Da Abbatto i Muri:
Irene Chias, giornalista, scrittrice, siciliana, già al lavoro per scrivere il suo prossimo romanzo in cui riprende temi che le stanno a cuore: l’artificiosità dei meccanismi identitari, le presunte tradizioni, la presunta natura, l’imposizione culturale del cosiddetto amore romantico. Brillante, intelligente, straordinariamente ironica, questo è il primo ricordo che ho di lei e da quel che leggo non è cambiata affatto. Una giramondo, in senso geografico e anche interiore. In quel che scrive la scopri a disegnare mappe intime, emotive, personali, senza mai perdere una prospettiva e un punto di vista di genere.
Nel suo primo libro, Sono ateo e ti amo, tre personaggi raccontano di sicilianità, viaggi, persone, affetti, lutti, relazioni, donne divise tra natura e cultura, tra tradizioni e convenzioni sociali. Detta così pare una storia intimista ottocentesca, di quelle elargite da scrittrici con marchio nobiliare (decaduto) annesso, che sono lì a dispensare sapienza al mondo. In realtà Irene ha una scrittura che manca di netto i toni strascicati che odorano di naftalina di un certo target siculo. Niente piagnistei, perfino cose intimamente tragiche vengono guarite con le sue parole che assumono toni tragicomici. Ed è l’essenza di una bella scrittura sicilianamente connotata – rivenduta solo come tratto esclusivo al maschile – che Irene rende propria, restituendole quello che spesso manca: un punto di vista di genere.
Esercizi di sevizia e seduzione, suo secondo libro, racconta di Ignazia, “figlia di genitori siciliani, vive a Milano, dove fa la architetta precaria“. Vince il Premio Mondello (e ne sono molto felice), se ne parla abbastanza, anche se, personalmente, non ho molto apprezzato il taglio di alcuni titoli letti qui e là. L’idea che in qualche caso è stata veicolata è che si tratti di una giustiziera femminista, vendicativa, un po’ come la stalker fanatica Solanas senza però averci la puzza sotto il naso contro gli uomini di target inferiore a Warhol. Già da queste reazioni – di titolisti e affini – si vede come e quanto Irene abbia ragione quando spiega, in maniera comprensibile, che se ai personaggi femminili, protagonisti – si fa per dire – di storie in cui gli uomini realizzano sui loro corpi violenze incredibili, sostituisci personaggi maschili l’effetto cambia. E’ giusto la percezione della gravità della violenza che cambia, ed è di questa violenza scarsamente percepita, che accompagna le donne come si trattasse di una intimidazione costante, una limitazione alla propria libertà, di vivere, respirare, restare sedute in un parco a godersi una bella giornata di sole, che Irene parla attraverso la storia di una donna che in maniera quasi divertente, senza vittimismi, con determinazione e quel sarcasmo lucido che esorcizza le sconfitte amare, realizza un originale tentativo di liberazione, per se stessa, non in nome di tutte le donne, solo in un caso anche per liberare sua sorella.
Lucia e Panagia, le sorelle, Ignazio, il fratello, altri elementi familiari che tornano attraverso citazioni variamente diffuse, alcune donne intrappolate tra teorie sull’amore vero e gelosie per quella che c’ha l’uomo, e poi Michele, ginecologo che Ignazia incontra fin dal primo capitolo dal titolo “Endometriosi”. E’ il suo partner, non sa nulla circa l’hobby di Ignazia e le pagine del suo diario raccontano un punto di vista altro rispetto alla loro storia. Differenti personalità raccolte in un libro che parla di una donna che non delega la propria soluzione ad altri. Il suo progetto scatta come reazione alla totale indifferenza rispetto al problema. Lo descrive in un manifesto programmatico, mai reso pubblico, così sperimenta diverse tecniche per intrappolare uomini sessisti, maschilisti, misogini, ed obbligarli ad ascoltare parole rovesciate, sovvertite, in cui sono i protagonisti maschili a subire violenze.
Il reading privato viene reso credibile a partire dalla costrizione, è una minaccia, è una restituzione, talvolta è un regalo – perle ai porci – perché ci sono certi che la cultura, per quanta sovversione possa contenere, non sanno neppure cosa sia. Così Ignazia mette in scena esercizi letterari che prendono spunto da Ellis, Burgess, l’Antico Testamento, Marinetti. Sovverte scritti come quello che, ad esempio, parla di Mafarka il futurista nel capitolo “Lo stupro delle negre”, dove Mafarka vede i suoi soldati intenti a fare “un gioco che consiste nello stuprare, prendere a pugni, annegare nel fango, alcune donne“. Mafarka, però, “disprezza le donne e l’asservimento alla vulva” che lui definisce “immonda, pestilenziale, malefica“, così mostra disgusto per gli uomini che stanno mostrando troppo entusiasmo per la medesima, “disperde lo stupro-omicidio e decide di concentrarsi sulla costruzione di un figlio tutto suo“. Nel subvertising Ignazia sostituisce ai soldati le amazzoni, poi fa un parallelo tra Geppetto a Mafarka, il burattino e Gazurmah, “il figlio agognato dal condottiero concepito senza il concorso e la puzzolente complicità della vulva“, ne viene fuori un superamento del Golem per arrivare a scomodare Asimov e “un androide d’acciaio in grado di volare, un po’ come Actarus e Goldrake insieme“.
Ignazia, la spaventatrice seriale, è una parodia vivente, Irene le fa perfino studiare un look adeguato, come tra Sheila, una delle sorelle del trio Occhi di Gatto, ed Eva Kant, ed è comica anche la sua ricerca di anestetici e tranquillanti utili (inclusa l’ossitocina) a immobilizzare gli uomini il tempo necessario a legarli per obbligarli all’ascolto di quelle storie. Una ricerca che passa ancora attraverso il corpo delle donne, con una analisi puntuale sulle mille variazioni chimiche che ci riguardano, sulla “differenza” che resiste nella definizione di una identità, nella maternità, con la costante convinzione che la cultura possa, in qualche modo, contribuire ad una assunzione di consapevolezza di cui Ignazia vuole essere la prima testimone. Scrivere, leggere, per godere di quello sguardo che cambia, di quella variazione umorale. Condividere la paura, quella che esorta alla prudenza, alle uscite solo diurne, accompagnate, in abiti non provocanti, la stessa emozione con la quale le donne sono abituate a convivere, condividere tutto questo con un uomo che solo per un attimo viene messo nelle condizioni di provare sulla propria pelle la banalizzazione, la mortificazione che passa anche attraverso un immaginario, gli scritti, le parole, di chi ha voluto attraverso esse raccontare un’idea di mondo che offende, violenta e umilia le donne.
Ignazia è un personaggio strepitoso, per come lo vedo io, perché analizza, con lucida ironia, la lotta quotidiana di tante donne costrette nel proprio abito biologico che dovrebbe essere una scelta, un tratto, non un destino ineluttabile in cui perisce la libertà di scelta. Ignazia è strepitosa perché non censura, non va in giro a bruciare libri, decide di sovvertirne le pagine che fanno relativamente schifo. Lei non assume la posa, superiore, della vittima che lascia difendere il suo onore ad altri tutori. E’ lei protagonista, piena, delle sue azioni ed è lei che sfrutta strumenti, ricette, mezzi, per realizzare la sua soluzione. Non svelo la conclusione, e forse ho detto anche troppo, ma mi preme dire che di un personaggio così c’era proprio bisogno. E c’era bisogno di un romanzo che parlasse di violenza sulle donne senza recitare il mantra della narrazione vittimista. Ignazia è artefice della propria strategia, non si affida, reagisce, perciò, specie in questo tempo atroce in cui il tema della violenza sulle donne è diventato un brand che obbliga, ancora, le donne a restare intrappolate nel ruolo della donna/angelo che consegna il proprio futuro al cavaliere, questo romanzo è una boccata d’ossigeno. Accattativillo, e buona lettura!