Una volta fui invitata in una trasmissione televisiva, tempo fa. Mi dissero che si parlava di argomenti vari e che la mia presenza era utile perché sapevo cose, avevo fatto cose, avevo scritto cose. In camerino chiedono come sto, e io già non capisco, poi la presentatrice spara il fatto che voci di corridoio dicono che io avrei subito una violenza, però non ne parleremo, no no, è solo per fare due chiacchiere tra noi e darti la mia solidarietà, così dice la conduttrice. Invece arrivo alla postazione, mi siedo, e come avrei dovuto prevedere viene svenduto il mio privato al pubblico che attende dettagli morbosi sulla mia esistenza.
In camerino mi dicevi di aver sofferto tanto – esortava la presentatrice – e il pubblico puntava lo sguardo nella mia direzione sicché già la sola attesa di una mia risposta portò la trasmissione a punte altissime di share. So che non ti piace parlarne perché deve essere parecchio doloroso ma qui siamo tutti con te, guardate pubblico, diteglielo che siamo tutte con lei, fate sentire il vostro calore e affetto. E parte un applauso che avrebbe stuzzicato la vanità di chiunque. Chiunque meno che la mia. Sapete: ho studiato comunicazione, so esattamente quando e come viene usato un fenomeno da baraccone nelle trasmissioni televisive e so quando la persona invitata viene spogliata di dignità e perfino della facoltà di scegliere cosa dire perché quello che importa è fare audience e non c’è altro.
La stessa dinamica potete vederla in atto a partire da chi gestisce spazi su qualunque media. Prendi i blog, per esempio, più la storia è inframmezzata di dettagli macabri e meglio è. Più si riesce a tenere alta l’attenzione di un pubblico di voyeur del dolore e più accessi hai. Perciò sono benvenute le foto macabre, le scene del terrore, le parole che evocano la sofferenza e i processi mediatici all’accusato, perché la vittima serve a sfogare un po’ di istinti forcaioli e inquisitori che già possiedi, li hai dentro, è puro egocentrismo giacché delle persone di cui parli, in realtà, non te ne frega un cazzo. Quello di cui ti importa, alla fine della giornata, del tutto irresponsabilmente, è solo avere un tot di condivisioni e così hai risolto il tuo vuoto identitario, la noia della tua giornata, la tua necessità di proiettare tue sensazioni sulle vicende altrui per compiere elaborazioni sulla loro pelle, così hai realizzato la tua fuga dai tuoi personali problemi, tu che sei una che dice di violenza e narra vittimismo da mattina a sera e candidi te stessa al ruolo di professionista dell’antiviolenza.
Comunicare il dolore altrui, cercarlo, reperirlo, a volte inventarlo per suscitare pietà dove le vere vittime vorrebbero autorappresentarsi con parole differenti, o misurare la questione con più pudore, oppure avere il tempo di elaborare prima di parlare. Elaborare in privato, a proprie spese, e non in pubblico, davanti una folla di elementi giudicanti sullo stile delle trasmissioni trash della tv, non per guadagnare un paio di “like” in più su facebook ma perché l’elaborazione di qualunque esperienza è un fatto intimo, eventualmente da condividere con persone competenti e non con quella che con parole ipocrite si finge amica nel corso di una trasmissione televisiva o di quell’altra che raccoglie pezzi di carne massacrata altrui per il suo blog degli orrori quotidiani da regalare a chi vive di pornomostruosità.
La mia risposta non si fece attendere e dissi con chiarezza alla presentatrice che prima di essere una vittima di qualunque cosa io sono una persona, con delle competenze, delle capacità, un sapere da condividere e per quanto creda che il mio personal/politico sia una conoscenza utile al mondo non era forse quello il tempo e il luogo e avrei voluto poter scegliere le parole, la mia impostazione, l’espressione da usare, senza essere sovradeterminata, usata, in qualche modo maltrattata, perciò dissi che l’unica violenza di cui avevo voglia di parlare era quella ricevuta in quella stanza, per mano di quella donna sconosciuta che si era permessa di parlare di sofferenza e dolore inibendo ogni mia possibilità di autonarrazione. Perché violenza è quella che viene realizzata quando qualcuno usa il tuo corpo, la tua vita e pratica scelte su di te solo per misurare il proprio potere, la propria sete di fama e vanagloria, per ottenere attenzione da altri che altrimenti quell’attenzione non la darebbero nemmeno. Un po’ come quando un adulto porta in giro un bambino affinché gli si riconosca merito di aver fatto un gran figlio come quando porti con te l’amica disabile per motivare disappunto, indignazione verso il mondo intero. Nascondersi dietro le vicende altrui, d’altronde, è un ottimo espediente per ottenere fama di riflesso.
Ritenendo quella donna una quasi rea di appropriazione indebita dei cazzi miei le dissi perciò: parla della violenza che hai subito tu, se ne hai subita una, non vuoi condividere con noi la tua sofferenza? Deve esserti costato tanto, davvero, parlare dei cazzi altrui mentre di quelli tuoi non sappiamo niente. Perché non ci dici se qualcuno ti ha toccata, molestata, stuprata e se ti ha fatto male, fallo qui, ora, svela la questione senza dimenticare alcun dettaglio, perché il tuo pubblico vuole sapere di sicuro quanto soffre la loro presentatrice preferita, non è vero che lo volete? Ed è così che ti dimostro che anch’io, mia cara, impiego un attimo ad ottenere un cazzo di applauso usando esattamente il filo del tuo mediocre ragionamento. Non serve molto, non servono grandi capacità, basta mettere una parola accanto all’altra e l’audience vola, ma quello che fai, alla fine, non si chiama cultura, perché cultura è quando sovverti, decostruisci, dai ad altri gli strumenti per poter scegliere liberamente senza sostituirti mai alla loro volontà. Cultura è quanto grazie a quello che tu scrivi non ti preoccupi di rappresentare una cordata o l’altra, né di inserirti in dinamiche da tifoserie di vario tipo, perché salti a piè pari la logica del branco, cultura è quando ogni tua parola libera la voglia di autoespressione che esiste nelle persone che altrimenti delegherebbero a te un compito che non ti spetta.
Tu non mi rappresenti, tu per me non sei niente, tu sei soltanto una che campa di sciacallaggio vivendo del dolore altrui, una che solletica giustizialismi, una che ha una preparazione evidentemente misera se non ha nulla di più interessante da raccontare al pubblico, e quindi no, io non mi presto a questo gioco della svendita dei miei brandelli di carne. Fai soldi, audience, grazie a qualcun altro ma non grazie a me. E quando dalle mie cose vorrò guadagnarci te lo farò sapere ma allora mi dovrai pagare molto caro e forse sarò io stessa a presentare la tua trasmissione e di sicuro lo farò meglio di quanto non sappia farlo tu.
Così risposi e mentre lei tentava di ribellarsi semplicemente presi e me ne andai. Ovviamente fu tutto cancellato, voi non avete mai visto nulla di quel che ho raccontato, perché una vittima di violenza che parla per se’ e dice cose vere non serve a nessuno. Tu servi finché servi e quando ti autorappresenti e la racconti come vuoi non sei funzionale a nessuno. Ricordatevene la prossima volta che qualcuno coccola il vostro esser vittima, imponendovi vittimismo, e invece che insegnarvi a guarire vi dice che dovete restare a marcire nella vostra prigione di lacrime. Perché da guarite non potete essere vendute al mercato della carne massacrata. Le vostre lacrime invece vendono, eccome se vendono.
Ps: è una storia di quasi invenzione. Roba accaduta a una persona in un’altra nazione. Ogni riferimento a cose, fatti e persone è puramente casuale.
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