Da Abbatto i Muri:
A Palermo Rosy, a volte, è il diminuitivo di Rosalia. Non so se questo è il caso. Quello che so è che la morte di una Rosy riecheggia negli spazi di chi si nutre di orrori, dove ad un assassinio più che premeditato si aggiungono tesi preconfezionate, letture di una realtà che neppure si conosce, richieste che con lei, Rosy, così come le altre vittime dello stesso tipo, non c’entrano niente.
Giovane e con un figlio piccolo. Tante denunce, nulla che potesse fermare l’assassino, e c’è chi si illude, pensate un po’, che più galera, più Stato, più sorveglianza potessero prevenire quel delitto, come se il delitto si prevenisse chiudendo in galera un uomo per un tempo infinito per liberarlo, poi, quando sotto ipnosi si convincerà a non pensare che sia stata lei a rovinargli la vita.
E’ l’occasione ghiotta per giustizialist* che non fanno altro che esigere repressione e “certezza della pena”, la stessa gente che non ha la più pallida idea di cosa sia la reale prevenzione e di come la cultura possa incidere in simili contesti. E’ l’occasione ghiotta per le tante D’Urso, le tante Mussolini, quelle che avuta per le mani una dichiarazione della madre della vittima la accompagnano con dichiarazioni stracolme di enfasi per guadagnare audience assieme all’altrettanta ovvia, rituale, idiota fiera delle banalità sciorinate per queste occasioni.
Per prima cosa ci si incazza, e giustamente, non lo nego, con chi ti dice che devi denunciare e poi però ti lascia sola a gestirti una situazione che diventa la premessa di un femminicidio. Allora, giacché lo Stato non può dirti che una denuncia serve solo a fare inferocire di più il denunciato, giacché lo stesso Stato non può dirti che non ha strumenti preventivi o di protezione da offrirti perché logica vuole che punisci un assassinio quando ci sarà stato e non prima di quel tempo, si celebra il lamento di chi dice che c’è stata sottovalutazione.
Per non sottovalutare la questione, le voci d’ursiane che si infiammano sull’argomento, immaginano un’Italia in cui il garantismo è carta straccia, metti in galera per vent’anni qualcuno perché t’ha picchiato o ti ha stalkerizzato, e queste cose è anche comprensibile che le pensi o le dichiari una persona che ha subìto una perdita e sta piangendo una figlia morta ammazzata, ma quel che non è comprensibile è che ci siano attorno alla questione della violenza sulle donne delle madonne addolorate che sulla faccenda costruiscono il solito repertorio di strumentali affermazioni.
Uno che è denunciato per stalking, come si diceva nella nostra petizione rispetto alla quale invitavamo a ripensare le politiche contro la violenza sulle donne, proprio sapendo quel che sappiamo in relazione alla totale inefficacia delle denunce e all’impotenza delle istituzioni armate solo di strumenti repressivi e con nessuna idea di cosa sia la prevenzione, è inutile che lo metti in galera pensando di recuperarlo. Non c’è recupero che tenga perché la galera, la sovraesposizione, le denunce, rafforzano l’idea che quello lì non abbia più nulla da perdere. Bisogna intervenire con quell’uomo e non contro di lui perché lui abbandoni l’idea che l’unico risarcimento possibile per lui sia la morte della sua ex.
Dopodiché non c’entra nulla la questione dei bambini in situazioni in cui i bambini neppure vengono tenuti in considerazione. C’è la malsana abitudine di usare il femminicidio per buttare fango su tutti i padri che fanno richiesta di affido condiviso, come fossero tutti mostri, i padri in assoluto e gli uomini più in generale, anche se qui parliamo di una situazione in cui l’affido condiviso neppure si sa che diamine sia.
Andate in giro per Palermo e provate a chiedere se un ex vuole occuparsi, in molti casi, di quel figlio, perché non è così. E’ già abbastanza se vuole vederlo una volta ogni 15 giorni, dopodiché farà di tutto per non avere nulla a che fare con il suo passato e a meno che non avrà voglia di riprendersi la ex non si presenterà sotto la casa in cui ella vive né vorrà mai parlarle d’altro che non sia di tornare assieme per fare coppia.
Questo a Palermo è successo, e lo sa chi ha contato con noi le morti ammazzate, che tu sia una ragazza di 17 anni alla quale viene uccisa la sorella che voleva difenderla, che tu sia una prostituta che sfugge al cliente decisamente “troppo” affezionato e che tu sia una ex, con figlio o senza, perché se è vero che queste morti ammazzate hanno qualcosa di culturale, relativamente ai ruoli di genere ad esse attribuiti, in comune questa cosa non è certamente il fatto che potranno avere a che fare con un uomo che usa la paternità per raggiungere la sua ex.
Ho passato tanto tempo per raccontare ai padri arrabbiati circa stereotipi e generalizzazioni, a loro volta esagerati nella loro linea di difesa demonizzante contro le donne e le madri, che il femminicidio non trova NESSUNA giustificazione e che non é di certo il frutto di una situazione esasperata in cui trovi una totale incomprensione con lei che lo mette in mezzo alla strada e gli toglie tutto, figlio incluso.
Ora bisogna che si dica alle persone che si occupano di diritti genitoriali delle madri (e quando parleremo di genitori e basta sarà un gran giorno) che i femminicidi, ovvero i delitti compiuti per attribuzione di ruolo di genere e possesso, non sono riconducibili ad un ex marito che usa la richiesta di paternità per fare a pezzi l’ex moglie. E’ uno stereotipo sessista e basta guardare con attenzione i delitti di quest’anno per capirlo. Ci sono donne adulte che con la condivisione di affido non c’entrano niente. Donne con figli adulti. Donne senza figli. Donne è basta che non muoiono in quanto madri – anche se a certe categorie che sbagliano nella loro analisi, come a suo tempo ho sbagliato anch’io, assumendo pose un po’ anacronistiche e d’ursiane, piacerebbe così fosse – ma muoiono per il ruolo di genere che è stato loro attribuito: quello di proprietà, innanzitutto.
Succede oggi, accadeva trent’anni fa quando l’affido condiviso neppure esisteva, e l’unico tratto comune che nella maggioranza dei casi trovo è l’impossibilità economica di farsi un’altra vita smarcandosi dalle dipendenze o comunque la mentalità di base che le incastrava in una situazione che coinvolge l’intero contesto nel quale esse vivevano.
Ne è morta un’altra. Per mano di un uomo la cui cultura di base era il possesso. E’ morta perché la mentalità dalle mie parti, così anche altrove, è purtroppo ancora quella, ed è quella mentalità veicolata da chiunque che bisogna combattere, non gli uomini, non la paternità. E’ la stessa mentalità che rende le donne, vive o morte, degli oggetti, di Stato innanzitutto, utili a fare sulla loro pelle campagna elettorale, un po’ di business e marketing istituzionale, un po’ di chiacchiere nella tv, un po’ di prime pagine e titoli emergenziali, un po’ di leggi repressive e autoritarie. Utili a fare sulla loro pelle tutto salvo rispettarne l’autodeterminazione.
Davvero, io lo so, è comprensibile il dolore di una madre ma noi che siamo qui a ripensare questo genere di situazioni da decenni, a lottare affinché tutto ciò possa cambiare, abbiamo il dovere di restare lucide. Per Rosy, per noi, per loro, e un po’ anche per me che quella sorte l’ho sfiorata e sono sopravvissuta…
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