Soprattutto quando parlano più o meno lo stesso linguaggio e fanno promozione, assieme alla maggior parte delle donne del Pd, all’orrido decreto sicurezza impropriamente nominato sul femminicidio.
QUI la Boldrini. QUI la Rauti. QUI invece la ottima Elettra Deiana, a dimostrare che il conflitto (semmai è di classe e) non è davvero generazionale ma tra culture. QUI sull’appello “Non in mio nome” sottoscritto da tante donne.
La campagna #IoMiSalvoDaSola spiega come e perché il #DlFemminicidio sia orribile, in tutti i sensi.
Ho detto molte volte perché la Boldrini non mi rappresenta e certamente non mi rappresenta neppure la Rauti. Ma è un caso che l’una si autonomini a rappresentante di tutte le donne, imponendoci una morale che è la sua, e che l’altra sia consulente per la lotta alla violenza di genere al ministero dell’interno?
La linea che unisce questa corrente di pensiero donnesca non è forse quella di un pezzo di Snoq? Dove l’identità politica non conta, e non conta neppure la differenza di classe, perché siamo donne e dunque, invece che misurarci sulle pratiche e sugli obiettivi, che come si vede non riesce bene, il pensare-donna dovrebbe essere identico per tutte.
Di fatto potremo incontrarle insieme a One Billion Rising o cose simili. Sono sicuramente d’accordo circa il fatto che l’immagine delle donne vada custodita, ché mi ricordo perfettamente che giusto mentre a Roma si discuteva di ingerenza del movimento pro/life dentro i consultori e di family day l’allora sindaco, coniuge della Rauti, decideva che i manifesti che ritraevano le donne in una posa non decente bisognava rimuoverli. E per le donne, leggasi Snoq, fu grande soddisfazione.
Entrambe sono certamente d’accordo circa il fatto che le donne vadano messe sotto tutela, perché il cliché è quello: la donna debole, il tutore forte, lo Stato interventista.
Inutile che la Boldrini, alla quale il decreto piaceva pure prima, ci dica adesso che la legge sarebbe migliorata, quando in realtà è pure peggiorata. I braccialetti elettronici, la legittimazione della repressione dei movimenti sociali (operata sulla pelle, sul corpo delle donne), l’uso del brand “donna” per legittimare l’azione di governo e le sue pessime politiche economiche, l’irrevocabilità della querela che nei casi minori diventa revocabile sottoponendo le donne all’umiliazione di un procedimento davanti al giudice, le aggravanti che raccontano soltanto che delle donne lo Stato non si fida, le considera oggetti, corpi da tutelare perché sono mezzi di riproduzione, strumenti di cura, che poi è quello che ha dichiarato la viceministra Guerra quando ha parlato della violenza sulle donne come danno a quelle che sono considerate “risorse” del paese.
Una visione così conservatrice può mai promuovere l’autodeterminazione delle donne? No.
Una costante lamentazione pubblica su temi che producono poi risposte istituzionali interventiste e censorie, incluso quando si parla di media e pubblicità, può mai promuovere la potenza, la capacità, l’autonomia delle donne? No.
C’è un malinteso doppio significato della parola sicurezza che poi bisogna considerare. La mia sicurezza non deriva da quanta scorta ho appresso. Deriva dalla mia capacità di risolvere i miei problemi. Dal fatto che io sia in grado, adoperando gli strumenti che mi devono essere garantiti (censure e tutori non sono strumenti), di salvarmi da sola. Perché se non mi salvo da sola, se mi affido ad un tutore, in special modo se quel tutore poi è anche quello che fa male alle donne perché ha un potere su di loro, di quale sicurezza parlate?
Le donne non hanno reddito. Però il tutore ti “salva” da un manifesto sessista. Le donne sono precarie, ricattabili, economicamente dipendenti. Però lo Stato ti mette in “sicurezza” affidando la tua sorte ai tutori. Le donne sono tante e non sono soltanto madri, mogli, incinte. Però lo Stato promuove, tutela, difende la figura della madre e della moglie. Le donne hanno bisogno di essere ascoltate e non vittimizzate. Perché la vittimizzazione non presuppone l’ascolto a meno che non corrisponda ad un lamento. Perché la vittimizzazione non presuppone che una donna sollevi la testa e risponda in modo critico ai paternalismi. Diversamente viene patologizzata, demonizzata, stigmatizzata e resa inerme e mai più in grado di poter fare una scelta indipendente. Togliere alle donne la facoltà di decidere se querelare oppure no a questo tende.
Bisognerà dunque ripeterlo:
Le politiche paternaliste e autoritarie contro la violenza sulle donne esprimono chiaramente la linea governativa in materia, che è quella di mettere sotto tutela le donne in quanto apparati riproduttivi dello stato-nazione in crisi, affidando loro il welfare privatistico familiare. Attraverso la tutela del genere femminile in realtà si riafferma e si tutela l’ordine sociale tradizionale, basato sulla famiglia etero-patriarcale.
Ps: il fatto poi che Boldrini parli di scuola mi fa subito pensare a quell’idea stramba sulla educazione sentimentale. La filosofia da cui si parte è la stessa, ma tant’è.
[da Abbatto i Muri]
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