Un intervento di Stefano Ciccone che si può scaricare da About Gender, Rivista Internazionale di Studi di Genere (se volete leggere l’intervento completo di note potete trovare il pdf anche QUI). Buona lettura!
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Il maschile come differenza
Stefano Ciccone Università di Roma Tor Vergata
1. Le forme gerarchiche delle relazioni tra donne e uomini, le attitudini e i destini delle persone determinati in base al loro sesso non possono essere più presentate come parte di uno scenario naturale.
Il femminismo o i movimenti omosessuali, intrecciandosi con culture critiche e riflessioni svolte in diversi ambiti disciplinari, hanno disvelato la presunta naturalità dell’ordine patriarcale. Un disvelamento che è scoperta e denuncia della dimensione storica di questo sistema gerarchico e caduta di un velo che aveva reso invisibile la trama di poteri, divieti e costruzioni che ordinano lo stare al mondo di donne e uomini.
La riflessione critica sul maschile risulta, soprattutto in Italia, ancora molto limitata. Il maschile come oggetto di riflessione, come punto di vista e come esperienza, resta ancora invisibile e muto, occultato dalla norma maschile eterosessuale.
La cultura maschile, nella sua dimensione politica o istituzionale, si è misurata storicamente con quelle che vengono genericamente definite “tematiche di genere” considerandole questioni riguardanti “libertà o – diritti altrui” ma stenta a trovare forme per esprimere una possibile domanda di libertà che riguardi la vita degli uomini.
Gli uomini, e le istituzioni che hanno costruito e in cui si sono realizzati, vengono infatti chiamati a misurarsi con la discriminazione femminile nell’accesso al lavoro o alla politica, con la stigmatizzazione delle “minoranze sessuali”, con la mercificazione dei corpi femminili nella comunicazione. Questo richiamo può vedere un’assunzione di responsabilità, un’accettazione di colpa, una rinuncia più o meno depressa, ma anche una reazione di rivalsa basata sulla percezione del fatto che in ballo ci sia, fondamentalmente, l’intimazione a una cessione di potere da parte degli uomini e di un arretramento rispetto a una posizione di centralità1.
Come vengono, infatti, letti e come vengono presentati agli uomini i profondi cambiamenti in corso nelle rappresentazioni dei generi e delle relazioni tra i sessi nella dimensione sociale e simbolica? La rappresentazione nei media e nel dibattito politico della trasformazione avvenuta nei rapporti tra i generi nelle relazioni familiari, nel lavoro, nella sessualità la propone come fonte di frustrazione e di smarrimento maschile. Forse un necessario riequilibrio di opportunità, carichi e poteri, ma certo una minaccia per il posto che gli uomini hanno avuto fino ad oggi nel mondo e per l’idea che hanno avuto di se stessi. I processi di cambiamento vengono inoltre rappresentati sotto la categoria della femminilizzazione e dunque associati a una perdita di identità per gli uomini.
Una rappresentazione essenzialista di virtù e attitudini maschili e femminili con cui misurare i cambiamenti in corso schiaccia le nuove paternità nella macchietta dei “mammi” e le nuove relazioni tra donne e uomini nella sessualità nella scena riduttiva di uomini intimoriti dall’intraprendenza femminile.
La virilità come costruzione sociale è sì garanzia di centralità e di “dominio” ma è, al tempo stesso, condizione sempre precaria, modello di riferimento che espone gli uomini a una perenne incertezza della propria identità e impone loro un continuo esercizio di approssimazione.
La categoria di “crisi del maschile” mostra qui tutta la sua ambivalenza rappresentando una concreta espressione dell’incrinarsi della capacità dei modelli tradizionali di conferire senso alle vite degli uomini e, dall’altra parte, proponendo un modo di intendere il cambiamento come minaccia alla vita di ogni singolo uomo.
2. È possibile ipotizzare che nella critica ai modelli patriarcali, nel contrasto alle discriminazioni sociali per genere ci sia per gli uomini non solo e non tanto una minaccia, ma anche un’opportunità per conquistare relazioni più libere?
La costruzione di una gerarchia simbolica prima ancora che sociale ed economica tra maschile e femminile o la stigmatizzazione di orientamenti sessuali differenti dalla norma, che effetto hanno sulla vita degli uomini, sulla loro percezione del proprio corpo, sulla qualità della loro socialità e sugli spazi di libertà a loro disposizione nella costruzione del proprio stare al mondo?
L’ingiunzione a mostrare di “non essere femminucce”, la continua ironia omofoba, la diffusa misoginia che nega autorevolezza e riconoscimento alle donne nelle professioni, la relegazione delle donne nelle relazioni di cura nello spazio privato della famiglia, sono certamente elementi che ripropongono una rappresentazione gerarchica dei sessi, che giustificano la discriminazione, quando non la violenza, verso chi non corrisponda alla norma eterosessuale e raccontano a un uomo eterosessuale che il suo essere tale lo porrà al centro della norma di riferimento e non gli precluderà nessuna opportunità di realizzazione ed espressione sociale. Ma cosa implica questa costruzione? Quanto la sua socialità con altri uomini sarà vincolata e rattrappita nell’espressione di affettività dall’ansia omofoba? Quanto la sua sessualità sarà schiacciata nel canone della prestazione e del possesso? Quanto la sua vita sarà segnata dall’interdizione ad esprimere bisogni, desideri, emozioni?
Assumendo questo punto di vista la discriminazione omofobica appare non solo come strumento di stigmatizzazione di quanti e quante non corrispondono alla norma sociale di espressione del desiderio e di costruzione delle relazioni affettive, ma un potente dispositivo di sanzione di ogni scostamento che riguarda tutti gli uomini. È dunque opportuno analizzare i dispositivi di interdizione del cambiamento nel mondo maschile basati sul ridicolo, sull’ansia omofoba, sul fantasma della perdita di qualunque identità.
3. La costruzione di rappresentazioni stereotipate dei sessi e delle loro relazioni strutturano non soltanto i “soggiogati” ma anche i dominanti, che sono a loro volta sottoposti a un complesso dispositivo di controllo che ne disciplina l’espressione.
Il sistema di poteri che si esercita sui corpi e sui desideri delle persone è dunque complesso. Non si tratta di mero dominio ma di un sistema di significati che struttura e vincola le esistenze e i desideri di ogni essere umano: quotidianamente da questo riprodotto, risignificato e declinato in forme diverse. Che vede forme di “complicità” anche dei soggetti “eccentrici” alla norma e impone forme di illibertà a chi a quella norma corrisponde: una corrispondenza mai statica e mai indolore.
Leggere questa complessità non vuol dire negare le differenti collocazioni in questo sistema di poteri né cercare facili vie di assoluzione per gli uomini che ne sono storicamente al vertice. La ricorrente denuncia (spesso strumentale), per esempio, della responsabilità educativa delle madri nella riproduzione di modelli stereotipati di genere non può negare queste differenze ma, anzi, rimanda alla pervasività di questo sistema che ordina il nostro immaginario e che resta fondato sulla gerarchia tra i due sessi.
Al tempo stesso ritengo sia interessante interrogare culture, pratiche e politiche del mondo LGBT2 per esplorarne l’internità all’immaginario e al simbolico dominante, la riproduzione spesso inconsapevole di rappresentazioni stereotipate dei generi.
Nell’esperienza del movimento di riflessione sul maschile3 di cui sono parte, si tenta di sviluppare una pratica comune tra uomini eterosessuali ed omosessuali confrontando le differenze ma anche scoprendo le similitudini o le invarianze che vengono rielaborate in base agli orientamenti sessuali ma che spesso hanno comuni radici in rappresentazioni misogine e in polarizzazioni tradizionali quali quelle tra emotività e razionalità, tra attitudini all’accoglienza, alla cura o all’ intraprendenza su cui vengono usualmente ordinati i generi. L’eterosessualità e l’omosessualità vengono quindi messe in relazione come due differenti declinazioni di una comune esperienza maschile: due differenti modi di vivere e percepire lo stesso corpo, due orientamenti sessuali ed affettivi differenti ma maturati in uno scenario di socializzazione che si è nutrito di comuni rappresentazioni dei sessi e dei corpi.
Esiste dunque una pluralità dell’esperienza maschile e una sua relazione non univoca con il sistema di potere maschile. Il posizionamento che il percorso di Maschile Plurale sceglie, e dal quale svolgo questa riflessione, consiste nell’assumere la parzialità dell’esperienza maschile e, a partire da questa, costruire uno sguardo critico ed una pratica conflittuale e trasformativa. Non un distanziamento volontaristico dal privilegio maschile, non una scelta di disciplinamento di una “natura maschile” potenzialmente violenta da “civilizzare” in nome dei dettami del “politicamente corretto”. Come declinare in pratica politica questa collocazione?
4. È possibile, come uomini, pensare la propria libertà in conflitto con il sistema di poteri e gerarchie che ordina le relazioni tra i sessi?
Quello che chiamiamo “patriarcato” non è una costruzione metastorica, una forma di dominio astratta. Come uomini è per noi importante riconoscere le radici di questa istituzione e vedere come esse affondino in una tensione, un’angoscia maschile originaria a cui la costruzione del dominio sul corpo delle donne ha dato una risposta.
Riconoscere che il potere maschile ha origine anche in un bisogno di rispondere a quella che è stata percepita come una disparità tra i sessi nel processo riproduttivo – ma non solo – è un modo per mettere quello che ormai è un sistema normativo in relazione con la materialità dell’esperienza maschile e dunque con la sua parzialità.
Si tratta quindi di una costruzione che rappresenta e nega al tempo stesso questa parzialità. La rappresenta perché ha offerto una soluzione ad un’angoscia ancestrale maschile per la disparità tra i sessi nei processi riproduttivi4, la nega perché rappresenta il maschile eterosessuale come norma neutra di riferimento rispetto alla quale ordinare gerarchicamente in collocazioni subordinate il femminile e l’omosessualità maschile. Ma la nega anche perché schiaccia ogni esperienza maschile entro i canoni obbligatori della virilità, nega l’espressione libera dell’esperienza maschile nella sua parzialità. La ricerca antropologica di Giuditta Lo Russo (1995) evidenzia come questa costruzione generi un’altra forma di negazione dell’esperienza maschile: basandosi sulla valorizzazione della corporeità percepita come terreno del proprio scacco il modello di virilità dominante implica una atrofizzazione della corporeità maschile schiacciandola sulle sue prestazioni lavorative e sessuali e impoverendone le potenzialità relazionali ed esperienziali.
Si tratta quindi innanzitutto di rendere visibile questa costruzione5 e di leggerne le implicazioni. Prima tra tutte proprio quella di togliere agli uomini la possibilità di
4 Sempre illuminante a questo proposito il testo dell’antropologa Giuditta Lo Russo (1995, p. 41 e ss.): «[l’originale ignoranza del nesso tra atto sessuale e processo procreativo] significa che metà del genere umano vive il suo essere nel mondo come biologicamente non necessario […]. Ciò che esiste nella cultura delle origini (ed è nostra convinzione che ciò abbia costituito un “problema”) è la condizione esistenziale di quella metà del genere umano che si percepisce esclusa da quella dimensione procreativa che invece per noi le è connaturata […è] il problema della condizione maschile “prima che” si scoprisse la proprietà fecondativa dello sperma […]. In questa eterna vicenda dei corpi, il corpo degli uomini non può contenere altri corpi, non si moltiplica, uno non ha la possibilità di divenire due. Gli uomini restano chiusi, finiti in se stessi. Ogni uomo nasce da un corpo di donna, cresce e muore. Non appare esserci continuazione. Si deve uscire dal biologico perché nelle sole relazioni biologiche del sistema genetico procreativo il maschio resta escluso, isolato e non necessario, di qui, appunto la necessità di costruire relazioni “artificiali” di tipo nuovo che lo includano “necessariamente” […]. Questo imponente, universale sforzo di organizzazione collettiva per risolvere il comune problema l’hanno fatto gli uomini, alleandosi tra loro. Il potere che ne è derivato si è costituito nelle loro mani».
riconoscersi6: la virilità come norma occulta l’esperienza maschile e l’autorità della parola maschile sul mondo si basa sulla rimozione della propria corporeità, della propria dimensione relazionale ed emotiva, percepite come limitanti della propria razionalità. Si tratta quindi di un doppio movimento in cui non ci si percepisce come parziali e ci si “dimentica di se stessi”.
Come è possibile sviluppare una riflessione di uomini che sia in grado di dare conto della tensione esistente tra questa parzialità e la rappresentazione simbolica normativa da essa generata? E come fare per evitare che questo confronto diventi paralizzante? Quali sono le condizioni e le forme per agire un conflitto e produrre una lettura critica delle costruzioni e rappresentazioni di genere a partire dall’esperienza maschile?
Questa riflessione intende elaborare una forma possibile di espressione di un conflitto, un punto di vista critico sulla costruzione dominante che ordina corpi, desideri e destini delle persone a partire dallo stare al mondo come uomini. Ma come agire un conflitto nei confronti di una norma che ci affida, come uomini, un destino non solo di dominio ma di piena centralità nel mondo?
Si tratta, come abbiamo visto, di un conflitto con un ordine che ci rappresenta, con un sistema di potere che ci propone una condizione di privilegio con una rappresentazione dei sessi che ci pone al centro, misura neutra dell’umano rispetto a cui il femminile viene ordinato gerarchicamente in condizione di inferiorità e dove altri orientamenti sessuali vengono rappresentati come devianza o patologia. A quali risorse attingere per produrlo?
Questa strettoia, in cui si trova una posizione maschile eterosessuale, può rivelarsi fertile: impone, infatti, di non fare ricorso ad alcune scorciatoie che tentano ogni posizionamento conflittuale con la norma eterosessista e su cui il femminismo e il movimento Queer7 hanno riflettuto.
Nella storia della politica delle donne è ricorrente, a fronte di una svalutazione sociale del femminile, il ricorso alla riproposizione delle attitudini femminili (ad esempio alla cura, alla relazionalità, all’accoglienza della vita contrapposte alla violenza, alla guerra e alla sessualità bulimica e autistica proprie della cultura maschile) come valore e anche come risorsa da far valere nella società e nella politica. Molte autrici femministe hanno riflettuto sul rischio derivante da questa operazione che finisce con il proporre una idea essenzialista di “donna” schiacciata sulle funzioni stereotipate associate al suo ruolo sociale subalterno. Per gli uomini il riferimento a “virtù” tradizionalmente maschili come l’intraprendenza, il disciplinamento delle emozioni e delle pulsioni o la propensione a farsi carico del sostegno o della protezione della donna o della famiglia apparirebbe immediatamente connotato da un riferimento gerarchico8. Allo stesso modo, non è possibile quel gesto di invenzione che ha portato il movimento LGBT ad affermare, con le manifestazioni del Pride, l’orgoglio di sé come risorsa trasformativa di un mondo che rappresenta il proprio orientamento sessuale e affettivo come patologia o abiezione. Nessun “orgoglio maschile” può essere invocato come leva per il cambiamento, in un mondo segnato dall’affermazione diffusa del modello maschile eterosessuale.
5. L’espressione critica dell’esperienza maschile è costretta alla costruzione di una forma e di un linguaggio del conflitto che non fugga nella scorciatoia della propria affermazione contro un potere rappresentato come estraneo e linearmente oppressivo: il sistema di potere, che ordina corpi e destini, opprime e stravolge il desiderio degli uomini, ma al tempo stesso conferisce loro privilegi concreti e simbolici.
Esprimere la differenza maschile – una differenza che si è fatta norma assumendo le proprie attribuzioni stereotipate come misura della propria primazia – costringe a rifuggire da ogni rappresentazione essenzialista della differenza sessuale. Nessuna
6. In questa riflessione emerge la centralità del corpo come elemento controverso. Non segno di un destino inscritto nella biologia e neppure mero costrutto linguistico nelle disponibilità del soggetto nel processo di propria affermazione. La riflessione sul corpo si è in genere incentrata sulla corporeità femminile, sulle sessualità dissidenti e discriminate. Il corpo maschile è stato oggetto di un silenzio che era conferma della naturalità del suo potere.
È parte decisiva della riflessione critica sul maschile una ricerca sulla corporeità degli uomini capace di reinventarne la percezione e la rappresentazione sociale e dunque l’esperienza che ognuno di noi ne fa. In questo processo appare decisivo il riconoscimento del desiderio femminile che si rivela al tempo stesso esperienza di un limite che mette in discussione la rappresentazione basata sull’asimmetria di desiderio e dunque soggettività tra i sessi, e opportunità di reinvenzione della percezione del proprio corpo per gli uomini.
7. Se, come ho tentato di dire, riconosciamo nella costruzione del simbolico patriarcale una radice interna alla storia e alla condizione del nostro sesso, risulta anche impossibile dirsi estranei a questo ordine oppressivo e cercare in questa estraneità un’innocenza. Non è possibile, cioè, agire un conflitto con un sistema di potere estraneo e distante: non c’è nessuna “cittadella del potere”, nessun “impero” da assediare da nessuna “moltitudine” forte della propria alterità. Il potere che contestiamo ci attraversa, ci plasma, immiserisce le nostre vite e al tempo stesso struttura il nostro immaginario. Il conflitto che dobbiamo produrre è dunque un conflitto che sfugge alle semplificazioni: che non possiamo porre fuori di noi, che ci chiede continuamente di vedere il nostro movimento tra internità ed estraneità al dominio.
8. Mettere al centro la “differenza maschile” permette di verificare la fertilità e le implicazioni di un posizionamento: quello che corrisponde a porsi, come uomini, assumendo la propria parzialità. Ciò implica, come abbiamo visto, non limitarsi all’assunzione di responsabilità nel contrasto della discriminazione delle donne o delle minoranze sessuali, ma affermare una domanda maschile di cambiamento a partire dalla parzialità della propria condizione.
Questo posizionamento e questo percorso è oggi possibile grazie all’affermarsi nel mondo della soggettività politica delle donne e al crescere di culture che hanno sottoposto a critica le rappresentazioni di genere dominanti. Ciò porta gli uomini a misurarsi con un limite: il riconoscimento di una diversa soggettività che abita il mondo e la perdita della centralità maschile come condizione naturale. Ma offre anche agli uomini le parole e lo spazio sociale per sviluppare un percorso di trasformazione. L’esperienza di un limite derivante dal riconoscimento di una parzialità si rivela, quindi, non necessariamente fonte di un’esperienza frustrante di rinuncia e depressione ma una possibile risorsa conoscitiva e trasformativa. Le parole e lo sguardo prodotti dalle donne sul mondo aprono agli uomini opportunità di cambiamento e di liberazione. L’incontro con l’espressione del desiderio femminile, tradizionalmente rimosso nella rappresentazione dei sessi polarizzata tra accoglienza femminile e volitività maschile, offre agli uomini la possibilità e lo spazio per una sessualità più ricca dello sfogo autistico, del possesso e dell’imposizione di un corpo percepito solo come strumento di violazione. Scoprire il proprio corpo come possibile territorio di esplorazione di un desiderio altro ci permette di rivelarne risorse sensoriali e relazionali soffocate dalla sua riduzione a macchina offensiva di cui misurare la performance.
La rimessa in discussione di ruoli e attitudini dei sessi propone però l’incontro tra due parzialità fuori dal miraggio della complementarietà. Affermare una differenza, affermare la differenza maschile, presuppone dunque l’esplicitazione di un conflitto inteso non come contrapposizione distruttiva, ma come tensione creativa basata sull’irriducibilità di domande, di desideri, di esperienze che entrano in relazione.
La ricerca di una possibile affermazione dell’esperienza maschile, non schiacciata sul ruolo stereotipato del dominio, ma nemmeno nelle forme misogine o rivendicative che rappresentano come castrante questa assunzione di parzialità, è oggi un terreno ancora tutto da esplorare. Non disponiamo di parole e pratiche politiche per esprimere l’esperienza libera della differenza maschile.
9. Anche molte correnti revansciste maschili assumono una collocazione che fa i conti con la crisi dell’ordine patriarcale, esprimendo più che la riaffermazione solida delle ragioni di un privilegio, una posizione frustrata o vittimistica. L’obiettivo polemico riguarda in genere le normative miranti a un riequilibrio di potere e di opportunità tra i generi e la presunta “denigrazione del genere maschile” veicolata dai media o il conflitto posto in essere dalla politica delle donne.
Un esempio di questo atteggiamento è il rinviare alle donne la responsabilità della riproposizione di modelli stereotipati che non corrisponderebbero alla realtà del proprio stare al mondo. In questa posizione, la ricerca di assoluzione dalle proprie responsabilità e un distanziamento dai modelli tradizionali di mascolinità si confondono in assenza di un discorso politico pubblico in grado di dare conto di questa contraddizione. Un’analisi critica delle tante forme di espressione di un “rancore” maschile come fenomeno sociale diffuso profondo e dalle tante forme richiederebbe uno spazio a sé; qui mi interessa riflettere sulle implicazioni della messa in campo di un riconoscimento di parzialità maschile. Su come possa risultare produttivo e trasformativo questo posizionamento.
Un terreno su cui il rapporto tra esperienza maschile come parzialità e costruzione storica del simbolico mostra la sua ambivalenza e propone espressioni sociali molto contraddittorie e conflittuali è quello della paternità. Come abbiamo visto, esercizio del potere e dell’autorità paterna e angoscia di esclusione e accessorietà maschile si intrecciano e si svelano reciprocamente sin dalle origini.
Proprio le strategie sviluppate dal maschile di utilizzo della norma, del linguaggio e della tecnologia per competere con la potenza generativa femminile e acquisire strumenti di controllo sul corpo delle donne – quelle che abbiamo definito “protesi” del maschile – hanno finito per enfatizzare l’accessorietà e la marginalità maschili nei processi procreativi e nelle relazioni tra generazioni.
Il potere del padre, il suo ruolo di detentore della legge, del potere economico e della realizzazione sociale, quando l’immutabilità dell’istituzione matrimoniale e l’esclusione sociale delle donne si incrinano, restituisce agli uomini la miseria delle relazioni con i figli, delle forme di socialità, di rapporto con il tempo, il lavoro e la cura. Entrano in crisi e mostrano la loro fragilità sia i ruoli che le modalità di relazione che avevano caratterizzato l’esperienza maschile della paternità. Le genealogie fondate sui ruoli e sui saperi maschili sono state incrinate dalla moltiplicazione delle agenzie di socializzazione, dall’obsolescenza dei saperi maschili, dalla mobilità sociale e dall’accesso delle donne al lavoro, all’istruzione e alla partecipazione politica. Il padre non è più quello che ti costruisce un posto nel mondo, un mestiere, non è più necessariamente riferimento, temuto e rispettato di una norma.
Le trasformazioni e i conflitti che si sviluppano attorno alla paternità sono paradigmatici di diversi posizionamenti maschili di fronte alla crisi dei ruoli e dei modelli tradizionali di mascolinità: una crisi che apre un vuoto che può essere fonte di angoscia, ma al tempo stesso rappresentare uno spazio in cui è possibile sperimentare e ricercare una diversa qualità del proprio stare al mondo come uomini.
Molti uomini vivono oggi la paternità in modo nuovo tentando di inventare modalità di relazioni con i figli e con le figlie differenti da quelle costruite dalle generazioni precedenti e cercano di dare a questa esperienza, non senza difficoltà, un nuovo spazio e un nuovo riconoscimento nel proprio ambiente professionale, tra gli amici, nella famiglia allargata, nella coppia. Purtroppo, si tratta spesso di percorsi che non escono dalla dimensione individuale e non generano una presa di parola collettiva, un’assunzione di responsabilità nel prefigurare un cambiamento. I “nuovi padri” restano oggetto di uno sguardo altrui: a volte benevolo, a volte ironico, raramente produttivo di pratiche collettive di cambiamento.
Al tempo stesso, i movimenti per i «diritti dei padri separati» nei conflitti familiari sono le esperienze maschili collettive che hanno assunto con più forza visibilità in quanto tali e che sono riuscite ad ottenere ascolto pubblico e spesso risultati legislativi. La contestazione dell’affidamento dei figli alle madri, in caso di separazione, espressione contraddittoria di una grande sofferenza diffusa, è divenuto terreno concreto per dare visibilità a una «rivalsa» maschile. Spesso la frustrazione, il dolore e le difficoltà economiche vissute da molti uomini in seguito alle separazioni sono state infatti oggetto di una lettura strumentale in chiave misogina e revanscista.
La presa di parola pubblica di padri che rivendicano un ruolo nella cura e una relazione affettiva con i propri figli e le proprie figlie è, in ogni caso, una novità nello scenario tradizionale di uomini che proiettavano la propria realizzazione nella dimensione sociale e delegavano la cura alle donne. Questa novità assume forme controverse e contraddittorie quando non involutive. Più in generale la lettura del carattere controverso assunto dalla paternità9 ha avuto una connotazione esplicitamente reazionaria nel senso di movimento ostile a una modernità che avrebbe privato gli uomini di una radice di riconoscimento e identità.
Se proviamo ad ascoltare senza accondiscendenza, ma anche senza preconcetta ostilità, questa esperienza, possiamo provare a porci una domanda, tra uomini, sulle cause di questa sofferenza: è frutto di un’aggressione femminile o ci interroga come uomini sul nesso tra i nostri desideri, i nostri bisogni e i ruoli sociali assegnati ai due generi? La rappresentazione stereotipata delle attitudini di donne e uomini, lo schiacciamento dei loro progetti di vita in ruoli preordinati genera pregiudizi che pesano in forme diverse sulle nostre vite.
Per evitarne una lettura vittimistica e paranoica è necessario riconoscere che la scelta del Tribunale di affidamento dei figli alla donna nei casi di separazione non è frutto di una persecuzione antimaschile, ma si fonda su una differenza di ruoli sociali e di attribuzione di attitudini e aspettative ai due sessi che plasmano lo spazio sociale nel suo insieme.
La distinzione tra spazio pubblico e privato, su cui si è creata una gerarchia tra i sessi, è al fondamento della gerarchia tra i sessi e della disparità di potere, autonomia, autorevolezza sociale e libertà tra questi.
Il pregiudizio che attribuisce alle donne una vocazione alla cura è lo stesso che agisce quando a una donna si chiede di firmare la propria lettera di dimissioni in bianco da utilizzare in caso di gravidanza, quando per un avanzamento di carriera o per un’assunzione si preferisce un uomo perché garantisce di impegnarsi nel lavoro anche nel caso in cui avrà dei figli di cui prevediamo si prenderà cura la moglie o la compagna. Quella sentenza di affidamento, percepita come un’arbitraria punizione che genera sofferenza e solitudine è stata preparata anche da noi ironizzando sulla poca virilità di un uomo che “sta a casa a fare le pappine o a cambiare i pannolini”, reagendo imbarazzati all’espressione maschile di sentimenti e di tenerezza, liquidando con sufficienza una donna perché emotiva o, al contrario, attribuendole la detenzione di “attributi maschili” per la sua determinazione sul lavoro.
Al tempo stesso la disparità di condizione economica e la divisione di ruoli tra chi “porta i soldi a casa” e “l’angelo del focolare”, che ha tradizionalmente sancito la gerarchia tra i sessi e il loro diverso livello di autonomia e di cittadinanza, nel momento in cui non è più fonte di rassicurazione del proprio ruolo, diviene occasione per un rancore maschile verso quello che viene descritto come “opportunismo femminile”. La dipendenza femminile, che offriva agli uomini strumenti di controllo e opportunità di riconoscimento sociale, genera oggi insofferenza verso le donne che “si fanno mantenere”, che sfruttano economicamente gli ex mariti, che usano la seduzione e l’affettività per ottenere privilegi economici. Uno schema che fa da contraltare all’idea stereotipata secondo cui “gli uomini vogliono una cosa sola”. La detenzione del denaro, il ruolo di bread winner che sono stati sanzione della propria centralità e della propria funzione, divengono una condanna, un’ingiusta vessazione.
Anche quando le rivendicazioni «dei padri» assumono forme strumentali o linearmente reazionarie – orientate cioè ad affermare ruoli e modelli tradizionali in reazione a un cambiamento di costumi e culture – appare importante riuscire a dare voce a questa domanda di relazione con i figli. Più in generale di fronte a comportamenti e pulsioni maschili contraddittori, che trovano interlocuzione e sostegno, più o meno strumentale, spesso in forze politiche conservatrici tese a riproporre modelli culturali e sociali tradizionali, è necessario ascoltare il disagio maschile, riconoscerne le radici condivise per tentare di costruire risposte diverse.
Un esempio interessante è la campagna degli uomini spagnoli che rivendica per gli uomini delle opportunità per vivere pienamente la propria paternità, scegliendo non il momento e la forma in cui questa si impone in termini competitivi e conflittuali con le donne, come le separazioni, ma in occasione della nascita con la proposta di congedi parentali uguali, automatici e non trasferibili10. È a questo proposito significativo che il numero di uomini che si avvalgono nel nostro paese del congedo in caso di nascita di figli è, seppur in crescita, ancora molto limitato.
La vicenda dei padri separati è parte più generale di una crisi del ruolo e del modello classico di padre tradizionale messo in discussione contemporaneamente dalla trasformazione dell’organizzazione sociale, e dalla politica delle donne. Il nodo è se ripensare una prospettiva maschile in questo cambiamento.
Difendere un feticcio o esplorare la propria parzialità? Ingaggiare un conflitto frustrato con la libertà maschile, farsi ultimi difensori di un sistema che ha impoverito anche le nostre vite di uomini e che oggi mostra il proprio esaurimento o riconoscere che proprio la messa in discussione di ruoli e di modelli stereotipati di genere può farci conquistare, per esempio, nuovi spazi per vivere la nostra paternità? Anche in questo caso la scelta di partire dalla propria parzialità e di evitare sia la postura volontaristica del rispetto politicamente corretto dei “diritti delle donne” sia l’identificazione con un ruolo e un modello di potere mostra la sua fertilità, la sua potenzialità di invenzione.
Più in generale, il senso di esclusione vissuto dal padre dopo una separazione e dopo l’affidamento dei figli alla donna è già vissuto, in forma diversa, in ogni esperienza di paternità. Ci parla di una esperienza costitutiva del maschile: essere terzi di fronte alla relazione tra madre e figlio.
Al carattere problematico di questa condizione ha risposto una costruzione simbolica che l’ha trasformata in fondamento per l’affermazione dell’autorità paterna. Un’operazione che cerca conferma anche in letture psicanalitiche. In queste letture possiamo riscontrare proprio le tracce di quella di cui parlavo all’inizio: un’operazione di inversione che trasforma uno scacco in valore.
Nel libro, peraltro molto bello, sulla paternità di Luigi Zoja (2000, pp. 21-27) l’incertezza della paternità diviene fondamento della civiltà.
[A] differenza della madre, che dà vita al figlio in modo evidente, il maschio, per capire che anche lui partecipava al generare, e quindi trasformarsi in padre, ha avuto prima bisogno di una certa capacità di ragionamento […]. [N]on solo la cultura ci ha dato il padre, ma forse proprio la comparsa del padre (certo insieme ad altre novità, ad esempio innovazioni tecnologiche) ci ha dato la cultura: l’uscita definitiva dallo stato primordiale, dalla condizione animale […]. Il padre – l’istituzione di una paternità – interviene infinitamente più tardi nella vita dell’umanità. Implica un bagliore di riflessione e un principio di civiltà. Forse – e di questo vogliamo parlare – è il principio della civiltà.
Anche in questo caso l’attraversamento di un’esperienza parziale si ipostatizza in una funzione regolativa. La terzietà del maschile, proposta dal pensiero psicanalitico e dal senso comune come necessaria funzione regolativa e ordinativa del reale, risorsa per la rottura fondativa del processo di soggettivazione di ogni individuo nell’emancipazione dalla fusionalità vissuta col corpo materno, diviene chiave per riaffermare una gerarchia valoriale tra i sessi. Può però essere indagata come condizione ineluttabile dell’esperienza maschile che segna l’angoscia e le domande degli uomini.
Allo stesso modo la tecnologia riproduttiva, alleata degli uomini come intervento intrusivo per rendere trasparente e controllabile il processo riproduttivo che avviene nel corpo delle donne, ha medicalizzato il parto e portato fuori dal corpo femminile la fecondazione gestita medicalmente “in provetta”, ma non ha perseguito l’obiettivo dell’utero artificiale e, anzi, ha reso ormai possibile la fecondazione e la nascita a prescindere dalla relazione sessuale con un uomo enfatizzando, paradossalmente, la potenziale marginalità maschile. Sempre Giuditta Lo Russo (1995, p. 35) nota questo esito:
[Se all’origine] la non conoscenza di tale nesso [ha potuto] far credere atto sessuale e gravidanza separate, la conoscenza invece, acquisita in campo genetico, ha reso possibile realizzare di fatto esattamente questa separazione. Controllo delle nascite, banca del seme, inseminazione artificiale, hanno oggi separato di nuovo e di fatto, e non solo a livello di rappresentazione mentale, l’ accoppiamento dalla procreazione, rendendole realtà potenzialmente indipendenti.
La valenza simbolica di questa trasformazione è colta da Manuela Fraire (2009) che ne rileva le implicazioni relative alle relazioni tra donne e uomini:
A tutto ciò va aggiunto il potere della scienza medica che con la complicità femminile sostituisce il corpo dell’uomo con il suo seme, il suo nome con l’anomia. La siringa dell’inseminazione artificiale si presta particolarmente bene a rappresentare l’attributo fallico di una fantasia auto generativa femminile che svuota il corpo dell’uomo e riempie quello della donna.
Il potere si è rivelato un vicolo cieco accentuato dalla tecnologia e svuotato a mero feticcio astratto che rimuove e marginalizza i concreti uomini. Paradossalmente la costruzione storica del maschile di un modello di soggettività basato sull’affrancamento dal limite rappresentato dalla corporeità e dalla relazione, rimanda a questa angoscia maschile di non poter prescindere dalla relazione nel proprio essere padre o anche semplicemente nel proprio desiderio di esserlo.
Il riconoscimento della differenza e dell’alterità sono, però, un nodo ancora controverso.
Massimo Recalcati apre il suo testo Cosa resta del padre? (2011, pp. 11-12) con la domanda: «E’ giusto insegnare ai nostri figli a pregare, se Dio è morto? […] Dio non risponde, il Padre tace, il cielo sopra le nostre teste, come ripete Sartre, è vuoto». La sua risposta mi pare indicativa di una costruzione culturale che ha tematizzato l’alterità occultando la parzialità maschile e, dunque, rimuovendo la soggettività femminile:
[…] ho deciso, col consenso di mia moglie, di insegnare ai miei figli che è ancora possibile pregare perché la preghiera preserva il luogo dell’Altro come irriducibile a quello dell’io. Per pregare – questo ho trasmesso ai miei figli – bisogna inginocchiarsi e ringraziare. Di fronte a chi? A quale Altro? Non so rispondere e non voglio rispondere a questa domanda. […] preserviamo lo spazio del mistero, dell’impossibile, del non tutto, del confronto con l’inassimilabilità dell’ Altro11.
Qui l’alterità è astratta e pare corrispondere a quell’operazione che sempre Recalcati attribuisce al “discorso del capitalista” che «preferisce eleggere un oggetto inumano come partner anziché situare, come direbbe Lacan, l’oggetto perduto nel campo dell’Altro»12. Più avanti nel testo questa trasposizione appare più evidente nel riferimento ai versetti dei Genesi dedicati alla Torre di Babele:
nella vicenda della Torre di Babele, in primo piano è la tracotanza boriosa degli umani che vorrebbero oltrepassare ogni senso del limite occupando con la cima della torre il luogo della trascendenza, il luogo stesso di Dio. In questo gli uomini impegnati nell’impresa vorrebbero “farsi un nome” senza passare dall’altro, vorrebbero Farsi un nome” nel senso di farsi da se stessi, del farsi da soli, del farsi senza supporto dell’Altro. […] puntano a realizzare una società totalitaria dalla quale l’Altro sarebbe escluso. Il loro abitare la terra non riconosce la mancanza. Farsi un nome da se stessi significa rifiutare le leggi del linguaggio che invece impongono che il nome proprio sia dato dall’Altro; significa praticare, come nota Silvano Petrosino, un vero e proprio “feticismo del nome”13 (corsivi miei).
Leggendo queste righe mi era impossibile non pensare a un’altra alterità ben più concreta che non l’umanità che gli uomini hanno tentato di rimuovere. E mi colpiva come non emergesse mai, anche solo come suggestione: il farsi da sé maschile che rimuove l’origine materna che fa del dare un nome, il nome del padre, un’operazione di potere. Il feticismo del nome mi pare proprio nel tentativo patriarcale di fare dell’imposizione del nome lo strumento per compensare e invertire la propria mancanza.
Ma il miraggio dell’autosufficienza seduce, come osserva Fraire, anche le donne? Qui torna il riconoscimento della propria parzialità come risorsa: essere terzi, mai autosufficienti, è un dato costitutivo della condizione maschile che la nostra rappresentazione ha tentato di negare e rimuovere. Ma può rivelarsi un riferimento fertile nella relazione politica con le donne.
L’esperienza maschile di “condanna alla relazione”, se rinuncia a cercare nel potere la risposta alla propria angoscia, può interrogare le costruzioni simboliche femminili e contribuire alla costruzione di una cultura capace di pensare il cambiamento in grado di declinare in forme nuove i concetti di limite, differenza e parzialità, ponendo al centro la relazione come dimensione costitutiva del soggetto e come risorsa trasformativa.
10. Questa sommaria riflessione mostra come gli uomini si trovino davanti, scompaginato l’esito della crisi dell’ordine simbolico su cui si sono fondate le proprie prospettive esistenziali, i riferimenti per trovare conferma del proprio ruolo nel mondo.
Tale ordine è stato sottoposto a critica da un complesso e articolato scenario di culture critiche e di pratiche sociali conflittuali. Le esperienze maschili di questa trasformazione sono ancora molto contraddittorie e spesso egemonizzate da spinte revansciste e misogine. Eppure, cresce una riflessione e una pratica sociale, limitata e spesso relegata nella dimensione privata, che cerca l’espressione di un desiderio di cambiamento maschile.
Questa ricerca, anche in Italia comincia a darsi forme collettive, strumenti di analisi e pratiche condivise. Come può questo percorso di riflessione critica sul maschile interloquire con i diversi femminismi e con le diverse espressioni dei movimenti LGBT?
La peculiare tensione tra norma e differenza che caratterizza l’esperienza maschile esige di formulare una prospettiva di cambiamento non limitata all’inclusività o basata sulla convivenza indifferente tra differenze, ma sul riconoscimento della potenza trasformativa della relazione e sulla valorizzazione di uno spazio pubblico fondato sull’interrogazione reciproca. Su questo è possibile aprire una riflessione che superi la nozione riduttiva di “diritti civili” e riconosca la valenza politica della sessualità come terreno di conflitto.
La discriminazione nei confronti di chi vive le proprie relazioni sentimentali e sessuali fuori dal modello normativo dell’eterosessualità, agisce come formidabile dispositivo di controllo e disciplinamento generalizzato. L’ironia e il disprezzo verso gli omosessuali sono un dispositivo che vincola la sessualità e la socialità di tutti. Anche le mie: maschio eterosessuale che vive nel continuo avvertimento del baratro in cui potrebbe precipitare se non corrispondesse a modelli fissi e costrittivi. La stigmatizzazione dell’omosessualità attiene alla costruzione dell’immaginario condiviso che costruisce i corpi di donne e di uomini, i loro desideri, i loro destini, le loro presunte attitudini naturali, le forme della loro sessualità e della loro socialità.
Questo tema riguarda anche la relazione delle esperienze politiche critiche maschili con il femminismo: si tratta di una mera alleanza con gli uomini disponibili a impegnarsi contro la violenza di genere, contro le disparità tra i sessi, nella critica al dominio patriarcale prodotta dal femminismo o anche della costruzione di una relazione di cui si riconosce la potenzialità reciprocamente trasformativa14?
11. Questa innovazione teorica, questa differente pratica politica, richiede, però, innanzitutto un’assunzione di autonomia, libertà e responsabilità nel costruire parole originali in grado di esprimere e costruire il differire maschile rispetto ai femminismi e alle culture critiche della norma eterosessuale.
Emerge l’urgenza di una capacità di espressione pubblica di un desiderio di cambiamento maschile, di reinvenzione dell’esperienza corporea degli uomini nella sessualità, nella paternità, nella socialità tra uomini, fuori dalle rappresentazioni stereotipate che vengono oggi proposte di questo controverso processo di trasformazione.
Questa parola pubblica degli uomini sul proprio desiderio di cambiamento e di libertà stenta ancora a prendere forma.
l’importante, clichè o meno, è avere storie e personaggi credibili e coerenti con ciò che si vuol narrare. Scusate l’OT
io vedo che nell’ambito della pop culture c’è una pluralità sempre maggiore di personaggi maschili e femminili, di narrazioni dove se ci sono clichè vengono raccontati, decostruiti, presi in giro..penso a due serie-tv come Buffy e Scrubs ma gli esempi potrebbero continuare..