Questo post, in parte traduzione di un articolo che si può leggere in originale qui, è legato ad uno precedente e scritto sulla scia delle considerazioni sollevate dall’hastag #solidarityisforwhitewomen circa l’impulso conservatore e destrorso che sta fagocitando vasti settori del movimento femminista, incluso quello italiano, con la pretesa di essere rappresentativo di tutto il dibattito, monopolizzando e volgendo ogni discussione a favore delle donne bianche e di ceto medio-alto. Un femminismo, dunque, che ha tutta l’aria di una vera e propria lobby rosa e che dunque è concentrato ad annientare le matrici popolari, internazionaliste e anticapitaliste che pure re-esistono, soprattutto in America Latina, in organizzazioni come la Marcha Mundial de Mujeres. (MMM)
La nascita della MMM risale al 1995, anno in cui il movimento delle donne del Quebec in Canada organizzò la Marcia Pane e Rose denunciando la firma del Nafta, Trattato di Libero Commercio dell’America del Nord tra USA Canada e Messico. Questa azione fu il precedente e l’ispirazione perché, prima dell’esasperarsi della globalizzazione neoliberale, un’organizzazione di donne a livello internazionale decidesse di realizzare varie azioni di respiro mondiale contro la povertà e la violenza a partire da una prospettiva anticapitalista. Su queste linee si struttura la MMM che attualmente si trova in quasi 70 paesi di tutti i continenti. L’Italia è inclusa, almeno sulla carta, ma le organizzazioni aderenti hanno già provveduto a limitare la loro attività a temi come la 194 e un vago diritto a decidere liberamente della propria sessualità, rimuovendo l’approccio sistemico ed epurando la componente anticapitalista.
Quest’anno, il 9º incontro della Marcha Mundial de Las Mujeres si terrà in Brasile, a Sao Paulo, dal 25 al 31 agosto. Nell’ambito delle sessioni preparatorie, Nalu Faria, una delle referenti di MMM Brasil e coordinatrice della organizzazione brasiliana Sempreviva Organização Feministaha ribadito alcuni punti fondamentali della MMM: la sua nascita come movimento di strada e nei contesti di resistenza ai processi del neoliberalismo; il vincolo indissociabile tra capitalismo e oppressione delle donne; l’attuale avanzata dell’ala conservatrice in detrimento ancora di più dei diritti delle donne dei paesi dell’America latina e la situazione specifica del Brasile in questo senso. Nula Faria, e chi scrive con lei, non ha dubbi: non si può pensare alla oppressione e alla discriminazione delle donne – e, aggiungiamo, di qualsiasi essere vivente, umano e non –separatamente dall’ organizzazione della società stessa. In realtà funziona al contrario: cerchiamo giustamente di comprendere che, nonostante il patriarcato sia molto più antico della divisione in classi della società, il capitalismo ha incorporato l’oppressione delle donne e il patriarcato come elemento strutturale della sua economia e del suo funzionamento. Per cui, se vogliamo cambiare la vita delle donne, non c’è altra via che cambiare il sistema […]Siamo convinte di trovarci in un momento di forti attacchi al femminismo, nello stesso momento in cui stanno emergendo nuove espressioni dello stesso da un punto di vista più liberale[…] che cominciano ad apparire come “la” espressione del femminismo. Ciò che vogliamo è trovare il posizionamento di un femminismo basato sulla organizzazione delle donne dalla base, fondato non solo su un obiettivo di lotta, ma su una visione anti-sistemica e pertanto volto alla costruzione di un’alternativa globale.
Le cosiddette battaglie delle femministe radicali d’Occidente appaiono caratterizzate , spesso e volentieri, da malcelato neocolonialismo, poiché, mentre fingono di avere a cuore le donne tutte (il che già di per sé non significa nulla), in realtà, ergendosi a paladine della giustizia, postulano l’inferiorità delle “diverse da sé” e pretendono di saperle e quindi doverle salvare, emancipandole da una condizione di miseria e di violenza di cui le origini, quando ci si preoccupa di indagarle, sono sempre ravvisate in una cultura definita esplicitamente diversa e implicitamente inferiore.
Un esempio lampante è stata la grande kermesse danzereccia del One Billion Rising, che in Italia è stata funzionale alla promozione di personagge come Isabella Rauti e che nel resto del mondo ha suscitato non poche accuse di neocolonialismo proprio da parte delle destinatarie del ballo catartico, le quali così hanno risposto alle danzatrici in preda alla sindrome della salvatrice: le femmiste occidentali bianche dovrebbero concentrarsi sull’uguaglianza di genere a casa loro, dove hanno già abbastanza problemi per una vita piena di attivismo. Ma, se la sindrome del salvatore bianco dovesse continuare, allora la migliore forma di azione sarebbe costringere i loro governi a interrompere la loro influenza patriarcale e neocolonialista nei cosiddetti paesi “in via di sviluppo”. Perchè sono le compagnie occidentali che creano enclavi di risorse petrolifere e minerarie per i paesi ricchi, dei cui profitti le comunità locali non beneficiano mai. E sono i governi occidentali che continuano a pervadere i sistemi economici dei paesi “in via di sviluppo”, con i loro aiuti allo “sviluppo” concessi alla condizione di replicare i modelli di governamentalità occidentale, cosa che è spesso inconciliabile con i modelli storico-economici, culturali e sociali. E sono i trafficanti d’armi sostenuti dall’occidente che incassano sulle conflitti in molte regioni “in via di sviluppo”, carburando entrambi le parti per guadagnare. Non contento della sua prima ondata colonizzatrice, l’Occidente continua ad insistere sull’ “aiuto” ad altri paesi. La parola d’ordine nelle strade è che la gente non vuole “aiuto”: le persone vogliono prendere le loro decisioni e portare avanti un cambiamento libero da influenze esterne.
Noi vogliamo prestare ascolto a queste parole, perché sappiamo bene che dall’India, all’Afghanistan, all’America latina ci sono donne che da anni lottano per liberarsi dalle molteplici oppressioni, non solo culturali, ma anche economiche, di cui l’Occidente è diretto responsabile, con la benedizione delle sue caritatevoli dame. Alle donne in marcia che si riuniranno alla fine di agosto a Sao Paulo, così come alle rivoluzionarie della Rawa e alle guerriere della Gulabi Gang non abbiamo niente da insegnare, anzi, siamo consapevoli di poter apprendere molto da e con loro. Ed è di queste che ci sentiamo sorelle, non certo di quelle dame che ignorano completamente la materialità delle nostre vite, coprono le nostre parole, si sovrappongono alle nostre lotte, snaturandole e sovradeterminandole, ad esclusivo beneficio e protezione di se stesse.
[di Panta Fika]