Ché pare una cosa scontata ma a quanto pare non lo è. Bisogna rispolverare slogan vecchissimi come “Il corpo è mio e lo gestisco io” per far comprendere quanto non sia opportuno insistere su questa canonizzazione delle donne, la santificazione del loro corpo fino a indurne addirittura l’espropriazione a cura di chi vorrebbe tutelarlo.
E non si può superare il limite della volontà delle singole e della loro autodeterminazione perché quello che viene dopo è la criminalizzazione di quelle che fanno scelte che sembrano in contraddizione con le norme (ancora norme!?!?) che le antisessiste dettano. Quelle che vogliono esporre il proprio corpo nudo diventano perciò zoccole, collaborazioniste, persone che si svendono e che svendono l’immagine della “donna” come se la “donna” non fossero neanche loro, come se non avessero più titolo ad autorappresentare quel corpo che pure gli appartiene.
E ancora, per quelle che sembrano soddisfatte della propria scelta, l’approccio più politically correct, e non per questo meno volgare, è quello che le patologizza e dunque sarebbero disinformate, ignoranti, stupide, rafforzando lo stereotipo che dietro un corpo bello ci sia un’oca che non è neppure in grado di decidere per se’, avrebbero addirittura introiettato maschilismi e sessismi e loro, certo no, loro non capiscono, perché noi di qua, antisessiste, siamo superiori.
Ed è lì che l’antisessismo assume forma di “tutela” imposta che possiamo paragonare ad averci uno sbirro nelle mutande che sorveglia la nostra moralità o ad un Tso. Perché autoritarismo porta con se’ prevaricazione delle singole soggettività ed altro autoritarismo.
L’azione che è stata fatta a Napoli porta a compiere tutte queste riflessioni perché è l’esatta dimostrazione di quanto la difesa del “corpo delle donne” sia diventato uno status sociale e politico al punto da trascinare tutto verso una deriva che bisogna prevenire. Non era certo nelle intenzioni di chi ha fatto partire un discorso antisessista ma la ricaduta politica e sociale che ha implica una riflessione e una assunzione di responsabilità se non si vuole che si producano ulteriori degenerazioni.
Non esiste che io che per campare ho fatto anche la cubista, la cameriera in minigonna, l’animatrice di villaggi turistici, e ho fatto anche la lavacessi, la commessa, la barista, la baby sitter, l’operaia, la badante, l’impiegata, la marchettara di cervello e un sacco di altre cose, possa sentirmi dire che c’è una differenza tra l’uso che io ho fatto del mio corpo mentre stavo piegata in due a lavare cessi al pub e quello che ne ho fatto mentre ballavo e intrattenevo in una discoteca. Quello che so è che lavoravo quasi sempre in nero e che con quei soldi potevo campare. Quello che so è che la mia condizione era altrettanto precaria che quella di un qualunque operaio sfruttato. Perché il discrimine non può essere nella maniera in cui una donna usa il corpo ma eventualmente nello sfruttamento in se’ dal quale bisognerebbe che tutti ci emancipassimo.
E che dire del lavoro di cura cui una donna è obbligata ogni giorno della sua vita quando non viene collaborata da nessun familiare. I corpi delle madri dei ragazzi che hanno coperto le cosce delle ballerine del negozio sono forse meno sfruttati? Non lavano, stirano, spazzano, non si affaticano per portare avanti la famiglia? Lo sfruttamento del loro corpo è meglio in virtù di cosa? Perché più morale? Perché vestite? Capite che la nudità non c’entra nulla se non con la morale pubblica e il decoro. Tutte cose che limitano fortemente la nostra vita e la nostra sessualità perché sono giudizi pesanti che restano impressi sulla nostra carne.
I ragazzi di Zona Collinare in Lotta precisano che la loro azione non voleva essere moralista e che fanno tesoro di ogni critica perché quel che volevano fare era assumersi la responsabilità sociale di quanto avviene nel loro quartiere. E in questo dialogo che abbiamo instaurato attendiamo che loro scrivano e decidano anche di mandarci a quel paese se lo ritengono opportuno sperando di aver contribuito in senso critico e costruttivo alla loro riflessione. Intanto ci passano un ulteriore comunicato che avevano scritto prima dell’azione svolta. Potete leggerlo QUI.
E non serve dire che quel tizio che fa spot-toni chiedendo se ti piace nera, bionda o rossa, senza che ci dica se la nera, bionda o rossa lavorano con un contratto regolare oppure no, merita tutta la nostra disistima ma il punto resta quello di cui si sta parlando.
Non può permanere il pregiudizio che una che fa la cubista sia una cosa diversa rispetto a qualunque altra lavoratrice. Perché come sempre avviene questa cosa rischia di ingenerare un boomerang in quegli ambienti un po’ più sessisti che attivano subito una controrisposta quando gli si dice che quelle ragazze fanno la scelta di apparire perchè le chiamano immediatamente zoccole.
Il contesto in cui si realizzano spot e operazioni di marketing come quella – ed è una cosa che bisogna ricordare – è fatto di ragazze che scalpitano per apparire in televisione, per avere opportunità come quella che sembra aver avuto Noemi, che fanno casting per fare le ragazze immagine in ogni luogo. Ci sono ragazze che di mestiere fanno le hostess di bella presenza per consentirti dentro uno store assaggi anche di una tazzina di caffè. Ragazze/immagine che oramai per lavoro partecipano a congressi di partito e alle manifestazioni organizzate.
Quello che per qualcun@ può sembrare una condizione di sfruttamento per loro può rappresentare una opportunità perché di sicuro una che appare in tv, vestita o spogliata, guadagna più di una commessa in nero o di una impiegata qualunque. E già dire questo, nel tempo precario che viviamo oggi, fa apparire queste ragazze come avide, un po’ puttane, perché si sa che per la morale comune una “brava ragazza” deve accontentarsi di fare la schiava a prezzi indecenti e ancora stiamo lì a chiederci come mai ci sia gente con due lauree che va a sfilare per diventare una Miss.
Sono le condizioni di lavoro delle persone in generale che sono brutte e non c’è differenza tra i corpi impiegati da ragazze cubiste e quelli di immigrati o operai che lavorano senza sicurezza nel lavoro e in nero. Per qualunque persona che lavori l’urgenza è la sicurezza e le condizioni contrattuali e non se si spogliano oppure no.
Sappiamo anche che a Napoli poi, se non mi sbaglio, sia stata sollevata anche una questione di decoro per le sex workers, le operatrici del sesso, confinate in periferia dove possono essere più facilmente aggredite proprio perchè decoro e morale vorrebbero cancellarle dalla vista della gente “perbene”. Gente perbene come il proprietario del megastore di cui si parla. Ché l’ipocrisia che resta sottesa a questi moralismi è tanta e tale che su questo punto non si può rischiare di non essere chiare/i.
Perciò io sono con le lavoratrici sempre e in qualunque circostanza. E se si vuole immaginare una ulteriore azione antisessista che sia davvero disturbante e sovversiva consiglio di leggere la discussione che si sta sviluppando a commento del precedente post.
—>>>Ringrazio @Baruda che parla di sovradeterminazione e della questione delle donne musulmane sollecitate nei propri paesi a coprirsi per motivi religiosi. Una questione che giustamente @Baruda tira fuori per fare un parallelismo e che a me ha evocato anche un altro parallelismo a proposito di una diversa forma di sovradeterminazione delle scelte delle donne. Ho ricordato perciò la Santanché che voleva togliere il burqa alle donne. Ringrazio anche i ragazzi di avermi dato l’opportunità di ragionarne perché la loro azione, se vogliamo, è la logica conseguenza del tanto battere sopra alla questione del corpo delle donne brandendo la faccenda della dignità e svuotando di contenuto politico ogni cosa alla maniera delle Snoq senza dare senso e compiutezza a riflessioni che oggi sarebbero necessarie.
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