Da Abbatto i Muri:
Alla seconda relazione, Cristina, capisce che c’è qualcosa che non va. Vediamo. Figlia di due genitori che sono praticamente separati in casa. Restano assieme come una coppia d’altri tempi per rispetto delle convenzioni sociali. Il padre abbastanza per i fatti suoi. Se non gli concedi tutto il controllo che richiede sbatte la porta, i pugni sul tavolo, alza la voce, insomma fa i capricci. La madre sembra come sfiorita. Non si sente amata, forse. Comunque mangia di nascosto e poi si ingozza di lassativi per risarcirsi in qualche modo. La sua credo si chiami bulimia ma in quella casa questi mali non esistono e solo pronunciarli sembrano vizi e stravizi di gente che non ha altro di più importante a cui pensare.
Cristina cresce essendo un po’ questo e un po’ quello. Va in cerca di controllo che poi perde e se lo perde innesca meccanismi che la rendono incline all’apatia. Il suo umore è un’altalena. Un giorno è felice e quello dopo qualunque cosa la irrita. A casa sua era abituata al fatto che vi fossero esplosioni d’ira e poi la quiete. Senza quell’esplosione la rabbia cresceva dentro e non riusciva più a sfogarsi. Serviva che qualcun@ si prestasse, che si incendiasse l’aria, bastava una smorfia e una parola detta male e il suo papà era perfetto in questo. Subito grida, perché lui era sempre disponibile allo psicodramma. La mamma era più incline al modello tragicomico anni ’50, per cui lui urlava e lei si faceva venire il malore. Tempo dieci minuti qualcuno diceva “io mi ammazzo” e giù rimproveri e ululati e poi il fuoco si spegneva. La contabilità dei morti e feriti in quella famiglia spettava ad un fratello che restava fuori dalla scena, né più e né meno che uno spettatore. Silenzio, apnea, azione sospesa, poi riprendeva il suo tragitto quando la tempesta era passata.
Il primo uomo che Cristina incontrò si prestava perfettamente al suo progetto “familiare”, perché quando tenti percorsi di possibile, inconsapevole, emancipazione, crei di riflesso esattamente il modello di famiglia nel quale sei cresciut@. E dunque c’era un ragazzo che certamente non aveva grande pazienza ed equilibrio. Non era abbastanza adulto e lei immaginava, forse, che anche in quel caso potesse risolversi tutto in una sorta di tempesta “controllata”, dove ci si ferma al primo stadio di violenza, per cui le urla e poi quel battere i pugni, la distruzione di qualcosa e due o tre schiaffi, potevano bastare. Ma se si è giovani e se non si capisce bene qual è il gioco, come disinnescarlo e chi esattamente lo ha innescato, ci vuole poco a spingersi molto oltre. Per cui anche lui, che certo non veniva da una famiglia equilibrata e sana, con tutte le contraddizioni e le “intemperanze” vissute e viste, aveva in lei trovato l’altra componente del suo modello di relazione.
Dio li fa e poi li accoppia, si dice. In senso laico possiamo dire che si trova quel che cerchi. Evidentemente lei aveva bisogno di uno così ed evidentemente lui aveva bisogno di una così. Quando Cristina ebbe la faccia piena di lividi, col sangue che scendeva da quel labbro rotto, toccò la punta più alta di quella tempesta e la quiete fu per entrambi un reciproco riconoscimento. Non era quello che volevano oppure si? Era una cosa orrenda, atroce, comunque incontrollabile. Da chi dipende? Chi deve smettere?
Cristina incontrò una tizia che le disse: tu puoi anche urlare ma lui ha il dovere di non farti del male. A lei dissero che era libera di esercitare modelli di comportamento e crescere a prescindere dalle reazioni che ciò poteva suscitare e a lui si imponeva di essere un mostro di autocontrollo, rigore e autoinibizione. No rabbia, no reazione. La sua maniera di agire proprio non andava bene. Infine Cristina lo denunciò. Lui disse che non voleva più saperne, lei insistette con la denuncia, lui si beccò due anni con la condizionale e giustizia fu fatta.
Per uno che fu oggetto di repressione, per insegnargli a dominare gli istinti e a comportarsi meglio la prossima volta, ce n’era un’altra che andava avanti tranquilla senza un minimo di autoanalisi. C’era il mondo intero a dirle che lei era una vittima e lui il carnefice. Nessun@ ragionava per destinare entrambi a percorsi preventivi. Di fatto lei trovò un altro uomo senza aver fatto prima alcun percorso per analizzare quel che era stato. Calata nella dimensione della vittima lui fu commosso, paternalista e pieno di rancore nei confronti di quell’altro un po’ manesco. Dunque la amò perché era bello anche proteggerla. Quella vicenda, di fatto, lei comunque se l’era scritta nel curriculum e la inseriva nelle relazioni come monito educativo. Bada a come ti comporti perché io ho subito violenza e anche tu potresti sbagliare, prima o poi.
Il nuovo compagno non era uno che reagiva. Semplicemente aveva l’abitudine di lasciarla sfogare, apriva la porta e se ne andava. Lei allora l’inseguiva, perché se lui non collaborava all’esplosione non sarebbe stato possibile poi raggiungere la quiete. Doveva reagire, dire o fare qualcosa, e gli rimproverava di non essere abbastanza sicuro di se’, intraprendente, in poche parole abbastanza macho, perché se fosse stato macho l’avrebbe presa, afferrata, dominata, dunque lei avrebbe potuto provare la tranquillità che le serviva.
Ma a lui di fare il macho non andava neanche un po’. Prendeva e se ne andava. Lei gli correva dietro, gli batteva i pugni sulle spalle, lo schiaffeggiava, finché lui non afferrava quelle mani, la fermava, la respingeva e la sua espressione era di rabbia più per il fatto di non voler essere trascinato in una rissa che per altro. Sicché lei restava sola, a piangere, prima di dimenticare tutto. Invece lui chiedeva per capire. “Sei come lui… ” – diceva Cristina – “anzi… sei peggio di lui… ” – concludeva dandosi pugni in testa e urlando l’ultimo “basta… è finita!” del quale non si sarebbe ricordata più l’attimo dopo.
Fu lui a lasciarla, questa volta, e minacciò, tra l’altro, di denunciarla, pur sapendo che difficilmente sarebbe stato creduto, perché lei gli metteva le mani addosso e lui non lo aveva fatto proprio mai. Giusto in quella prova d’impeto Cristina rivide in lui il macho che poteva dominarla ma lui era già andato, sparito, e non sarebbe più tornato indietro.
Cristina ora è in terapia. Non ha alcuna colpa. Nessun@ ha colpa. Ma le coccole ricevute in quanto vittima non le hanno fatto per niente bene. Perché si ritardano soluzioni che devono riguardare anche lei. Perché se lui non risolve il suo problema, non c’è repressione che tenga e la volta dopo sarà uguale. Perché se lei non risolve il suo problema non c’é disinnesco possibile e la volta dopo sarà uguale.
Bisognerà capirlo prima o poi che la separazione netta tra vittime e carnefice non fa bene a nessuno e tantomeno alla vittima. Bisognerà capirlo prima o poi che aiutare le “vittime” a viversi relazioni autonome significa innanzitutto guardarsi dentro e assumersi la responsabilità di capire dove è necessario “guarire” per non ricascarci più.
La violenza è anche una dinamica malata di comunicazione e relazione tra due individui che non sanno parlarsi diversamente. E’ prevaricare l’altrui autodeterminazione, certo, eccome se lo è. Ma prima ancora bisogna stabilire cosa ciascun@ è in grado di determinare, perché ci sono cose che subiamo senza avere la consapevolezza di averle in ogni caso scelte.
Ci sono “vittime” che non si curano, non guariscono, continuano a scaricare ogni responsabilità per quel che a loro succede ad altri e rimarranno in trappola per sempre, immaginando di aver fallito una, due volte, e un’altra ancora, per colpa non si sa di chi. Prevenzione è agire in modo tale che ogni persona, le donne in questo caso, abbiano capacità e libertà di realizzare anche la propria autonomia emotiva, senza restare intrappolate in dipendenze da modelli relazionali e familiari viziati. In un modello autoritario e repressivo di tutto ciò non è neppure possibile parlare senza che qualcun@ dica che stai cercando in qualche modo di “giustificare” le violenze.
Il punto è che quando si immagina di aver risolto una violenza ci sono due bombe ad orologeria in giro per il mondo. Sono due, pronte a ricreare relazioni che non vanno bene. Due e non una sola.
NB: Marina è un personaggio di pura invenzione. Ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale. Nel suo about dice “Vorrei parlare di violenze nella coppia, nelle relazioni, e tentare di riflettere insieme a voi su una cosa che troppo spesso vedo trattare in modo assai banale.“