Da Riccardo, di Asocial Network:
Questa cosa che ti sto scrivendo, Samuele Caruso, non potrai mai leggerla. Non potrai, perché sei rinchiuso in una galera. Te lo avessero detto una settimana fa, che oggi domenica venti ottobre la avresti passata in una cella di un carcere, chissà che cosa avresti pensato; oggi sei, a ventitré anni, chiuso là dentro con la prospettiva di passarci una non lieve parte della tua vita. E lo sai. Inutile distogliere il pensiero da questa cosa; la tua vita, così com’era fino a poche ore fa, non esiste più.
Chi ti scrive senza che tu possa leggere, ha visto e continua a vedere amici e compagni finire in galera. Ci si finisce, là dentro, anche per essersi opposto a qualcosa e a qualcuno. Ci si finisce per una manifestazione, per una lotta, per aver dato noia a qualche potentato politico e finanziario. Ci si finisce, non di rado, per il capriccio di qualche procuratore asservito. Ci si finisce combattendo, a modo proprio, contro delle ingiustizie e contro un sistema intero. Ci si finisce, certo, anche impugnando un’arma, e usandola. Non so, e non potrò mai sapere, se a tali cose tu abbia mai pensato, anche una sola volta, nella tua vita; forse, chissà, stai pensando adesso di essere finito in galera per amore. Bisognerebbe, e ne va della tua salvezza, che tu non pensassi mai una cosa del genere. In galera ci sei per aver ammazzato una ragazza più giovane di te, colpevole esclusivamente di essere la sorella di un’altra ragazza che amavi. In galera ci sei perché questa ragazza ti aveva lasciato. In galera ci sei perché un giorno d’ottobre sei uscito per andare da lei in compagnia di un coltello, e lo hai usato su una ragazza che voleva difendere sua sorella quando ha visto che la avevi aggredita, armato. In galera ci sei, e non hai affatto “perso la testa”, come vai ripetendo pensando di autoassolverti. Altrimenti, occorrerà fare il percorso di quel coltello.
Dov’era? In un cassetto, su un tavolo, in una borsa? Ovunque fosse, non poteva muoversi da solo. C’è stato qualcuno che lo ha cercato, che lo ha preso, che lo ha sollevato e che se lo è messo in tasca; e quel qualcuno sei tu. E’ “perdere la testa”, questo? Andare da una ragazza che ti ha lasciato scomodando un coltello? Si può perdere la testa a volte, certamente; e quando la si perde, spesso, non importa nemmeno avere un’arma. Quel che si può fare con le mani e con i piedi, e con la propria forza (specialmente quando si è un uomo, magari giovane, contro una ragazza cui non è mai passato per l’anticamera del cervello di frequentare corsi di difesa personale o roba del genere), lo avrai magari visto anche tu sui giornali. Quante donne, quante ragazze ammazzate a calci e pugni? Quante strangolate con un semplice nastro? Quante prese di peso e scaraventate da una finestra o in un burrone? E si può anche uscire con questa precisa intenzione. Si può trovare persino un pugile che ti massacra in mezzo di strada perché “ce l’ha con tutte le donne”, e tu sei la prima che ha la sventura di incrociarlo. Ecco. Tu hai, Samuele Caruso, bypassato tutto questo. Tu sei uscito con un coltello per andare dal tuo amore. Non continuare a raccontare questa menzogna agli altri e a te stesso. Non cercare di basartici sopra per vedere se un qualche avvocato ti tirerà fuori. Non ammazzare quella ragazza un’altra volta.
Non mi pongo, poi, certamente a modello, né nei tuoi confronti, né in quelli di chicchessia. Non sono nemmeno uno di quelli che ama cianciare di “età”. La separazione è una cosa dolorosa, sempre, a qualsiasi età. Non mi piace chi sminuisce il dolore di una separazione a seconda delle fasce di età, per cui essere lasciato o lasciata a vent’anni sarebbe “meglio sopportabile” che esserlo a quaranta o cinquanta. Una volta, ad esempio, a chi ti scrive senza che tu possa leggere è accaduto all’età di trent’anni esatti, ed in modo particolarmente duro. E ho passato un periodo, in ogni senso, che non potrò mai scordare. Mi sono ridotto, ad un certo punto, a una specie di larva, o di zombie; ed avevo voglia a cercare dentro di me e intorno a me ogni sorta di palliativo, di consolazione, di altro interesse. Non c’era nulla da fare, quella cosa mi rodeva dentro; e ha continuato a farlo, prima di acquietarsi e cessare, per anni, anni ed anni.
L’unica cosa che posso dirti, Samuele Caruso, è che non sono mai andato a cercare quella persona, pur sapendo addirittura benissimo dove abitava. Mi è capitato, due o tre volte, di incontrarla casualmente. Una volta me la ricordo benissimo, con tanto di data: era il 30 ottobre 1993, ed ero dovuto intervenire con l’ambulanza in una piccola piazza del centro della mia città. Mi ricordo particolarmente bene di quell’episodio, attimo per attimo, perché è stata l’unica volta, in trentaquattro anni sulle ambulanze, che sono stato chiamato per un caso di “Sindrome di Stendhal”, o perlomeno per una cosa che pareva esserlo. Una turista americana che era andata in deliquio davanti ai monumenti architettonici. In quel momento esatto, mentre stavo soccorrendola, ecco che arriva quella persona là, ben vestita, salutandomi. Dicendomi di aver sentito le sirene dell’ambulanza, e di aver pensato che potevo esserci io; pensa un po’, Samuele Caruso che non mi leggi. Era uscita da un ristorante vicino, dove stava con alcuni amici e, soprattutto, con la persona per la quale mi aveva lasciato. Sai che ho fatto? Ci sono stato, e magari puoi anche immaginarti con quale stato d’animo, a chiacchierarci persino con un sorriso sulle labbra. Non volevo farmi vedere com’ero davvero, vale a dire disperato o qualcosa del genere. Attraversato da fiamme di varie dimensioni. Eravamo stati insieme non pochi mesi, non un’estate; non te lo dico nemmeno per quanti anni, forse non ci crederesti neppure. Ci eravamo messi insieme al ginnasio, e avevo trent’anni e un mese in quel momento.
In un’ambulanza di emergenza ci sono, in dotazione, armi pericolosissime. Su quella là c’era, ad esempio, un pie’ di porco che serviva nei casi, abbastanza frequenti, in cui era necessario scardinare una porta per soccorrere una persona rimasta sola in casa. C’erano cacciaviti e altri attrezzi. C’era un pesantissimo defibrillatore. C’era che sono alto più di un metro e novanta e, allora, ero un trentenne nel pieno delle forze. Pensa tu in quanti modi avrei potuto perdere la testa invece di cercare di dissimulare quel che avevo dentro, e raccontando persino a quella persona che ero intervenuto su un caso di “Sindrome di Stendhal”. Se ne tornò nel suo ristorante sorridendomi e dandomi affettuosamente del “sonato”; è stata l’ultima volta che ci ho parlato direttamente. L’ho rivista anni dopo in un’altra piazza, mentre passavo con la macchina; non mi sono fermato.
Mi dovresti dire ora, Samuele Caruso, che cosa ti è veramente passato per la testa quando hai cercato e trovato un coltello prima di andare dalla tua ex ragazza. Sì, la separazione è molto dolorosa. A qualsiasi età. L’amore finisce, ad un certo punto; che sia durato pochi mesi o una vita intera. Oltretutto, spesso e volentieri finisce soltanto da una parte sola; dall’altra, disgraziatamente, continua. Continua e si incrocia con tutta una serie di altre cose; con certe culture, ad esempio. Si incrocia con un senso di possesso, di “avere”, che è foraggiato in mille modi – e su questi mille, novecentonovantanove hanno a che fare col vendere, con la merce. Si incrocia con l’insicurezza personale, certamente. Si incrocia con il falso “romanticismo” di questi tempi tutti amore, cuoricini, lucchetti, smielature, romanzetti idioti, canzoncine ancora più idiote dei romanzetti. Si incrocia con crisi collettive e personali. Si incrocia coi cosiddetti “sogni”, e quanti ne hanno ammazzati i sogni lo sa solo il cielo. Si incrocia con tutta una serie di mancate accettazioni. Si incrocia con la famosa sensazione che “tutto sia finito per sempre”. Lo sai, Samuele Caruso, con che cosa finisce tutto per sempre? Con una cosa sola, che si chiama morte. Nonostante tu sia in galera e che tu debba restarci per chissà quanto, per te non è finito nulla. Sarà tutto molto diverso, ma non è finito. E’ finito tutto, invece, per quella ragazza di diciassette anni che voleva difendere sua sorella dai tuoi incroci. Per le non ci sarà più niente. Per lei e per tutte le decine, centinaia, migliaia di altre ragazze e donne che hanno dovuto fare i conti con tutti i tuoi colleghi perditori di teste. Con chi non ha saputo fermarsi. Con chi, poi, giocherella con il “raptus”, come stai cominciando a fare anche tu; un giochino che, peraltro, piace enormemente agli scribacchini prezzolati che si gettano, al contempo, sulle fotografie della vittima, riprendendole da quel luogo di delizie, cuoricini e grand’amori che si chiama “Facebook”.
Ma, tanto, Samuele Caruso, ora tu su “Facebook” non puoi più andarci. Non te la puoi più aggiornare la paginetta coi tuoi pensierini e con la tua musica preferita. Pensa: saresti stato un normalissimo ragazzo, e perdipiù di una categoria assai numerosa: quella dei Lasciati dalla Fidanzata (sembra che il termine “fidanzata” ora sia tornato molto di moda, persino tra i quindicenni). Chissà che altro c’era dentro quella paginetta; magari, chissà, considerazioni sulla “mancanza di futuro”, speranze, discorsi edificanti; ora ti ritrovi con un futuro assicurato per anni, a spese dello stato (ma ti presenteranno anche un conto economicamente salato, in forma di risarcimento alla famiglia di quella ragazza; in pratica, qualcosa da mandare definitivamente in rovina tu e tutti i tuoi cari). Ti ritrovi con delle persone che ti odiano e ti odieranno per sempre, anche se i tuoi avvocati, ad un certo punto, ti consiglieranno di scrivere la consueta “richiesta di perdono”. Non ti perdoneranno mai, bisogna che tu te lo metta fin da ora in quella gran testa che dici di avere perso. Ti ritrovi con delle persone che faranno di tutto perché tu, Samuele Caruso, in quella galera ci rimanga chiuso per sempre. Fine pena mai. Ergastolo. Basterà che riescano a dimostrare la tua premeditazione; e non sei messo bene da questo punto di vista. Ma punto bene. Ti ritrovi su tutti i giornali, ma ci resterai per poco. Ti ritrovi con un processo da dover sostenere davanti alle facce dei parenti di quella ragazza che hai ammazzato, e soprattutto di sua sorella. Quella che amavi tanto e che ti aveva lasciato. Non è una bella situazione, no? E bisognerà che qualcuno te lo dica, Samuele Caruso, senza mezzi termini. Sei veramente un cretino, oltre che un assassino. In compagnia di altri non so quanti cretini, di “mariti” sterminatori, di “fidanzati” appostati come sicari, di “padri di famiglia” annientatori, e di stalkers, di allucchettatori, di possessori e di altri deficienti del genere. In compagnia di tutta una società, probabilmente, che ha scambiato l’amore con un’istituzione al pari delle altre. O per una banca: quante volte si sente dire che, in una relazione tra due persone, si compie un “investimento”? Ho investito tutto su di te, e ora mi lasci! E zàc, si esce col coltello.
Ora, certo, ti ribadisco una cosa, Samuele Caruso. Non leggerai proprio mai questa cosa che sto per finire di scriverti. Ma, chissà, forse la leggeranno altri come te. Altri che sono stati lasciati con tutti gli ammennicoli di cui sopra. Sto vivendo, sai, una bellissima storia d’amore; eppure, un giorno, potrei dovermela rileggere io stesso, questa cosa che ho scritto. Tutto può avere una fine. Potrei dovermela rileggere, e pensare non a una cella, ma -che so io- all’isola d’Elba che comincia ad apparire da dietro il promontorio di Piombino. Ai miei libri. Al gatto nero che dorme tranquillo sul letto. A tutte le persone che mi vogliono bene e anche a quelle che non me ne vogliono. Ai miei ideali per i quali, giusti o sbagliati che siano, ritengo che valga la pena vivere. A un piatto di pasta alla gricia. A un sigaro fumato nella notte sull’uscio di casa. A un giro senza meta per le campagne alla ricerca di vecchie carrette da fotografare. A tutte le mie cose, a tutte le mie persone. A tutto ciò per cui è bene, i coltelli, lasciarli nei cassetti. Ad un nuovo amore, che poi finirà come me ne sono finiti, in cinquant’anni, una caterva. A quel che ho dentro, e che mi basta senza più avere quel tuo cazzo di ventitré anni buttati nel cesso. Per che cosa, Samuele Caruso?
Non potendo commentare da lui, lo dico qui
Grazie per quello che hai scritto, era necessario
Mi ha molto colpito la parte sul romanticismo d’accatto che è tornato di moda recentemente, quello con i lucchetti e cose del genere. Io ho già quasi 33 anni e non frequento molti ragazzi giovanissimi, ma un’amica assistente universitaria mi racconta spesso che la prassi fra i suoi studenti e studentesse quando iniziano una storia è darsi l’un l’altro la password di facebook. Mi chiedo quale ossessiva idea di controllo ci sia alla base di tutto ciò, e perché una mentalità del genere non sia ancora superata. L’equazione tra amare e limitare la libertà dell’amat@ è più forte che mai.
molto bella la lettera di riccardo.