Traduzione di un articolo di Beth E. Richie apparso su The feminist wire
La scelta di tradurre e pubblicare questo articolo è motivata in larga misura dallo stato in cui versa il femminismo bianco, liberale e borghese, italiano e non solo. Pur nella specificità e nella diversità dei contesti cui Beth Richie fa riferimento, l’approccio del femminismo nero alla violenza offre indicazioni di analisi e di metodo molto più complesse e complete, pressocchè ignorate non solo in Italia, ma più generalmente in Europa, da quel femminismo bianco liberal-borghese che ha monopolizzato il dibattito, impoverendolo e spostandolo a destra. Quest’ultimo, infatti, è stato ridotto ad un essenzialismo vaginale che mistifica la realtà, sorvola sulle numerose disuguaglianze che strutturano gerarchie di potere fra le donne stesse, invoca un ricorso sempre più massiccio alla logica della carcerabilità e tace sulla violenza che anche lo stato perpetua contro le donne, in particolare quelle non europee, appartenenti alle classi sociali medio-basse e non conformi al genere. Ben lungi da ogni tentativo di appropriazione culturale, ma riconoscendo e sottolineando il grande contributo del femminismo nero allo sviluppo di una teoria e di una prassi intersezionale di cui si avverte estremo bisogno anche fuori dai confini d’America, con questa traduzione si vuole invitare a riflettere sulle costanti che si possono individuare tra le cosiddette politiche anti-violenza americane analizzate da Richie e quelle in atto in Italia ed in gran parte dell’Europa.
Buona lettura
Talvolta apprendiamo le nostre più profonde lezioni politiche negli interstizi del nostro attivismo quotidiano. Questo è certamente il mio caso come racconta il mio viaggio da femminista nera che ha lavorato per fermare la violenza di genere negli ultimi 20 anni, durante i quali gli Stati Uniti sono stati impegnati a costruire se stessi come la massima nazione carceraria al mondo. Il mio viaggio è cominciato ad Harlem, la nota comunità di New York city che è stato il centro di battaglie per una giustizia razziale ed economica. La militanza di base, all’epoca, includeva l’organizzazione di forme concrete di mutualismo: abitazione sicura e a prezzi ragionevoli, scuole migliori, accesso all’assistenza sanitaria, un lavoro che offrisse un futuro, rappresentanza politica, commercio del circondario che sostenesse l’economia locale e, alla fine, la crescente espansione del complesso dell’industria carceraria. Il lavoro di organizzazione era sostenuto dalla retorica della “liberazione della nostra gente” e dall’idea di ciò a cui la nostra comunità avrebbe dovuto assomigliare se avessimo potuto mantenere l’attivismo dal basso al servizio di un cambiamento sociale ad ampio raggio.
Come molte femministe nere (e non solo) ricorderanno, la promessa di liberazione dentro formazioni per la giustizia razziale fu ampiamente intralciata dalla mancanza di analisi di come l’oppressione di genere avesse un peso in questo lavoro. Una mancanza, a dire la verità, nonostante le nostre domande includessero : 1. come le donne fanno esperienza dell’ingiustizia (tra cui la povertà ed il carcere) in modi diversi 2. che la particolare oppressione di cui soffrono le donne (come la violenza sessuale da individui o da agenzie di stato) fosse inclusa nell’agenda 3. che eravamo deluse dal fatto che la leadership delle donne fosse riconosciuta e sostenuta in quanto fondamentale per un avanzamento politico
Questa delusione è stata una parte di ciò che mi ha spinto a immergermi nel movimento anti-violenza contro lo stupro, i pestaggi, le molestie sessuali, gli abusi psicologici e lo sfruttamento economico delle donne e di chi non è conforme al genere. Queste organizzazioni militanti mi procurarono un sollievo momentaneo ed il mio contributo al pensiero femminista ne fu rinnovato. Ma il respiro procuratomi da queste organizzazioni anti-violenza fu breve; molto rapidamente divenni consapevole dei limiti politici che una nozione di violenza essenzialista e basata solo sul genere conteneva in una agenda realmente trasformativa riferita alle donne di colore. In realtà, un’analisi dell’oppressione di genere che non include una posizione articolata nel dettaglio riguardo le gerarchie costruite sulla razza e sulla classe era un blocco tanto quanto un progetto di giustizia razziale che non includesse il genere. In particolare, un’analisi dell’oppressione di genere che non include la violenza di stato esclude una larga parte di abusi che le nere e altre donne di colore esperiscono in ragione della loro posizione di corpi razializzati in una società eteropatriarcale. Una seconda delusione ancora maggiore.
Il lavoro continuo nel cercare di trovare gli incroci politici che uniscono la giustizia razziale ed economica con l’analisi dell’oppressione di genere divenne molto difficile negli anni ’80 e ’90, quando gli Stati Uniti intensificarono il loro impegno nel costruire se stessi come una nazione carceraria. Le complicazioni più o meno consistevano in questo. Primo, sia il settore privato che quello pubblico investivano sempre più risorse nel complesso dell’industria carceraria mentre, nello stesso tempo, le elite al potere rafforzavano una campagna ideologica per incorniciare il “pericolo pubblico” in termini razzializzati. Secondo, la linea politica neoliberale spingeva a disinvestire le risorse economiche da comunità già svantaggiate che soffrono sempre più profondi gradi di difficoltà materiali e politiche, che si trasformano in “criminalità”. Terzo, le strategie di organizzazione politica usate sia dai movimenti anti-violenza, sia da gruppi per la giustizia razziale vengono cooptati da una mentalità del “no-profit/servizio sociale” che serve da distrazione dalle cause alla radice di un’ineguaglianza strutturale e della violenza che ne deriva. I gruppi organizzati per resistere all’oppressione razializzata o allo sfruttamento di classe o alla violenza di genere o ad altre monolitiche formulazioni se ne occupavano come questioni separate. E hanno perso la focalizzazione su come lo stato collude nella costruzione di una gerarchia di oppressione che non può essere concordata né cambiata. Alla base, oggi, sembra così. Il movimento anti-violenza investe nello stato carcerario avanzando campagne che si fondano sull’arresto, il procedimento e la pena come vie per risolvere la violenza di genere. La focalizzazione del problema è sugli episodi di abusi individuali piuttosto che sulle linee politiche che risultano da una violenza di stato contro le comunità di donne e queer, ignorate dai gruppi femministi che accettano o investono in risorse legate alla crescente industria carceraria. Quelle organizzazioni anti-razziste che invece resistono alla violenza di stato e alla concomitante emergenza risultante dall’incarcerazione di massa concepiscono il loro attivismo in termini mascolinizzati. Alcuni arrivano ad addittare l’attivismo anti-violenza come uno dei responsabili dell’incarcerazione di massa degli uomini di colore poveri. Molti non capiscono che il sistema legale sul crimine è non soltanto razzista. Questo si fonda sugli assunti eteropatriarcali che narrano un tipo di ordine sociale basato sulla dominazione.
Così, come riconciliare politicamente l’attivismo anti-violenza e l’abolizionismo del carcerce quando i movimenti sono stati tanto divisi l’uno dall’altro? Angela Davis, Ruthie Gilmore, Alicia Beira, Andrea Smith e altre membre di INCITE, comitato di organizzazione nazionale, articolano la questione più compiutamente. Stiamo imparando collettivamente che la strada non è solo quella di continuare a respingere, mettendo gli uni contro gli altri, politiche, strategie e organizzazioni di movimento che ci hanno deluso, ma piuttosto di adottare una strategia politica femminista che contempli la possibilià di abolire il carcere. Su questo dovremmo concentrare l’attenzione, sulla violenza di stato quale aspetto essenziale per mettere fine alla violenza contro le donne di colore e le comunità non conformi al genere. Tutte le persone sarebbero più sicure. Ciò significa investire in un nuovo tipo di comunità, specialmente riguardo le comunità di colore, dove coloro che si trovano in condizione di maggiore svantaggio siano alla guida di attività costruite e sostenute dal basso. Le questioni sulla giustizia di genere e la liberazione sessuale sarebbero necessariamente incluse. Le strategie per affrontare il danno causato dalla violenza risulterebbero radicate in queste comunità più forti e più equilibrate. La sicurezza proverrebbe dalle comunità e, pertanto, le prigioni potrebbero eventualmente diventare obsolete. Qui, in un progetto femminista di abolizione del carcere è dove ho trovato la migliore possibilità per il tipo di liberazione a cui sto lavorando da così tanto tempo.
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Beth E. Richie è direttora dell’ Instituto di Ricerca sulla Razza e Politiche pubbliche e docente di Studi Afro-americani e Criminologia, Legge e Giustizia all’Università dell’Illinois, Chicago. Cofondatrice, insieme ad Angela Davis, di Incite! Women of color against violence coniuga la teoria con la prassi nella lotta contro le disuguglianze di razza, genere e posizione sociale che colpiscono le donne, occupandosi in particolar modo delle sopravvissute alla violenza e al carcere. E’ autrice di Compelled to crime: the gender entrapment of black battered women (Routledge 1995) e Arrested Justice: black women, violence and America’s prison nation (NYU 2012)