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La pelle che abito – il film

E’ Almodovar. La pelle che abito. Un meraviglioso film che ripercorre temi cari al regista. La violenza sulle donne, raccontata seguendo le linee della complessità, senza mostri mostruosi e senza semplificazioni, il queer con tutta la gamma di possibili cambiamenti di pelle per chi sceglie, decide, subisce una imposizione. La pelle come possibilità, esperimento, prigione. Il femminile, forte, fragile, piegato, consumato, finanche solo nel suo aspetto esteriore, e complice, e artefice, in grado di generare buone e cattive cose, cattive persone rifugiandosi di volta in volta nell’alibi del grembo marcio o di quello integro a seconda delle persone che ne sono state generate. Il maschile, forte, fragile, anch’egli intrappolato nel suo ruolo, illuso nel vedere consensualità dove c’è solo un gran disagio o l’assenza, perfino, come nel caso di “Parla con lei”, piegato a sperimentare il proprio potere seduttivo appropriandosi di un corpo, immaginando di poter ottenere credito come figura tutelare salvo poi sorprendersi perché quel corpo prigioniero ha solo voglia di scappare.

Le storie di Almodovar non sono mai semplici. Mille aspetti simbolici e una ricerca che va oltre gli stereotipi. La traccia di base è quella di un uomo, un chirurgo plastico, uno scienziato che sperimenta per realizzare una pelle resistente attraverso la quale ricostruire ciò che le ustioni, il fuoco, le cicatrici hanno distrutto. Abbandonato dalla moglie, che resta gravemente ustionata in un incidente d’auto, lui la riporta in casa, la tiene in vita e ne custodisce il corpo ridotto ad un tizzone informe finché lei non si suicida. La figlia resta gravemente traumatizzata da questi eventi e mentre è ancora in terapia psichiatrica nel corso di una festa segue un ragazzo strafatto di pasticche che la stupra e la induce in un trauma ancora più profondo, al punto che anche lei, infine, si toglierà la vita.

Il chirurgo rapisce quel ragazzo e lo sottopone ad un cambio di sesso. Vaginoplastica, ricostruzione di tessuti, mille interventi fino a sottoporlo ad un totale trapianto di pelle, la stessa pelle di sua invenzione che lui testerà su quel corpo.

La sua cavia da laboratorio resta rinchiusa per anni, a cercare un senso in quello che gli è stato fatto, a rintracciare un equilibrio, a conservare la sua identità continuando a vivere quel corpo come una prigione. Colmato di attenzioni, con la complicità della governante, quel corpo assume via via l’aspetto della moglie del chirurgo fintanto che non irrompe in quel contesto apparentemente asettico e privo di problemi il figlio dell’aguzzina. Istintivo, dalle sembianze bestiali, vuole portare via con se’ la donna che vede intrappolata in una stanza e prima di farsi seguire, riconoscendo in quel corpo le sembianze della sua vecchia amante, senza avere la sensibilità per scorgerne l’anima e notare la differenza, essendo egli attento evidentemente solo all’involucro, la violenta.

Ed è anche qui un simbolico giocato sulla perdita di verginità di quel prigioniero intrappolato in un corpo di donna, la violazione, il furto della pelle che il medico aveva preteso come sua, ed è quel medico che uccide l’uomo e diventa in un colpo solo carceriere e tutore, esigendo poi riconoscenza e pretendendo passione, devozione, amore, dall’oggetto della sua ossessione.

Non vi racconto la fine perché bisogna che vi lasci un motivo per vederlo ma vorrei dirvi perché trovo questo film così fantastico, come “Parla con lei”, con questi corpi di donna adoperati, questi uomini che in quei corpi non vedono altro che gli oggetti dei loro desideri, della loro ossessione, uomini che sono tutt’altro che mostruosi. Ché fuori da ogni stereotipo sono persone come tante, uomini come tanti, con vite comuni, abitudini, affetti, relazioni, professioni, sofferenze, vite passate e presenti, sensibilità. Uomini nei confronti dei quali sembrerebbe la società si accanisca con provvedimenti inutilmente repressivi e che sono prigionieri di se stessi, della propria pelle, più di quanto non lo siano di chiunque altro. Uomini contro cui la vendetta più grande si realizza per ideazione e per mezzo di altri uomini che non possono tollerare l’uso improprio di un corpo di donna che considerano proprio.

Ed è l’idea che la “tutela” sia qualcosa di ossessivo che permea tutto il film. Tutore di una moglie, tutore di una figlia, tutore di un corpo nuovo, di sua creazione, al quale la creazione sfugge perché in quel corpo matura la consapevolezza di un una nuova forma di abuso. L’abuso forse più grande, quello persistente, quello che non lascia le persone libere di vivere il modo in cui vivranno la pelle che abitano. Ché dopo aver costretto un uomo nel corpo di una donna il medico vuole che ella sia sua, di nuovo, e oltre ogni presupposto biologico la pretende etero.

Siamo circondati/e in fondo da dinamiche vendicative presentate, gestite e brandite in nostro nome. In nome delle donne. Tutori, tutrici, padre, madre, Stato, tutti impegnati a rivestirci con la pelle che non vogliamo o a farci aderire perfettamente ad un modello di vita in base all’abito che indossiamo. Tutti a interpretare i nostri disagi, ad attribuirceli, a imporci soluzioni che non sono le nostre soluzioni. Tutti a salvarci per possederci e a possederci per poi fare finta di salvarci. Tutti a fare in modo che la nostra pelle sia una trappola e a bruciarla, renderla inguardabile, quando identità e pelle diventano due tratti indipendenti, quando viviamo quella pelle con consapevolezza, come mezzo di liberazione, come strumento di riappropriazione della nostra identità. Ed è su quel simbolico che è giocato il finale che vi lascio scoprire così come è la pelle degli uomini e delle donne quella di cui si parla in questo film. La nostra pelle.

Buona visione!

Posted in Corpi, Pensatoio, Vedere.


One Response

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  1. Kiki says

    Quando l’ho visto al cinema, ci sono andata piena di fiducia, quale fervida seguace di Almodovar, nonostante tutti me ne avessero parlato male, dicendomi che fosse violento, fastidioso, impressionante. Niente di tutto ciò, ma lì per lì comunque l’ho trovato difficile da digerire, ma più che altro per motivazioni tecniche (poteva essere scritto meglio, con intrecci temporali più leggeri) e forse un po’ lungo, cosa che aggiunta alla sequela di eventi terribili diventa un’altra zavorra sullo stomaco. L’ho visto, ho fatto qualche considerazione ma l’ho presto accantonato perché molte, troppe cose di quel film mi avevano disturbata. Almodovar contrappone l’immagine di una donna liscia, levigata e bianca all’uomo sudato, rude, sgradevole, l’incubo di ogni donna ragazza o bambina che nella sua mente conserva ma non vuole guardare così spesso, incubo che ho sentito per la prima volta davvero sfogato pienamente dal regista, solitamente più equo, complice ma qui passionale ed arrabbiato. E la botta arriva eccome. Ottima questa recensione, mi ha fatto approfondire quelle riflessioni che avevo lasciato in sospeso 🙂