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Vuoi suicidarti? E non sporcare e non fare rumore!

No, vabbè. Smettiamola di fare finta di dispiacerci. C’è questa bomba che deflagra e fa cadaveri, uno dietro l’altro, ed è puro terrorismo. Arriva quella busta che pretende il saldo dei tuoi debiti, e zac, la ditta si prepara con un paracadute ad aggancio rapido o con un telo sotto l’edificio. La busta la consegna un vigile del fuoco perché per prima cosa tu vorresti tentare di bruciare ogni tuo bene.

Ma di che stiamo parlando? Articoli su articoli, toni pietosi e tutto, vedove inconsolabili, morti alla stessa stregua di feticci per i ricconi che sulla morte altrui capitalizzano altro guadagno, e questi che si ammazzano per non ammettere oltre il loro niente, abituati a lavorare e a sperare o a non fare niente, forse, e a posticipare, e tutti fanno finta di curarsene, ché è un dettaglio da non sottovalutare, mentre in realtà ti frega il giusto, perché è una società di individualisti, dove il più sano c’ha la rogna e dove si usa la televisione per farti l’anestesia locale.

Ci vuole anche un po’ di senso della misura nelle cose. Facciamo a dirla seriamente: di questi che si suicidano non ce ne frega un cazzo. Leggiamo sul giornale quella storia, diciamo “ah bhé” e poi andiamo al cesso per farci la cagata mattutina. Tutti a pararsi l’anima nella speranza che domani non succeda, tu non riceva niente, ché siamo un popolo di latitanti e ricercati da finanza ed esattori.

Lo stalking? E’ l’esattore che lo fa, con metodi molesti, che ti tartassa di telefonate e ti intimidisce e poi ti fa venire il batticuore senza portarsi dietro un po’ d’ossigeno. Ce l’ha di suo, quella figura professionale, di essere antipatico senza scusante alcuna. Un trauma da piccino, forse non tromba, o gli piglia male, o è un disgraziato come tanti, ma fatto sta che i nuovi sadici, i kapò di Stato e dell’industria, questi aguzzini che si aggirano per l’Italia e che hanno un ghigno stampato sulla faccia quando reperiscono un nuovo tuo indirizzo, sono quelli che vengono a pignorarti l’osso sacro se hai trascurato di pagare una cambiale.

Ché se l’hai fatto perché volevi il Ferrarino, la villa con piscina, tutte le cose ganze che ci devi avere per apparire e per colmare il vuoto neuronale, sono cazzi tuoi. Non ho pietà. Se tu sei il nulla e per esistere compri oggetti tu sei già morto e quel suicidio a fine proprietà è una presa d’atto. Una formalizzazione. Ci devi credere che possa esistere altro e possa esserci un’altra scala di valori. Lo devi immaginare che la tua vita vale più dell’abito che hai indosso e che non puoi pensare di frantumare coglioni e ovaie a tutti quelli che hai attorno.

Ti sei comprato il televisore al plasma? Ma che ti frega se te lo pignorano. Togliamo pathos a questa cosa, smettiamo di legittimare questa credenza popolare, tutta capitalista, che se non possiedi tu sei niente. Se ti tolgono tutto quello che avevi accumulato guardi allo specchio, vedi uno che non ha più impegni, prendi e ti metti a fare altro.

Com’è che dite quando una donna resta senza lavoro? Vai a fare la badante, vai a pulire le scale, vai a servire ai tavoli, e allora fallo pure tu e smetti di piangere, di trascinarti dietro tutta la parentela, di pensare a cose brutte, idee di morte, ché poi non hai neppure la bontà di spararti in testa tu da solo perché nemmeno fossi un re d’egitto, prima di diventare mummia, spari alla moglie, ai figli e pure al cane e te li porti dietro.

La depressione? E’ quell’idea che ti pare affascinante della medicalizzazione di una dipendenza. Ti hanno detto che se non hai la casa non sei un cazzo. Invece sei e così forse ti rendi conto perché tra te e il nomade che hai appena cacciato dal quartiere tuo, di quando ti facevi forte del tuo status per dire all’immigrato “tu devi andare a lavorare”, non  c’è nessuna differenza. Allora pigli una tenda, ti accampi in un giardino, la smetti di mirare con rancore verso le persone sbagliate e smetti anche con il solito frasario “i sacrifici di una vita” e “non puoi togliermi quello che è mio” e bla bla bla e la finisci di pensare che sei l’unico che soffra.

Piuttosto fai un comitato nazionale di indebitati ché incazzati e unitevi. Ma vai a spaccare il culo – in senso metaforico – ai ministeri, agli esattori, a tutta quella brutta gente che gode e si trastulla mentre ti portan via la dignità. Non mi fai pena. Io sono come te. Lo siamo tutti. Siamo precari. Ci siamo nate, cresciute e così poi ce ne andremo, ma non sto qui a piangere perché non ho l’automobile di lusso e anche se non avessi niente e se alla fine mi togliessero il sudore di tutta una vita, la mia “impresa” non potrebbe chiudersi con il coraggio starnutito, più che coraggio e strafottenza, più che strafottenza e ironia.

Lo so che non è semplice, ma che ti devo dire? Hai già il cappio pronto? E tira, deficiente, sono cazzi tuoi. Sei l’unico esemplare d’efficienza che si autoinfligge una condanna a morte perché qualcuno dici ti abbia rapinato.

C’era mia nonna che campava d’aria. E io ho imparato a non morire d’inedia e d’apatia. Finché hai la rabbia in corpo tu sei vivo. Pigliati soggetto, predicato e complemento, suicidati-d’italia-unitevi, e formula una frase che vada oltre quel lamento scarso, che non lascia traccia, perché a nessuno gliene fotte niente, a dir la verità neppure a me perché ho altre cose cui pensare, c’ho da sopravvivere e non ho tempo di occuparmi di morti viventi.

Se hai le gambe seguimi. Se hai la voce parlami. Se hai le mani toccami. Se hai una tastiera scrivimi. Se non hai un cazzo, boh, magari leggimi, respira prima di insultare, perché non è a me che devi insegnare la disperazione, e poi sorridi. Ma dai, dici sul serio? Davvero ti vuoi spremere il cuore per via di quella gente di merda?

Posted in Narrazioni: Assaggi, Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze.


3 Responses

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  1. ale says

    Piccola parentesi sui suicidi cosiddetti “per crisi”, che in realtà son “per capitalismo”.

    Si trattano i suicidi nella stessa maniera banale dei media, come di una grossa categoria di disperati che affogano i loro lamenti nella morte (in questo i media sembrano ingannevolmente dalla parte del popolo sfruttato, narrando una crisi che lo distrugge, ma non fa che favorire il gioco del dominio annebbiando ogni possibile riflessione seria sulla lotta). Si tende a farne un coacervo di corpi impazziti e nient’altro, cancellando di fatto le singole modalità (il cappio è uguale al darsi fuoco? ci si darà mai fuoco in cantina da soli? ci si impiccherà mai in piazza? e ancora, trangugiare farmaci è uguale a fare lo sciopero della fame?) e le profonde radici che affonda nella società: se da una parte l’individualismo ci ha portati a cercare la nostra carriera, con una nostra vita, una nostra strada, da percorrere con una nostra auto, per poi tornare alla nostra casa, a coltivare il nostro orticello, guardare la nostra tv al plasma e far passeggiare il nostro cane, dall’altra (e incredibilmente sempre con termini positivi) ci porta ad avere la “libertà” di risolvere i nostri problemi da soli, la “libertà” di scegliere la soluzione al nostro problema, la libertà di cavarcela da soli. L’individualismo (che qui è una parolina, ma è chiaro che mi sto riferendo a una cosa enorme che si concretizza in innumerevoli quanto effimeri attimi di vita quotidiana) interviene anche sulla capacità di autorganizzarci, rendere collettive certe lotte e certe sofferenze. Basta prendere l’esempio limite di chi subisce uno sfratto: un conto è affrontarlo soli, un conto è affrontarlo con una rete anti-sfratto. O in generale con una rete solidale. Poi c’è chi ha grinta e il nervo della lotta gli rimane vivo anche quando è solo, come forse chi ha scritto questo post. Ma come si diceva in un film di Scola, purtroppo c’è chi non riesce ad affrontare la solitudine da solo.

    Sia chiaro: condivido la grinta del post e condivido lo schifo per l’aver pietà e niet’altro. Per il “ah, va beh” dopo la lettura della cronaca. Condivido una sorta di schifo per quei suicidi che prima sono omicidi o femminicidi. Ossia quei suicidi dove entra in gioco (o prende più spazio) anche l’ordine simbolico patriarcale. Ma appunto ci sono delle differenze che vanno pensate. Per dire, a me un mercante che si da fuoco davanti al comune o una madre che si da fuoco davanti all’ambasciata, più che farmi pensare alle ragioni del loro gesto (anche), mi fanno pensare soprattutto a cosa ne è della lotta, delle lotte. Al di là di ogni attribuzione di colpa: ogni società produce anche i suoi metodi di rivolta.

  2. Marilena says

    E meno male che lo dice qualcun altro. Credevo di essere l’unica cattivona.

  3. Jo says

    Mi piace molto questo post. Del resto, vivo nella terra più Equitalizzata d’Italia, la Sardegna. In mezzo a tanti disperati veri ci sono anche tanti disperati finti: l’altro giorno discutevo con un padre di famiglia dei suoi 120000 euro di debito con lo Stato, ovviamente va a votare (per fare favori a questo o a quello, ha detto lui) ma ce l’ha a morte con Equitalia. Giusto ieri l’ho visto sfrecciare con un Suv nuovo di zecca, io che gli davo ragione mi sono pentita all’istante.
    Buona parte della faccenda, mi pare ovvio, è funzionale alle elezioni.
    Gli altri e le altre che non hanno mai avuto nulla sono meno disperati, chissà come mai 🙂