Tra donne, si sa, esiste un terzoposizionismo latente, dove il né destra né sinistra si annulla in un donnismo che dovrebbe comprendere tutte le sensibilità. In quanto donne, dobbiamo pensarla allo stesso modo. In quanto donne, d’altronde, siamo ferite, ed è quel “in quanto donne” che annulla, sovradetermina e rimuove ogni differenza. Perché in realtà non è affatto “in quanto donna” ma ” in quanto un certo tipo di donna”.
Rimuovere il conflitto di classe, per esempio, è la conseguenza, forse l’obiettivo, di tanto donnismo, giacché se siamo tutte uguali, perché piangiamo uguale, soffriamo uguale, defechiamo uguale, significa che non ci sarebbe alcuna differenza tra ricche e povere, precarie e borghesi o precarie imborghesite e precarie che non sanno dove sbattere la testa per campare. Né destra né sinistra, appunto.
Rimuovere il conflitto tra identità politiche mira allo stesso, identico, obiettivo e quando parlo di identità politica non parlo di partiti, giacché oggi puoi dirti di sinistra ma se non sei libertaria e punti tutte le soluzioni sulla repressione, sulla censura e sul giustizialismo sei decisamente fascista.
Da quando gruppi di donne, prevalentemente quelle dei collettivi femministi antagonisti, hanno chiaramente detto che delle ammucchiate bipartisan, delle assemblee interclassiste e politicamente trasversali, non sappiamo che farcene, che non basta avere un utero per dirsi unite, ché il punto è confrontarsi sui singoli obiettivi e lì poi scopri che ti è più vicina la persona che credevi più lontana e che ti è più nemica quella che si diceva invece amica tua, da quando tutto questo si è reso evidente, dove generazioni di donne che non sono imborghesite, lottano nei movimenti, scendono in piazza e prendono legnate per rivendicare diritto alla casa, al reddito, all’esistenza autodeterminata, arriva la controriforma delle femministe borghesi.
Non possono di certo farsi scippare lo scettro della rappresentanza da quelle che, accidenti, vogliono perfino autorappresentarsi narrando la propria differenza, dunque parte l’operazione colonizzazione culturale delle “giovani”, addestramento in stile militare, con strategie belliche annesse, ovvero quando tenti di captare antagonismo e di normalizzare, pronunci termini quali neoliberismo, precarietà, lotta sociale e di tutte queste cose non sai assolutamente niente. Quando tutto quello che speri di fare è evidentemente continuare l’opera di marginalizzazione di alcune aree del movimento femminista che non ti lasciano dire impunemente che tu e solo tu sei IL femminismo.
Captare antagonismo, citarlo talvolta, compiacere le parti con cui è più semplice mediare, fagocitarne pezzi con la scusa del dialogo e della relazione tra generazioni, ed è sbagliato perfino dire che il problema siano le generazioni precedenti, perché io incontro donne più grandi di me che guardano ad alcune “nuove” femministe del domani come alle peggiori reazionarie, moraliste, senza coscienza politica e di classe. Il problema non è l’età ma, come sempre, la differenza sociale che insiste anche tra quelle più adulte.
Il problema è che la vecchia generazione di cui parlo io è quella che ha risorse, associazioni riconosciute, rapporti con le istituzioni, dove la femminista tal dei tali non manca di finire con il fare l’assessora alle pari opportunità o quell’altra non manca di fare la presidente del tribunale dell’inquisizione che censura le pubblicità sulla base del proprio codice anti/indecorosità.
Il problema è che la vecchia generazione non differisce dalla nuova che si porta appresso, dalle precarie che riesce ad anestetizzare lasciandole lì a clikkare like su facebook per l’ultima proposta forcaiola contro l’uomo molto cattivo. Sono una vecchia generazione di reazionarie che conciliano con le nuove e che non c’entrano niente con altre, che conosco, e che non hanno mai avuto né passione per le galere e per i securitarismi, come risoluzione dei propri guai, non hanno mai confidato nelle istituzioni perché non dipendono da esse per finanziamenti e affini, non hanno mai stretto alcun patto con tutori per affidarsi a loro e affidarvi le proprie amiche, sorelle, figlie.
Sono le vecchie operaie che non hanno grande potere di dettare l’agenda politica femminista, sebbene, forse, provino a partecipare alle assemblee di donne, quelle altre, intellettuali, un po’ radical chic, ben vestite e che come minimo hanno impieghi grazie a questo o a quell’altro organo di partito. Non sono megafoni istituzionali, non portano voti a nessuno, non hanno perso il senso della ragione e quando parlano di visione libertaria e autodeterminata non pronunciano le parole a caso solo per tornare simpatiche alle antagoniste.
Invece, per l’appunto, laddove c’è bisogno di rimuovere il conflitto sociale innanzitutto devi mettere a tacere e delegittimare chiunque lo sollevi e poi afferri due o tre parole tra quelle che dice perché così nessuno potrà dire mai che tu, in realtà, fai giusto parte di quel gruppo di signore borghesi che immaginano di poter dettare la morale a tutte quante.
Quando chi ha la tentazione autoritaria a determinare esclusione, a diffondere soltanto pensiero unico, si appropria culturalmente di cause che forse neppure vive sulla propria pelle, lo fa per una unica ragione: la stessa per cui le femministe borghesi si sono appropriate della lotta, per esempio, contro la violenza sulle donne per poi consegnare la sua soluzione alle fasciste.
Dunque, il punto resta sempre lo stesso. Puoi vendere la tua identità spacciandola per quello che ti pare ma dovrai fare uno sforzo in più perché il conflitto non è assolutamente rimosso. Se parli di violenza sulle donne allora devi confrontarti sulle soluzioni, perché che la violenza sulle donne sia brutta/brutta/brutta lo sappiamo dire tutte, ma è da come tu intendi affrontare la questione che io capisco se tu sei a me politicamente affine o se mi sei nemica.
Se parli di corpo, sessualità e libertà delle donne, dove io dico autodeterminazione e tu insulti la mia intelligenza dicendomi che l’unica forma di autodeterminazione è la tua e il resto si chiama “individualismo”, se non mi dici quali sono le soluzioni che tu vuoi siano imposte a tutte, sei identica a quelle del movimento pro/life, in tutto e per tutto.
Se parli di precarietà, anche in quel caso, di che precarietà stai parlando? E come la vuoi risolvere? Perché ci sono mille modi per affrontare la cosa e personalmente non permetterò che questo tema, che mi riguarda in prima persona così come molti temi di cui parlo, diventi un brand, un pretesto, attraverso il quale una unica narrazione sarà dettata a tutte le altre.
Si fa di tutto, vedete, per rimuovere il conflitto, perché ci sono e ci saranno sempre pezzi di mondo autoritario che pur di emergere con la propria versione della storia ricorreranno agli stessi brutti trucchi adoperati da chi preferisce la dittatura del pensiero al libero confronto tra autodeterminazioni. Avviene così che da un lato c’è chi continua a combattere per affermare il proprio diritto ad esistere e dall’altro c’è chi si appropria delle tue lotte, le svuota di significato, le normalizza perché è te che vuole espellere, è il conflitto che vuole cancellare.
Il conflitto, l’agire autodeterminato, queste cose superflue (per alcune) delle quali non posso fare a meno…
Ps: il concetto di appropriazione culturale è diverso dal dare voce alle rivendicazioni autodeterminate. Io posso fare circolare un comunicato delle migranti ma se mi metto a parlare di migranti attribuendo loro, per proiezione, le mie necessità, faccio neocolonialismo. Idem per tutto il resto…
[da Abbatto i Muri]
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