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Della “brasiliana” redenta che non volle abortire…

480231_334784236592841_1751263082_nDa Abbatto i Muri:

A proposito della maniera in cui i media parlano dell’ultimo delitto, il #55esimo nella lista dei femminicidi italiani, Gennaro Carotenuto scrive:

“Se fosse stata francese o tedesca o bresciana la povera Marilia non sarebbe stata etichettata come «la tedesca» o «la bresciana». Sarebbe stata «la cittadina tedesca» oppure sarebbe stata «la ragazza francese». Oppure «la donna inglese» , o «la signora svizzera», spesso definendone lo status sociale, in modo più sbrigativo per «donna», più deferente per «signora». Invece basta fare una piccola ricerca per prendere atto che, per la maggior parte dei giornali, Marilia è solo «la brasiliana» (ma poteva anche essere «la siciliana» o «la napoletana») con un senso tra il lascivo e il razzista che si coglie dall’ellissi dell’identità che i media si sentono liberi di fare quando non si sentono liberi di dare per scontato un passato scomodo (o meglio facile) per la vittima.

(…) Veniva da Uberlândia Marilia, città di poco meno di un milione di abitanti nello stato di Minas Gerais. Questo è uno dei grandi stati industriali della potenza brasiliana, una specie di Lombardia (…).

(…) Marilia viveva a Milano (…) da circa dieci anni. (…) Non è vero quindi che «la ragazza del trolley» fosse senza fissa dimora (quindi sbandata, quindi disposta a saltare nel letto del primo che le offrisse un pasto caldo). Non faceva né la ballerina, né la «ragazza immagine», né le pulizie nel posto dove è stata uccisa, ammesso e non concesso che tali professioni umilino -per motivi diversi- la dignità della donna. Anzi, in quell’impresa che col Brasile lavorava, Marilia aveva guadagnato un ruolo amministrativo di responsabilità nel quale faceva valere le sue competenze linguistiche in portoghese, la sua conoscenza del paese, i suoi studi specifici e avrebbe col tempo superato la precarietà dei ragazzi della sua generazione con un buon avvenire davanti.

(…) nei dieci anni in Italia, aveva studiato turismo e aveva lavorato come hostess per una compagnia aerea. Marilia non era la brasiliana «misteriosa e sfuggente» che magari usava l’avvenenza per campare alle spalle del bravo italiano che avesse «perso la testa per lei» ma era una giovane donna che aveva scelto di vivere, studiare e lavorare tra noi per buona parte della sua vita adulta.”

E la rassegna stampa che riporta notizie circa il delitto che la riguarda presenta comunque tante altre aberrazioni. Isabela mi fa notare che

“Lei è la brasiliana, hanno già deciso che chiederanno l’aggravante per procurato aborto (WHAT?!?!) e che il colpevole è il datore di lavoro di cui si è saputo, già tipo mezz’ora dopo che è stato messo in stato di fermo, nome-cognome-comune di residenza-numero civico-età-nome dei figli e che la compagna sospettava che avesse una relazione perché infatti è lui il padre del feto di Marilia. Mia madre sentendo il tg era convinta che lui avesse confessato, vista la sicurezza con cui hanno montato tutto il teatrino mediatico…”

Da un lato, perciò, c’è la gara mediatica a chi trova più ragioni per stigmatizzare questa ragazza che essendo vittima di un orribile delitto doveva pur essere colpevole di qualcosa. Dall’altro c’è la corsa alla immediata criminalizzazione del tizio fermato al quale si attribuisce una paternità senza neppure attendere l’esame necessario a trarre quelle conclusioni.

Talvolta le due modalità, quella di chi criminalizza lei e quella di chi criminalizza lui, non già perché potrebbe aver ucciso una donna ma in quanto che avrebbe ucciso una “donnaincinta”, scritto tutto unito apposta perché è una categoria a parte, con tutta la retorica conseguente alla salvaguardia della vita, dell’embrione, eccetera, si incontrano e vengono fuori alcune oscenità che lasciano senza parole.

Qui si scrive, ad esempio, che “un bimbo mai nato” sarebbe il “baratro” che ha inghiottito l’accusato. E poi trovi frasi tipo “Lei con lui volava alto e non solo nel cielo“. Lui, si scrive, voleva salvare il matrimonio e salvaguardare i figli. Dunque, sempre secondo l’articolo, avrebbe “intimato” lei di abortire. E qui siamo a Santa Maria Goretti perché si scrive che Marilia, in nome della vita che portava in grembo, si sia opposta ché “intuisce che l’amore non può mettere radici sopra a un aborto“. Si compie poi un salto logico non indifferente e si dice che la vita in arrivo migliora l’uomo in meglio. In questo caso però non era il momento e dunque interferisce in peggio. E vorrei davvero capire a quale filosofia di vita si ispira chi decide che un figlio sia messo al mondo per migliorare o peggiorare la vita di un uomo. Mancherebbe la citazione del soggetto gravido che poi avrebbe dovuto partorire ma vabbè.

Continua l’articolo, a parlare di donne che vedono la vita come un dono, di embrioni che portano al baratro, di figli di Dio e della Provvidenza, di coperchi del diavolo e della malvagità dell’uomo che ha posto fine a quella vita. Fino ad affermare, addirittura, che “un bambino chiuso nel suo germoglio” sarebbe stato capace di “generare tale follia” ché “i bambini senza nome hanno una forza inaudita“. E con il “rumore della vita” si chiude il pezzo.

Riassumendo: lei è la brasiliana e punto. Un intero articolo dedicato alla vita che arriva e genera follia e poi naturalmente c’è il baratro per quello che voleva salvare la famiglia.

Senza entrare nel merito del fatto e attendendo di capire se per davvero ‘sto tizio è colpevole oppure no quel che sconvolge è come si possa parlare di violenza sulle donne dimenticandosi delle donne. Infine è questo il punto che segna una discriminazione anche nel dl sicurezza in cui si parla di violenza sulle donne. Se ammazzi una donna e lei è incinta allora importa. Se non lo è chissenefrega…

Posted in Comunicazione, Critica femminista, Omicidi sociali, Pensatoio.