Un punto di vista. Con la sua disponibilità a farci ripubblicare, da MenoePausa, un post che racconta la violenza sulle adolescenti, sulle donne, il modo in cui la società organizza la reazione e il perdono a vantaggio del carnefice e a reprimere la reazione della vittima. Buona lettura!
>>>^^^<<<
Continua a farmi male ripensare a certi dettagli della mia vita o di quella di mia figlia. Cose grandi e piccole, sommate, che diventano una montagna di sporcizia che hai sempre bisogno di lavarti via di dosso.
Un ricordo: c’era quel tale che alla terza ora delle medie, in coincidenza con la sua pausa al cesso, è andato da mia figlia e l’ha bloccata al muro. Le ha preso la mano e gliel’ha messa sul suo cazzo. “Se lo dici in giro io dico che me l’ha preso in bocca!“. Un tredicenne, uno stupratore in erba, uno stronzetto, un bullo, uno che i genitori li avrei io fulminati con un solo sguardo, che solo a immaginare come sarebbe finita se lei avesse deciso di andare lì dal preside, e denunciare e poi subire gli improperi di quella tal famiglia, con madre e padre a dire che lei era la puttana e lui il baldo giovine, di cazzo-munito e anche di una sorta di copertura familistica amorale che tutto gli ha permesso e ha sostenuto, se solo lei avesse deciso di fare quella cosa lì, e io l’avrei di certo sostenuta e oltre, avrebbe sì patito e poi sarebbe stata costretta infine a cambiare scuola.
Così era successo ad un’altra compagna e la mia bambina era già sveglia, le avevo insegnato come stare al mondo, a distinguere le attenzioni vere dalla violenza, e quello che più odiava in generale era la sensazione di impotenza, ché è questo che alla fine forse ti fa più soffrire, questa impossibilità di reagire, e tutto quel controllo che ti viene inflitto perché se tu reagisci sei quella a cui poi dicono che sei aggressiva, che non si fa, che in uno stato democratico solo gli sbirri possono pestarti, invece a te non è permesso fare niente, non hai l’autorizzazione, non hai neppure la possibilità di risolvere e affrontarlo quel conflitto. Niente di niente.
Ti lasciano lì a dire che l’unica cosa che puoi fare è la faccia da vittima, con parole da vittima, con atteggiamento da vittima, con pianti da vittima, con vomito da vittima. Vittima e colpevole. Vittima e impotente. Vittima e donna. Donna e vittima. Null’altro è consentito.
Così ti rappresentano: occhio nero da vittima, ferite da vittima, testa bassa da vittima. Nessun orgoglio, nessuna reazione. Eppure io l’ho vista quella figlia, così piccola eppure così grande, che teneva i pugni stretti e soffriva un’ingiustizia e poi urlava, mio tesoro, ché lui era un grande stronzo, che non era così che lei avrebbe voluto conoscere l’altro sesso, ché tutto quel dire delle reazioni delegate ad altri era in realtà un ulteriore modo per esercitare controllo. Controllo sulla vittima. Controllo sul riscatto che sarebbe derivato da ogni sua reazione. Un modo come un altro per obbligare un percorso, se vuoi risolvere devi fare così e sappi che ti accradrà questo e quello.
Un percorso obbligato. Una via crucis che ti costringe ad esibire il tuo dolore, ma allo stesso tempo a censurarlo, a dargli una veste pubblicamente accettabile, composta. Una traiettoria che ti impone di mostrare la tua pena e farlo in pubblico, in bocca a giudici quasi sempre uomini che misurano il tuo intimo dolore e lo interpretano a seconda della lunghezza del proprio pene. Un martirio che ti espone e ti sottopone alle vendette e tutto ciò corrisponde ad una tortura, una punizione, perché è pensato per punire te e non il tuo violentatore. Tutto per importi di aderire ad una logica misticheggiante, che prende spunto dalla religione, dove ti obbligano al perdono dopo che ti hanno costretto alla colpa, alla vergogna, al pentimento e alla redenzione. Perdono un paio di ovaie. Qui non si perdona niente!
E invece non puoi sputargli in faccia ché sarebbe aggressione, non puoi mollargli un pugno perché un giudice dirà che tu non eri affatto indifesa e dunque quello che lui ha fatto non era così grave. Anzi lui dirà che sei tu ad essere violenta. Tu quella da temere, perché sai difenderti e tutto invece è organizzato per contenerti, per sedarti, per rincoglionirti, e dirti che ti devi affidare a qualche padre, uomo, potente, che prima o poi ti chiederà di ringraziarlo con fellatio ben disposte lungo il corso della tua fragile esistenza.
Non sono per i linciaggi organizzati. Non credo alla giustizia fai da te. Non credo proprio a niente. Penso che inibire alle donne la possibilità di praticare autodifesa, di mostrare il vero volto di una donna trafitta dal dolore, ché non è mai piegata, che non si è mai arresa, che non ha paura, lei, a fronte della codardia di emeriti cazzoni, sia il delitto nel delitto, sia esercizio di protezione dello stupratore, del molestatore, dell’uomo che uccide le donne.
Tutta una società organizzata per proteggere lui, quello, il fottuto stronzo, per ripagarlo con le coccole dopo che egli ha mietuto vittime per un’intera vita.
Mia figlia, dicevo, non ha detto niente. E’ rimasta a stringere quel cazzo, a farlo piccolo, e quando lui l’ha schiaffeggiata, lei ha urlato e lui è scappato.
Sapete cos’è quando qualcuno torce un pelo di tua figlia? Ti arriva il sangue agli occhi, a me accade così, e poi c’è empatia e quel dolore che lei ti trasferisce nelle ossa e senti tutto quanto, minuto per minuto, lo condividi intero quell’orrore e l’urlo suo diventa il tuo.
Quello che ti succede è che provi un’emozione acuta che la cultura della società interpreta e ridirige in una vaga richiesta di giustizia ché altrimenti detta è una vendetta che non sei tu ad aver deciso, i cui contorni sono leciti solo perché li ha stabiliti un altro pari, un uomo, più uomini, padri, fratelli, amici, conoscenti di quel molestatore, stupratore, assassino. Ché è un assassino, si, colui che uccide i sogni di una ragazzina.
E non serve rinchiuderla perché non è così che puoi proteggerla. Non serve neppure che tu ti metta avanti a fare Rambo per farla sentire protetta per quanto lei deve sapere che io ci sono sempre e che se me lo chiede lo scanno quello stronzo. Ma è la sua reazione che le ridà autostima, che la rende sicura di percorrere strade difficili e contraddittorie, che la farà diventare persona, donna, anima mia, tesoro bello, adulata e consapevole e soprattutto autonoma.
Lei si è organizzata, ne ha parlato con le amiche, non con i compagni ma con le altre vittime di quel manesco stronzo, lo hanno aspettato fuori dalla scuola, lo hanno preso a ceffoni, in pubblico, e mentre lui osava negare e dissentire, tirava fuori il solito repertorio del “tu sei puttana”, “sei tu che mi hai provocato”, loro gli hanno fatto il regalo più grande che lui potesse mai ricevere. Gli hanno insegnato che il corpo di una donna non si tocca mai senza il suo consenso e che se non è chiaro un no pronunciato timidamente allora che si ricordasse un livido ché è impossibile da non vedere.
Sapete che è successo? Che mia figlia e le altre sono state richiamate dal preside e sospese. I genitori di quel bullo hanno concesso di non fare una denuncia perché “queste ragazzine disturbate devono essere curate e noi siamo cristiani” e il punto è che quelli come lui agiscono nell’ombra, dove è così facile poi dire che non ci sono prove a dimostrare e che era lei ad aver fatto o ad aver detto, vigliacco, pezzo di merda, invece lei l’ha schiaffeggiato in pubblico, apposta, per riprendersi in mano l’orgoglio di una reazione, perché altrimenti all’indomani lui avrebbe riempito classi, ché ancora non esisteva facebook e menomale, avrebbe invaso istituto e cessi, di pettegolezzi in cui lei aveva fatto chissà cosa, aveva toccato o chissà leccato o chissà succhiato e al solo pensiero mi torna quella rabbia e se l’avessi in mano glielo frantumerei in mille pezzettini.
Ma dal giorno dopo quel tipo non ha più mosso un dito. Non ha più disturbato nessuna. Non ha più fatto niente di sbagliato, a parte qualche prova di spacconeria orale con i colleghi bulli che tutti, però, abbassavano lo sguardo, quando mia figlia e le sue amiche gli passavano davanti.
E a questo punto penso che la vera scuola da preparare per le donne, quelle che non stanno in emergenza, se non c’è nessuno armato che sta per ucciderle, che valutano di poter difendersi da sole, sia una scuola di autodifesa seria, una pratica che unisce corpo e mente, collaudato esercizio che finalizza rabbia e indignazione, autostima e indipendenza, potenza e ribellione.
D’altronde, in questa nazione di merda dove le donne rischiano ogni giorno di morire per mano di un bullo bambino troppo coccolato che da grande è diventato un assassino, che alternative abbiamo?
Grande lo schiaffeggio pubblico del bullo. Meno grande il preside che è intervenuto superficialmente con una sospensione.
Sorelle, autodifesa sì. Abbiamo fatto le lotte per il diritto all’autodifesa, e mi ricordo quando chi andava in svizzera rischiava una denuncia per portare una scorta di spray antistupro. Ma questo racconto non sono sicura abbia un lieto fine a lungo termine. La sacrosanta mazziata va bene, ma cosa rimarrà nell’animo di quel cucciolo di stupratore? Siamo sicure che la bestiola non esca rafforzata la misoginia? Voglio dire, da una parte la giusta e istintiva reazione di mazziata, ma dall’altra ci voleva il lavoro di qualche adult* per spiegare alla bestiola ciò cheè giusto e provare ad evitare che tra 10 o 20 ci sia in giro un femminicida.
Purtroppo il linguaggio della violenza e’ quello che certi individui capiscono piu’ in fretta.
Non e’ apologia di violenza: e’, per cosi’ dire, “approccio antropologico”.
Spiego meglio questo assunto, con un esempio tratto proprio dalla ricerca antropologica: quando un ricercatore va in un altro paese a studiare un gruppo etnico, qual e’ la prima cosa che fa? Impara il linguaggio di quel gruppo!
Non ha altro modo di capire e di farsi capire. Semplice.
E allora, in un paese ipocrita, sessista, fallocrate, dove nessuno ti difende e dove tutto viene coperto dall’ipocrisia e dal finto buonismo (che da sempre ragione al carnefice e butta fango sulle vittime), cosa fare? Imparare fin da piccole a menar le mani!
La ragazzina e le amiche hanno fatto benissimo tanto che, allo stronzetto in questione, gli e’ passata la voglia.
So perfettamente che una reazione violenta non e’, per cosi’ dire, “etica”, ma e’ logica!
Ed in questi mala tempora bisogna usare la logica. Punto.
Ho passato anche io le mie ed ho certe idee a riguardo, mi spiace se offendo qualche “Ben Pensante”, ma e’ quello che penso: fosse stata mia figlia, le avrei detto di picchiar piu’ duro. Con certi individui stronzi, tolleranza zero e nessuna pieta’… e bando a tutti i discorsi perbenisti-buonisti-pseudo cristiani che non “fanno farina”.
Ribadisco: la ragazzina ha fatto bene!
Vi leggo sempre volentieri.
Vi abbraccio tutte!.
Co.
Si ecco, io volevo esprimere proprio questo pensiero… cioè che oggi come oggi l’unica cosa in cui riesco a credere è questa autodifesa, fisica e morale di una donna…