Da Uninomade (via Lipperatura):
Violenza, potere e produzione del genere. Alcune riflessioni
di Roberta Pompili
Io sono dio” sembra che siano state queste le parole dell’uomo che ha lanciato il piccolo della sua ex compagna nel fiume Tevere, dopo l’ultimo litigio a seguito della separazione con la stessa.
Non passa giorno che i media mainstream -ma anche la comunicazione femminista militante, in modi molto diversi e generalmente attraverso siti, blog- ci informino dell’ultimo efferato delitto, dell’ultimo stupro ai danni di una donna.
La violenza maschile nei confronti delle donne e la sua drammatica evidenza è entrata nel dibattito politico-culturale, con diverse declinazioni, sensibilità e punti di vista: di fatto una questione importante su cui interrogarsi.
Sul versante dell’impegno femminista ad esempio sono stati coniati nuovi termini: Ginocidioè il termine ad esempio suggerito da Daniela Danna, in un suo testo la studiosa si occupa di evidenziare come la maggiore evidenza della violenza maschile nell’era della globalizzazione può essere legata ad una rottura dei modelli tradizionali di genere -in cui la violenza era più dentro il sistema di ruoli e di potere che non così esplicita- e ad un maggiore protagonismo femminile nella vita e nel lavoro.
Femminicidio è il termine usato da Barbara Spinelli, mutuato dall’antropologa messicana Lagarde, per indicare la violenza sistemica e strutturale a cui sono sottoposte le donne nell’asimmetrico contesto di potere e di vita, una violenza che lede quotidianamente i corpi delle donne, ne nega i diritti fino ad arrivare ai casi estremi di stupro e omicidio. Tamara Pitch ha messo invece in evidenza la stretta relazione tra sessismo e razzismo nelle opinioni ricorrenti, nelle posizioni politiche, negli interventi legislativi (leggi sulla sicurezza) denunciando l’uso strumentale della questione violenza: di fatto nell’occidente postcoloniale i corpi delle donne sono ancora una volta in ostaggio delle politiche maschili, che hanno l’obbiettivo di produrre nuovi confini nazionali di tipo politico-culturali, nei confronti degli “altri”, dei migranti.
Eppure questi termini, questo dibattito da soli non bastano a fotografare una realtà a dire il vero molto complessa: la violenza interpersonale e le sue declinazioni razzializzate e sessualizzate nell’era del capitale globale, della biopolitica e del securitarismo.
Recentemente, in un intervento per un Convegno contro la violenza sulle donne organizzato a Perugia dalla Regione Umbria, l’antropologa Papa, ha efficacemente descritto almeno tre grandi tipologie di spiegazione teorica- che qui di seguito riporto brevemente- sulla violenza e le sue cause, analisi che si riferiscono alle ricerche, ma anche movimenti di opinioni e pratiche sociali connesse.
La prima tipologia è naturalista e giustificazionista. Le cause delle violenze sarebbero legate a disturbi psicologici dell’uomo, a fattori di devianza in generale, alla contesto di vita degradato e marginale dell’attore sociale.
Di diverso taglio sono le spiegazioni di tipo storico e sociologico. Ad esempio, gli storici anglosassoni dei men’s studies hanno evidenziato come la nascita della “mascolinità moderna“, con il corollario della difesa dell’onore e la complicità tra uomini, sia da porsi in relazione con l’affermarsi dell’imperialismo, del capitalismo e del razzismo. Un modello questo di mascolinità che escludeva non solo gli uomini “altri” (primitivi, negri, omosessuali), ma anche chi uomo non era, le donne.
Alcune analisi culturali si soffermano, dall’altra parte a descrivere la crisi del modello tradizionale di mascolinità prodotto dalle trasformazioni sociali e dalle nuove modalità di vivere il rapporto tra i sessi da parte delle donne. La violenza sarebbe il risultato di una crisi maschile, gli uomini reagirebbero in maniera violenta proprio perché sfugge loro il controllo della relazione, che non esercitano più con l’autorità tradizionale. Le analisi storico-sociologiche, non riescono però a spiegare l’estensione e la ripetizione del fenomeno in sistemi e contesti culturali diversi.
Ci sono infine le analisi che privilegiano una lettura strutturale e sistemica della violenza legata alla struttura patriarcale della società, slegata dai singoli contesti storici o a specifiche ragioni socioculturali o tantomeno a singoli atti individuali su cui la società occidentale si è organizzata. Il modello tradizionale di mascolinità, in questo caso, fa riferimento a pretese leggi naturali, ed è stato storicamente costruito intorno ai concetti di potere, lavoro produttivo, successo economico, aggressività, omofobia, e subordinazione delle donne.
Questo modello teorico mostra gli elementi di continuità in contesti storicamente differenti, e spiega la lunga durata del modello egemonico di mascolinità nel tempo, e anche dell’esercizio di sopraffazione e violenza contro le donne, ma non riesce a mostrare le trasformazioni delle condizioni in cui la violenza viene esercitata, gli elementi di rottura.
I tre modelli esplicativi individuati schematicamente, e che possono essere utilizzati congiuntamente, hanno però il limite -secondo la stessa Papa – di non riuscire a mettere al centro della riflessione l’agency individuale, il modo in cui i modelli culturali si trasformano ad esempio, ma anche come vengono vissuti, incorporati dagli attori sociali.
A tale proposito mi sembra interessante riproporre la lettura di un testo importante Sex and violence ed in particolare il saggio The problem of explaining violence in the social sciencesdi Henrietta Moore che cerca di costruire una spiegazione teorica del rapporto tra violenza, potere, sessualità e genere, individuando proprio nell’agency e nella soggettività un punto importante di partenza.
Secondo l’antropologa, infatti, è impossibile comprendere la violenza e il rapporto che ha con la sessualità e il genere senza avere una teoria del soggetto: il soggetto si costruisce attraverso i modelli dominanti di discorsi e di pratiche che producono e riproducono le stesse nozioni di personalità e agency, la cui determinazione non è però mai assoluta perché la soggettività è sempre aperta alla sfida e al cambiamento.
Come gli individui diventano soggetti gendered? cioè, come si auto-rappresentano come donne e uomini, come vengono rappresentati dagli altri, e organizzano le loro pratiche sociali in modo da riprodurre i modelli dominanti, nei discorsi e nelle pratiche?
La studiosa considera importanti le critiche del femminismo contemporaneo (de Laurentis), il decostruzionismo di Derrida, gli studi di Lacan in psicoanalisi, la semiotica di Barthes, i lavori di Foucault: tali lavori non hanno fatto altro che demistificare l’idea illuminista di un soggetto unico, razionale, generalmente maschio, occidentale e borghese.
Gli stessi man’s studies, e il lavoro di Connel, introducendo l’idea di esistenza di modelli plurimi di mascolinità e il concetto di mascolinità egemonica hanno rotto con l’idea dell’esistenza di un unico sex gender system condiviso da tutti gli attori sociali di una data società. Le differenze culturali rispetto ai modelli di genere, dunque riguardano non solo le differenti società o diversi momenti storici: le differenze intra-culturali riguardano la molteplicità di modelli e di pratiche a cui in una stessa società un soggetto può fare riferimento anche il relazione al genere.
In questo senso, un attore sociale può assumere posizioni soggettive molteplici in relazione ad una serie di discorsi e pratiche sociali, alcune di queste posizioni possono anche trovarsi in contraddizione e in conflitto tra loro. Il soggetto post-strutturalista è composto all’interno di posizionamenti multipli e anche potenzialmente contraddittori: ciò che tiene insieme questi posizionamenti multipli è l’esperienza soggettiva, la continuità storica di un soggetto incarnato.
Moore si sofferma ad esaminare il rapporto tra dominazione e discorsi, ovvero esplicita l’esistenza di un ordine gerarchico degli stessi discorsi. I discorsi che riguardano il genere sono generalmente di natura oppositiva e mutualmente esclusiva, cioè sono costruiti intorno all’idea che il genere ha due forme una femmina e un maschio, e che la donna e l’uomo prodotti come categorie a partire da e attraverso i discorsi sulla differenza si escludono a vicenda .
Ma non è sempre così, ad esempio in molte culture, il genere è concepito processualmente, e la femminilità e la mascolinità sono qualità, piuttosto che categorie dicotomiche di persone.
L’esistenza di molteplici discorsi di genere significa che in molte situazioni, insieme a discorsi che sottolineano la natura oppositiva e mutuamente esclusiva delle categorie di genere, possono coesistere altri discorsi che sottolineano l’aspetto processuale, la natura mutevole e temporanea di attribuzione del sesso.
Ma l’ordine dei discorsi è come dicevamo costruito gerarchicamente, e dunque alcuni discorsi sul genere sono dominanti ed altri subalterni, ovvero il potere non opera rimuovendo alcuni discorsi, ma subordinali agli altri. Poiché, inoltre, i discorsi intorno alla differenza di genere sono sempre gerarchicamente organizzati, gli stessi possono essere usati come elemento di descrizione e narrazione delle altre differenze: la produzione dell’alterità utilizza gli stessi dispositivi discorsivi, le persone ritenute ”inferiori” per qualsiasi ragione sono femminilizzate, e dunque controllate e subordinate. La “lingua” del genere è frequentemente, dunque, utilizzata per ordinare le differenze in relazione al potere e al prestigio, con il risultato che il potere stesso è rappresentato in molti casi come sessualizzato.
Connel, ad esempio, sostiene che la forma egemonica della mascolinità occidentale, le costruzioni dominanti di genere sono fortemente implicate, se non addirittura inscritte dentro, nelle altre relazioni sociali. Quindi, la mascolinità egemonica penetra nel rapporto politico e economico in un modo da garantire il dominio stesso che è di genere.
Il vantaggio di avere una teoria che contempla l’esistenza di discorsi competitivi e potenzialmente contraddittori tra loro sul genere e la sessualità è che, secondo Moore, ci da la possibilità di interrogarci su come le persone prendono posizioni in mezzo a questa pluralità di discorsi.
Moore mutua a questo punto il concetto di “investment” di Wendy Holloway: la nozione di “investimento”, si situa tra l’impegno emotivo e l’interesse. Le persone, dunque, sarebbero portate ad assumere certe posizioni poiché esse forniscono piacere, soddisfazione, o ricompensa a livello individuale o personale, ma anche una ricaduta di significato e potere nel contesto istituzionalizzato vari discorsi e le pratiche, cioè, nel contesto in cui vengono accreditati istituzionalmente alcuni modi della soggettività.
E’ importante riconoscere che gli investimenti non sono solo una questione di esclusiva di soddisfazioni emozionali, ma comportano dei benefici materiali, reali economici e sociali: essere una buona moglie, una madre potente… Per questo motivo la soggettività e le questioni di identità sono legate a questioni di potere, ed ai vantaggi materiali che possono essere conseguenza gli esercizi di questo potere.
Ma posizionamento non è cosa semplice: alcuni posizione soggettive sono molto più ricompensate delle altre, e al contrario altre sono pesantemente sanzionate.
Il secondo motivo per il quale la posizione del soggetto non può essere visto come una questione di scelta razionale è legata alla natura multipla e contraddittoria della soggettività. La nozione di investimento mette a fuoco le motivazioni emozionali e sub-coscienti che riguardano le posizioni soggettive. La fantasia contribuisce a costruire l’idea del tipo di persona che si vorrebbe essere, nonché del tipo di persona che si vorrebbe essere per gli altri.
Riprendendo i lavori etnografici raccolti nel testo a questo punto Moore si sofferma ad mettere in relazione questo concetto di investimento con la questione della violenza: per l’autrice essa, quando si verifica, è il risultato di una crisi della rappresentazione, il risultato di un conflitto tra le strategie che sono intimamente connessi a tali modalità di rappresentazioni. E’ l’incapacità di mantenere la fantasia di potere che provoca una crisi, la violenza diventa il nuovo confine attraverso il quale riconfermare la natura di una mascolinità altrimenti negata. (ad esempio l’uomo che picchia la moglie perché non può controllare il comportamento sessuale dell’amante)
In un contesto sociale, dove i discorsi dominanti sul genere costruiscono le categorie di uomo e di donna come esclusive e gerarchicamente ordinate, la rappresentazione della violenza è essa stessa altamente sessualizzata e inseparabile dalla nozione di genere.
Ma anche le altre forme di differenze, principalmente la razza e la classe, sono importanti nella formazione di dei discorsi sulla identità sociale, e sono costitutivi dei modi della soggettività: per questo sono implicate anche esse fantasie di potere e di identità.
Moore conclude il suo lavoro, ribadendo tali considerazioni. Il relazione alla violenza interpersonale e con uno sguardo alle relazioni tra la violenza e le particolari forme delle differenze – genere, razza, classe- possiamo avvicinarci a comprendere il fenomeno se invece di immaginare la violenza come una rottura dell’ordine sociale, la vediamo al contrario come un segno della lotta per il mantenimento di alcune fantasie di identità e potere.