pensare più criticamente, ma nessuna parola in Inglese o Arabo può fare il lavoro. Solo un movimento può farlo.

Ghaith Hilal è un attivista queer palestinese proveniente dal West Bank, che fa parte della leadership di Al-Qaws dal 2007.
da electronicintifada.net

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