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#solidarityisforwhitewomen in America. E in Italia? la differenza di genere rimuove la differenza di classe

white peopleDa Incroci De-Generi:

E’ di questa settimana ferragostana l’esplosione in rete dell’hastag  #solidarityisforwhitewomenche si è velocemente diffuso tra i/le netizens worldwide, accendendo i riflettori  sulla tendenza all’esclusione dal dibattito delle femministe nere a opera di quelle femministe radicali, bianche, middle-class che si autoeleggono rappresentanti di tutto il cosiddetto genere femminile, stabilendo i punti all’ordine del giorno di un’agenda politica che vogliono  tenere in mano solo loro.  In breve, l’hastag è stato lanciato da Mikki Kendall in risposta a Hugo Schwyzer, docente americano di studi e storia di genere che si autodefinisce un femminista. Schwyzer, ripetutamente criticato dalle femministe nere a causa del suo disinteressamento per le donne in condizioni di marginalità come le non-bianche e quelle che non appartengono al ceto medio, ha così risposto di essere particulary awful to women of color.

L’hastag ha avuto eco anche in Italia, dove sostanzialmente il dibattito femminista è monopolizzato dalla corrente del pensiero della differenza che sembra ignorare totalmente cosa sia l’intersezionalità. Anche in Italia, infatti, coloro che pretendono di parlare a nome di  tutte sono bianche, appartengono alla borghesia medio-alta e hanno abbracciato un’ottica esclusivamente eterosessuale. Detto questo, punto, per loro non c’è altro.

La teoria dell’intersezionalità nasce in America negli anni 70 in seno al movimento per la legalizzazione dell’aborto. Fu allora che  le femministe nere, o womanists, richiamarono l’attenzione sul fatto che legalizzare l’aborto non si traduceva – e non si traduce –  automaticamente nella conquista della libertà nella scelta riproduttiva, perché mentre le bianche chiedevano leggi per abortire, le donne nere erano ancora sottoposte a sterilizzazioni forzate e perché molte dei ceti medio bassi non potevano fare figli a causa di condizioni materiali di vita che non permetteva loro di crescerli. Fu all’interno di quel dibattito che emerse prepotentemente, anche se  non per la prima volta, l’evidenza del fatto che parlare di donna in generale è un’assurdità, perchè la persona non è definita unicamente dal mero sesso biologico, ma dall’intersezione di più fattori, anche socialmente costruiti, quali l’etnia e la classe,  l’orientamento sessuale, la disabilità, l’età. Da allora la teoria dell’intersezionalità in America si è evoluta notevolmente, intrecciandosi con gli studi postcoloniali e con l’antispecismo anche grazie a studiose come  Breeze Harper:  Una delle ragioni per le quali integro la teoria femminista nera e l’attivismo con gli studi relativi alla liberazione animale e al veganismo è che reputo che la stessa mentalità che considera fattibile condurre esperimenti crudeli sulle donne nere “curate” dal dr. Sims (ricordate il “padre” della ginecologia!) è la stessa mentalità che continua a permettere che gli animali non umani debbano sperimentare un inferno inimmaginabile – dagli animali d’allevamento agli animali utilizzati per i test cosmetici – a quelli usati per la vivisezione. (L’intervista integrale qui )

E in Italia? A partire dagli anni 80 l’affermarsi del femminismo della differenza ha appiattito il discorso e lo ha schiacciato dentro una prospettiva di genere, genere che, non ci stancheremo mai di ripeterlo, è una costruzione culturale e un dispositivo di potere e di assoggettamento. Il femminismo mainstream italiano, dunque, insistendo sulla dicotomia uomo/donna, ha cancellato dal dibattito innanzitutto la classe, neutralizzando ogni prospettiva di conflitto, e ha quindi rafforzato quel dispositivo di assoggettamento che è il genere, riconducendo forzatamente qualsiasi soggettività al suo interno. In questo modo, il pensiero della differenza di genere rimuove la differenza di classe, come se essere una manager bianca, con passaporto europeo o nordamericano,con un lavoro stabile e sicuro e un conto a sei/sette cifre in banca, con marito, figl*, cane, suv, casa in città, al mare e in montagna, equivalesse ad essere una lavapiatti nera, senza un reddito fisso oppure alle dipendenze della manager di cui sopra, ricattabile e ricattata dal permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro stipulato con la manager. Costretta a vivere in affitto condividendo la casa, se non la stanza, con altre quattro cinque persone, non necessariamente di pelle nera. Magari pure lesbica, oppure disabile, oppure extracomunitaria, come la definiscono le bianche occidentali, donatrici di lavoro. O, peggio ancora, clandestina. Il femminismo radicale, quello che chiama in causa sempre e solo un’entità astratta, cioè il  patriarcato, solleva in questo modo il sistema capitalista da ogni responsabilità nel determinare le condizioni materiali di vita entro cui si costruiscono rapporti di subalternità e di oppressione. Per le femministe radicali è tutta colpa del patriarcato. Spesso e volentieri tacciono sulle diseguaglianze sociali, per loro è come se non esistessero, le rimuovono, dalla loro agevole posizione  si ergono a rappresentanti di tutte ed in questo modo costruiscono a loro volta gerarchie di potere, il loro potere, ovviamente, esercitato su quante non fanno parte di quella élite baciata dalla fortuna e dal capitale e autorizzata a prendere parola  proprio da quel sistema patriarcale, saldamente intrecciato a quello capitalista, che dicono di voler combattere. Autorizzate a parlare ad una condizione, però, cioè quella di mantenere il discorso tutto compreso e compresso nella dicotomia uomo/donna, una dicotomia che rafforzano mentre dicono di lottare per la parità dei generi – solo i due ufficialmente riconosciuti, per carità – senza mettere becco su questioni come la classe, la razza, e meno che mai mettere in discussione le leggi del capitale. In questo modo, le femministe della differenza mantegono la loro posizione di privilegio e quando e se decidono di occuparsi delle nere, delle disabili, delle precarie, lo fanno sostituendosi alle dirette interessate, togliendo loro la parola e ricorrendo ad un repertorio di immagini che giammai allude alla lotta, al conflitto sociale, ma si mantiene sempre su di un  registro da madama carità. L’intersezionalità non interessa, non è importante per le filosofe della differenza: per loro esiste un unico binario e su quello dobbiamo muoverci tutte, nella direzione da loro stesse stabilita. Dobbiamo stare tutte unite e seguire il binario mainstream senza creare divisioni, come se le divisioni fossero generate da chi rivendica di voler lottare dalla sua posizione di lavacessi, di precaria, di puttana sfruttata, di transessuale, di nera e non da un sistema economico che si fonda, per sua stessa natura, sulla divisione, sullo sfruttamento e  sull’oppressione di alcune categorie su altre e, non dimentichiamocelo, di una specie, quella umana, su un’altra, quella animale non umana.

Questo è il panorama femminista italiano, nel quale, per fortuna/sfortuna a seconda delle posizioni, si sono aperte delle crepe che cominciano a farsi più fitte e profonde, probabilmente in concomitanza con una crisi profonda del capitale e conseguente acuirsi delle diseguaglianze sociali, diseguaglianze che si fa sempre più fatica a mascherare. Risale al maggio 2012 la pubblicazione di Femministe a parole, grovigli da districare, un dizionario ragionato che tenta di scandagliare i grovigli di cui sono intrecciate le molteplici soggettività, in un approccio che sicuramente ha molto dell’intersezionale. Un lavoro che, nel desolante panorama italiano, arretrato, vacuo e stantìo, rappresenta indubbiamente una boccata d’aria fresca e un utile strumento di indagine per allargare lo sguardo oltre la gabbia identitaria del genere su cui insiste il pensiero della differenza. Pur tuttavia, su quel lavoro pesa troppo il retaggio del femminismo marxista, che non va oltre l’intersezione tra genere, razza e classe. Cosa ne è della specie, per esempio? Quanto spazio è dato alla disabilità o all’età? Inoltre, sembra di intravedere di nuovo una ricaduta nella gabbia del genere, laddove presentando il volume, si riafferma la capacità di convivere con le contraddizioni, caratteristica del pensiero delle donne. Ancora con la caratteristica del pensiero della donne?!? Ma di quali donne si sta parlando?

Insomma, l’hastag solidarityisforwhitewomen, al di là della disputa tra Hugo Schwyzer e Mikki Kendall, ha messo il femminismo, mainstream e non solo, di fronte ad una molteplicità  di interrogativi che in molte si pongono già da tempo anche in Italia, mentre la maggioranza si tappa le orecchie e proprio non vuol sentire. Da un lato, quindi, in molte  non tolleriamo più un pensiero femminista arcaico, ampiamente superato altrove, ingannevole e reazionario come quello radicale o della differenza. Non lo tolleriamo non solo perché sappiamo che c’è vita oltre la normatività del genere, ma anche e soprattutto perché sappiamo bene che l’agitare la retorica della differenza è funzionale a rimuovere altre questioni fondamentali  e ad assicurare potere ad una élite di donne che, sebbene si presenti tutta di rosa vestita a evocare una improbabile – e improponibile –  sorellanza, in realtà è interessata unicamente a mantenere gerarchie di potere e ad assicurare a se stessa le posizioni apicali. Sostenere tale retorica, continuare ad urlare se non ora quando? senza sapere esattamente per fare cosa, permettere che a parlare siano solo alcune e che queste si autoproclamino rappresentative di tutte, in America come in Italia, significa per noi il suicidio e non abbiamo intenzione alcuna di soccombere.

Per un altro verso, ci sembra di capire che la teoria intersezionale, quella che ci permette di costruire un percorso di lotte e di conquiste a partire dalla soggetività di ciascun@, in Italia, almeno in qualche caso, stia già correndo il pericolo di fossilizzarsi su alcune categorie a scapito di altre. Non si capisce infatti perché, quando si parla di corpi, ci si riferisca esclusivamente a quelli degli umani, quando invece le stesse pratiche di assoggettamento interessano anche e soprattutto gli animali non umani. Non ci convince questa sorta di riduzionismo per più di una ragione. Innanzitutto, se in America, dove la teoria intersezionale è nata, questa non si limita agli incroci tra classe, razza e genere, non ci spieghiamo perché in Italia dovrebbe invece fermarsi a queste. Inoltre, siamo convint* che riservare alla propria specie il privilegio di dominare un’altra è una contraddizione enorme che inficia ogni impianto teorico volto ad eliminare rapporti di dominio che si fondano su – e allora volta generano – divisione, marginalità, oppressione, sfruttamento e, non da ultimo, sofferenza. Siamo convint* inoltre che la teoria debba essere sempre supportata dalla prassi, una prassi che non può limitarsi alla spasmodica ricerca di azioni epiche da tramandare ai posteri, ma che comincia a partire dalla quotidianità e quindi anche dal momento in cui ci sediamo a tavola per mangiare. Altrimenti il rischio evidente è che la teoria venga smentita e  inficiata dalla pratica e che, nel caso specifico, si passi da un femminismo a parole ad una intersezionalità a chiacchiere.

[di Panta Fika]

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