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Sono precaria e sfruttata e sono viva!

[L’immagine è dell’illustratore Drooker]

Uno dei blog di donne precarie che in questi giorni è in lutto per la morte delle donne di Barletta, Tina, Matilde, Giovanna, Antonella, Maria, ha pubblicato questo post che ricopiamo integralmente. Grazie a Meno&Pausa. E noi siamo d’accordo. Bisognerebbe scendere in piazza. Bisogna arrabbiarsi. Bisogna dire basta. Buona lettura!

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In questi giorni sono turbata, arrabbiata, non so. Provo tanti di quei sentimenti, anche contrastanti tra loro, e sono qui a bocca aperta, come probabilmente tante/i tra voi, ad ascoltare bugie, parole piene di retorica, considerazioni stravaganti sulla morte delle donne di Barletta che lavoravano forse in nero a 4 euro l’ora per chissà quante ore al giorno. Ho guardato i loro volti, cercato inutilmente di approfondire le loro storie, tentato di razionalizzare ma quello che è forte, fortissimo, e che non riesco a contenere è la rabbia e il pianto.

E’ una cosa che mi tocca, anzi ci tocca troppo da vicino. E’ la mia vita, la nostra vita, la vita di tante di noi.

Stringo i pugni e piango e urlo di rabbia pensando alle mille volte in cui sono uscita all’alba per lavori infimi, accettati per mantenermi e mantenere mia figlia, ricattata e ricattabile, con le pezze al culo e l’ironia come unica arma a sorreggermi mentre tutto attorno a me cadeva a pezzi.

Che sfida che è stata aprire il frigorifero e trovarlo quasi vuoto e inventarmi ricette squisite per insegnare a mia figlia i sapori e gli odori. Rinviare di qualche giorno il pagamento dell’affitto senza mai farmi molestare dal padrone di casa di turno. Correre a pagare le bollette perché non mi staccassero anche l’aria. Faticare a tutte le ore e mettere in mano alla bambina il gioco più vecchio del mondo per farla sentire amata. Un po’ di farina e l’acqua e impasta, cuore mio, gettala per terra, colorami la faccia, facciamo finta che sia crema, sabbia, è un gioco e ci divertiamo così.

Mattino presto, mano nella mano, accompagnarla a scuola e vedere la maestra che valutava l’abito e poi serviva il diario e lo zainetto di quella marca e non andava bene quello che le avevo ricucito io, di notte, bucandomi le mani perché non c’era l’ago giusto. E poi la macchina che si fermava per strada perché le precarie non possono permettersi mezzi decenti e allora quando pioveva mi serviva a non farla bagnare, mia figlia, e aveva il motore che ruttava bestemmie, la marmitta rumorosa e il sedile che si ribaltava quando meno te lo aspettavi. E tutto diventava motivo per farla ridere, quella creatura che mi faceva intera e mi faceva sentire la donna più bella del mondo.

Che pena lavorare al ristorante dove non ti pagano l’infortunio neppure se ti spezzi un braccio e poi sentire il tizio che ti tasta perché pensa che sia una cosa compresa nell’accordo. E le stanze umide dove un tale mi faceva restare a fare una sorta di contabilità e l’altro tizio che mi pagò la metà della metà di quello che avevamo pattuito dopo che per mesi avevo fatto sollevamento pesi con le scatole nel suo magazzino e poi le parole cattive di certi datori di lavoro che anzi avrei dovuto ringraziarli perchè mi tenevano e mi facevano pesare tutto e io ingoiavo merda per tenermi i lavori mentre il sangue ribolliva nelle vene e perdevo certo il senso di quello che stavo facendo. Lo perdevo, si, perché ti perdi ad un certo punto ed è una guerra fatta di fatica e cadute e sacrifici e mille perchè senza una risposta.

E poi la gente compiacente, l’omertà e i tanti “ma si sa che va così, che ti lamenti, non sei mica l’unica?” e apposta io lo dico. Non sono mica l’unica e non è per piagnucolare ma cazzo allora ribelliamoci tutte/i assieme. Perché voi state in silenzio e non dite niente? Perché siamo costrette ad accettare lavori di merda? Perché siamo costrette a morire poco a poco, giorno dopo giorno, o in un attimo come è successo a quelle donne di Barletta?

Perché siamo costrette a farci umiliare a sentire ministri che ci chiamano “l’italia peggiore”, oltre la fatica il dileggio, il disprezzo, con tanta retorica e tante bugie, “che non esistono più le donne di una volta” e invece si che esistono brutti cazzoni che non siete altro. Siamo noi le donne di una volta e siamo anche più stanche perché ci svegliamo tutti i giorni e non ci lasciamo morire, noi, siamo vive, arrabbiate ed è questo che vi dà fastidio, perché vogliamo un futuro per noi e le nostre figlie e i nostri figli.

Perché vogliamo vedere il sole e poi goderne. E ancora mi ricordo del disprezzo e dei tanti datori di lavoro che si permettono perfino di farti le radiografie inguinali per vedere come sei fatta dentro e fuori ché le schiave le vogliono subordinate e pure gradevoli. E se dici che hai studiato e che comunque meriteresti un lavoro pagato in modo equo, con un contratto regolare e orari che siano umani, ti dicono che sei una lagna e che se fossi una che vale ti metteresti a lavare le scale, a spezzarti la schiena a prenderti cura dei vecchi, a fare quelle cose per cui noi femmine siamo destinate, secondo loro.

E lo vorrei dire a quei ministri che non si capisce quali meriti abbiano ché devono andarci loro a fare tutti i lavori dignitosi e umili che ho fatto io e poi devono spiegarmi perché loro intascano una pensione di migliaia di euro solo appena dopo una legislatura e io invece una pensione non l’avrò mai.

Ci devono spiegare, i ministri, perché continuano a togliere sanzioni alle aziende che non rispettano le norme di sicurezza, ché me ne frega un accidente che delocalizzano perché se il loro criterio è che deve essergli consentito di ammazzare dipendenti qui o altrimenti lo faranno altrove, dove glielo permettono, allora dovrebbero andare tutti in galera, loro, perché sono criminali, ne più e ne meno che questo.

Cosa ne sanno loro di quanto sangue amaro circola nelle nostre vene e di quanta sofferenza e poi si permettono anche di giudicarci, di farci la morale, ché oltre ad essere schiave dobbiamo anche essere sante, pudiche, vestite quasi da suore così da farci sentire ancora in colpa, e poi, sapete che c’é? Che mi sono davvero stancata di fare quella che non dice niente, che in effetti io ho sempre detto tanto ma un po’ avevo paura di giocarmi il poco terreno che avevo sotto i piedi.

Ora me ne frego. Quel terreno non c’è e sono io che volo per tenermi sospesa in una situazione di precarietà che se ci penso mi toglie il fiato. Invece sono qui e combatto e non mi faccio seppellire viva da gente che vorrebbe rinchiuderci tutte in uno scantinato.

Quelle donne sono morte e io, noi, siamo ancora vive. Forse è il momento di smettere di restare in silenzio e di arrabbiarci. Sul serio. Comincio con il mettere un cartello alla mia finestra: “Sono precaria e sfruttata e voglio restare viva!”. Fatelo anche voi.

Posted in Omicidi sociali, Pensatoio, Precarietà, R-esistenze.