Da Abbatto i Muri:
A smontare il ragionamento di Ida Dominijanni basterebbe il nome di Conchita Wurst. Vallo a dire a Conchita che “il corpo è mio ma non è mio” perchè “è inserito in una rete di relazioni e di significati dai quali nessuna, nel deciderne, può prescindere“.
La conclusione alla quale arriva la Dominijanni non c’entra con il moralismo. No. C’entra con il femminismo della differenza che ricorda la Butler decontestualizzandone un frammento senza ragionare del fatto che la Butler ha frantumato la teoria della differenza parlando di generi con altre e ben più complesse parole. Tanto per dire: per Butler non esiste proprio un “corpo delle donne” perché non esiste neppure la “donna” in quanto soggetto differente il cui genere è dato in senso biologicamente riduzionista.
Prova, perciò, a dirlo a Conchita Wurst che nella sua maniera di gestire il corpo c’è adesione ad una politica neoliberal/neoliberista, perché secondo questo parametro allora ogni commessa, hostess, operaio, zappatore, modello, modella, donna o uomo che prestano il corpo, braccia, gambe, testa, cuore, sangue e sudore, per fare un mestiere diventano complici del capitalismo. So tutto quel che c’è da sapere di biopolitica, biocapitalismo, neoliberismo e ho letto abbastanza di femminismo della differenza, quello per cui “l’uso mediatico del corpo di una donna” dovrebbe tenere conto di una presunta “differenza femminile” che non va sacrificata ad un “neutro maschile“.
Il che presuppone come questa differenza femminile ci renda in qualche modo naturalmente diverse, forse migliori, perciò in grado di rappresentare una esposizione dei corpi che debba seguire criteri altri, non si capisce quali, di modo che si vada incontro non già alle proprie scelte e desideri, perfino alle proprie pratiche femministe e performative, ma a quelli rispondenti in senso generale ad una filosofia che se non vivi secondo quei principi non sei degna neppure di dirti femminista. E vallo a dire alle sex workers autodeterminate che scelgono di che campare, vallo a dire alle migranti che scelgono la maniera attraverso la quale emanciparsi seppur aderendo ad un modello economico biocapitalista, vallo a dire alle pornoterroriste o alle pornofemministe che il corpo “è mio ma non è mio”, parentesi comoda e intesa in senso regressivo rispetto al “il corpo è mio e lo gestisco io”. Vallo a dire alle ragazze che vogliono mostrare, rappresentare, in un’epoca in cui chiunque, se dobbiamo dirla tutta, e lo dico da anticapitalista, aderisce in un modo o nell’altro al “modello neoliberista” che esige immagini, la firma su un social network strapieno di pubblicità, l’adesione a modelli di diffusione dei messaggi “anticapitalisti” con il mezzo più capitalista che ci sia. Il capitalismo non lo combatti stabilendo che l’uso del corpo delle donne debba essere vincolato ad un preciso codice militante, soprattutto se quello stesso codice militante lo diffondi attraverso la rete mediatica capitalista che si chiama facebook.
Non vado per semplificazioni: è ovvio che il corpo è inserito in una rete di relazioni e significati eccetera eccetera ma questa rete di relazioni equivale agli affetti, forse, e non al branco di genere il quale ti consegna colpe e responsabilità per le tue azioni pubbliche esigendo da te che tu viva secondo norme dettate dall’alto. La complessità nella gestione del corpo non può essere alibi per la sovradeterminazione, la delegittimazione delle singole azioni, perché altrimenti diventa soltanto una ulteriore morsa normativa che pone il corpo, di nuovo, al servizio di chi da secoli afferma che il mio corpo non mi appartiene e che gestirlo come pare a me significa produrre un danno alla società, alla famiglia, al contesto (politico?) al quale “appartengo”.
Se c’è una cosa che le femministe sanno è che le rivoluzioni culturali passano attraverso la gestione autodeterminata del proprio corpo ed è pericolosissimo avanzare una tesi secondo cui così non dovrebbe essere. Vallo a dire a una donna che abortisce che il corpo è suo ma non è suo e che gestirlo come pare a lei significa aderire ad un modello di produzione liberal/liberista eccetera eccetera. Vallo a dire ad una trans, una lesbica, un gay, una donna autodeterminata che non ha più alcuna voglia di subire paternalismi e maternalismi, vallo a dire a queste persone che il corpo non appartiene a loro ma, in definitiva, alla società.
Oltretutto intravedo una grande contraddizione: Dominijanni dice di essere, e lo è, so che è così, politicamente contro la strategia politica delle Se Non Ora Quando ma in definitiva veicola, in questo caso, sebbene in maniera più accademicamente ragionata, lo stesso concetto che rimanda al corpo delle donne come oggetto sociale, oggetto “di relazione”, oggetto da subordinare alla rete di “significati” che se parliamo della comunicazione non sono evidentemente una cosa così dogmatica e immobile, come sembrerebbe intendere Dominijanni, al punto che non puoi mai prescinderne. I “significati” si ribaltano, si sovvertono, si trasformano.
Riconosco alla Dominijanni di aver esposto una posizione articolata, intellettualmente onesta, dal suo punto di vista, ma è avvilente constatare come si semplifica la esigenza di rendere noto un pensiero femminista antimoralista e libertario che di certo è trasversalmente disconosciuto dai femminismi che in Italia determinano egemonia accademica e culturale. Io, per mio conto, porgo questi liberi pensieri accogliendo l’invito al dibattito. Spero mi si riconosca lo sforzo di aver prestato considerazione ad un ragionamento che pure non condivido.
La parola a chi legge: ditemi cosa ne pensate.
NB: sulla libertà delle donne rinvierei al capitolo “Libertà” scritto da Valeria Ottonelli nella raccolta di saggi per un Manifesto di un Nuovo Femminismo edito Mimesis, perché quel che è liberatorio, anche in senso politico, per te non è detto lo sia per me e viceversa. Ne ricopio giusto un paragrafo: “Le rivendicazioni di libertà sono pericolose perché, troppo spesso, sono fatte in nome e per conto terzi. Uno degli aspetti più distintivi e singolari della condizione delle donne è esattamente il fatto che loro, più di qualsiasi altro soggetto, sono oggetto di “liberazioni” estemporanee da parte di chi, senza interpellarle sui modi, sui tempi o sul perché, decide di giocare la parte del loro salvatore.“
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