Da Abbatto i Muri:
Leggo questo articolo e, a parte immaginare che Miley Cyrus dovrà sorbirsi un altro sermone, mi vengono in mente molte cose. Si ragiona sulla “morte che ti fa bella“, quella usata come pretesto fashion per pubblicizzare un marchio d’alta moda o per rappresentare soggetti ripresi da famosi fotografi. L’indignazione è forte, ché non si gioca con la morte delle donne perché il #femminicidio e bla bla bla.
Mi viene in mente, non so perché, una ironica Edwige Fenech quando rispondeva alle critiche delle signore che la rimproveravano perché protagonista di filmini sporchi adatti a un pubblico sessista e lei diceva che in fondo non c’era nulla di più pulito perché faceva tante docce e con quelle docce si manteneva e manteneva la prole. Non so quanto siano pagate queste modelle per essere rappresentate belle e morte ma credo che faremmo lo stesso errore di chi le vuole lì come oggetti inanimati se le trattassimo ancora da oggetti e non considerassimo innanzitutto anche le loro storie. Perciò guardando la faccenda dalla loro prospettiva diciamo che fare la donna morta in pubblicità (come talvolta la vittima di violenza) è diventato un mestiere (non da ora, se pensate ai tanti film che campano di vittimizzazione del femminile e straripano di cadaveri donne) e con la precarietà che c’ammazza, e non sto usando un eufemismo, senza che nessuno si assuma la responsabilità di tante morti “ordinarie” e quotidiane, se mi chiedessero di farmi immortalare in quelle pose, per soldi, lo farei anch’io.
Dopodiché mi vengono in mente altre sepolte vive, rappresentate in ruoli di genere preconfezionati, le mamme/mogli dio/patria/famiglia, casalinghe, o le vittime per antonomasia che poi sono la riproduzione un po’ meno fashion della donna livida o morta ma a fin di bene. Perciò penso che in fondo il discrimine è che se rappresenti una donna livida, ammaccata o sanguinante con su scritto “ferma il bastardo” allora va benone perché chissenefrega se stai rappresentando un essere passivo, debole, in fondo già prossimo alla morte, con accanto un uomo, un tutore possibilmente, paternalista e patriarca (buono) che solidamente, fermamente, tutorialmente si erge in nostra difesa (che culo!).
L’oggetto ha da essere oggetto solo per fare marketing in alcune direzioni e guai a dire che certe fotografie e campagne antiviolenza fanno schifo ché sarebbe certo assai meglio non coccolare l’ego di patriarchi orfani e desiderosi di nuovi progetti di cavalierato sociale, perennemente in cerca della fanciulla, martirizzata, malata, fragile e passiva, da salvare (perfino da se’ stessa); piuttosto ci teniamo campagne antiviolenza in cui le donne sono crocifisse, rubando un immaginario mistico alla religione cattolica, e per promuovere progetti, disegni di legge, partiti politici, governi e carriere politiche vendiamo brandelli di carne alla stessa stregua di fanatiche antiabortiste che per raccontare l’urgenza della difesa della vita mettono in circolo immagini di feti sanguinanti e fatti a pezzi.
Quel che accomuna questa visione d’insieme delle donne è in fondo la promozione di un modello passivo, il feticcio “soggetto debole”, quella prossima al suicidio, che piace, eccita, attrae, rimanda alla visione della principessa perennemente addormentata nel bosco in attesa di quel fottuto principe azzurro a cavallo. E’ una modalità di marketing che raramente usa gli uomini per la stessa ragione. Una modalità che ci incastra in ruoli ben precisi, e guai a sovvertirli, a dire che la “vittimizzazione” delle donne è una vera merda perché non fa altro che legittimare tutori, mater/paternalist*, ai quali i soggetti autodeterminati, per esempio, piacciono davvero poco, e poi non punta mai a mostrare forza, vita, reazione, pugni, rabbia, incazzatura, indipendenza, autonomia, che è quella cosa che le donne, in realtà, le fa morire. Il fatto di aver detto no, aver lottato per essere un po’ più libere, ed è per questo che vengono picchiate, certe volte, in casa e vengono picchiate anche fuori casa da quegli stessi tutori che se reagisci troppo e sei troppo autodeterminata ti strappano di mano futuro, sogni, vita, ti manganellano e ti rinchiudono in galera.
Insomma, il punto chiave della faccenda è che è troppo facile indignarsi perché c’è il tal fotografo che ha immortalato la modella in abito da morta se poi c’è tutta una società fatta da gente che lucra sul brand femminicidio, realizza su di esso le sfilate, i calendari, le passerelle istituzionali, i balletti bipartisan, il marketing istituzionale a promozione delle polizie e una perenne legittimazione della repressione. Vogliamo parlare di uso e abuso delle donne morte? Parliamone. A partire da chi su quelle donne morte ci si rifà reputazione, pelle, soldi, carriera senza mai raccontare che una delle cose che fa morire di più le donne, e non solo quelle, è la dipendenza economica, che obbliga ed esaspera appartenenza e possesso. E sto parlando di precarietà.
Come preferisco siano rappresentate le donne? Combattive, forti, vampire, in grado di mordere. Anche dopo morte.
E per il resto vi suggerisco una bella iniziativa di subvertising realizzata da Yolanda Dominguez. Guardate che tipo di reazioni suscita soprattutto la donna in posa da defunta tra le aiuole.
Altre iniziative di sovversione comunicativa qui, qui, qui, qui, qui. Ricreare immagini con donne di non photoshoppata statura, corporatura, fisicità o con uomini non machisti può essere utile a rendere evidente la bruttezza del fenomeno. Per conto mio farei subvertising anche delle campagne antiviolenza, ma tant’è, ché lì resistono rigide dicotomie e stereotipi. L’uomo ha da fare – sempre – il tutore e la donna il soggetto debole. D’altro canto non per niente di campagne come quelle delle Frangette Estreme ce ne sono davvero poche, direi rare…
Ps: alcune delle immagini di morte, livide, crocifisse, sono parte di campagne contro la violenza sulle donne. Sapreste distinguerle dalle altre? Poi ditemi qual è la differenza…
—>>>Molte immagini arrivano dal web. Google, parole chiave: fashion dead. Ne trovate a bizzeffe. Poi digitate “violenza donne”. Vedrete chi fa più a gara a nutrire quell’immaginario.
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