Riceviamo e molto volentieri condividiamo queste riflessioni delle compagne torinesi del laboratorio Sguardi Sui Generis. Riflessioni che si inseriscono perfettamente nella discussione aperta sul nostro blog a proposito di rinnovati nazionalismi, evocate unità che dalla manifestazione del 13 febbraio in poi ci hanno condotto esattamente a quello che avevamo già ampiamente previsto. Segnaliamo inoltre che sul loro blog potete trovare una intervista audio alla storica Liliana Ellena sulla decostruzione della stessa giornata. Buona lettura!
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17 marzo 2011: si celebra in grande stile il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, l’origine e la formazione del paese inteso come stato-nazione moderno. A Torino – la città in cui viviamo, per nascita, per adozione o anche solamente di passaggio – la ricorrenza appare particolarmente sentita, fosse anche solo per volere istituzionale. Ai balconi numerosi tricolori, qualche volto dipinto per le strade, un calendario fitto di iniziative.
Torino, la città del fordismo e del modernismo architettonico, il luogo in cui il tempo, la vita e lo sviluppo urbanistico sono stati scanditi dalla fabbrica, dal lavoro salariato e dalle lotte.
Questa Torino sembra oggi riscoprire un secondo passato – più vecchio e più lontano – in cui risplendono le glorie del risorgimento. Dalle rovine della capitale industriale, sembra riemergere la capitale sabauda. Una memoria epica e autocelebrativa sostituisce così un passato le cui cicatrici sono ben più visibili nel tessuto urbano. Nel momento in cui, smaltita l’ubriacatura delle Olimpiadi, viene meno l’illusione di una transizione soft dalla città industriale a quella post-industriale, ecco che compare la città risorgimentale. Una sorta di memoria consolatoria, una boa di salvezza a cui aggrapparsi nel bezzo della tempesta.
Come spesso accade, gli interpreti d’eccellenza di tanto spaesamento politico e culturale sono gli esponenti del Partito Democratico. Nei loro discorsi, infatti, si può scorgere una formulazione specifica e una rifunzionalizzazione civica del patriottismo e del nazionalismo che si affianca a quella più tradizionale di matrice destrorsa. «Oltre a tutto, resta l’Italia unita» – così recita lo slogan dei molti cartelloni PD affissi a Torino e nelle altre città italiane. Il tutto, evocato in stile sibillino e oltre cui si vorrebbe andare, indica – più semplicemente – la realtà, il mondo vero in cui vivono persone in carne ed ossa. Il tutto sono i problemi quotidiani, i conflitti, le differenze, la scuola fatta a pezzi, il lavoro precario, il razzismo istituzionalizzato, la salute come bene di lusso, etc… etc… Un calderone, appunto, un pentolone in cui ribolle la vita sociale piena di tensioni e contraddizioni. Un contenuto che il Partito Democratico non sa nominare se non come un tutto amorfo in cui, evidentemente, non sa mettere le mani.
Tuttavia, la confessione involontaria – il lapsus ripetuto come un mantra sui cartelloni affissi in città – allude a una via d’uscita, a una soluzione possibile. Di fronte a una realtà indomabile, infatti, gli italiani vengono invitati a riesumare un senso di appartenenza nazionale, a ricercare nella loro presupposta “comunità di sangue e spirito” un modo di sentire comune, virtuosamente concepito come un ordine civico e morale condiviso. Ci si appella, per così dire, a una sorta di “nazionalismo buono” che si pretende immune dalle responsabilità storiche del “nazionalismo cattivo”. Sull’opportunità, la desiderabilità e la possibilità di una simile operazione conviene, tuttavia, avanzare qualche sospetto.
In primo luogo colpisce il recupero in termini naturalizzati dell’entità statuale Italia. Che, oggi e in futuro, la geografia del mondo resti invariata rappresenta una minaccia piuttosto che un auspicio. Considerati i flussi migratori reali, infatti, la permanenza di confini statuali ottocenteschi costituisce un enorme problema etico e politico di fronte al quale il richiamo alle identità nazionali appare inadeguato e inquietante. Il nazional-patriottismo odierno, anche se presentato in forma soft e apparentemente aggiornato al XXI secolo, veicola pur sempre una concezione etnica del territorio che promuove politiche di esclusione o di inclusione differenziale. Che piaccia o meno al perbenismo democratico, infatti, i confini del paese Italia vengono tracciati ogni giorno sulla pelle degli immigrati clandestini. La figura dell’apolide, dello sradicato in senso territoriale, costituisce un’eccedenza che la tradizione democratico-liberale, radicata nell’orizzonte dello stato nazione, non è in grado di tematizzare. Travalicare i confini nazionali, anziché celebrarne l’immutata compattezza, costituisce – di fatto e di principio – la condizione primaria per la costruzione di uno strumentario politico-giuridico che sia all’altezza dell’epoca dei numerosi sans papier.
Il richiamo enfatico alle celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia si mostra sospetto anche sotto un’altra luce. In una fase storica caratterizzata dalla crisi assoluta dello stato-nazione come luogo della decisione e dell’azione politica, la celebrazione del cadavere assume una valenza simbolica radicale. Il rituale richiama alla mente i funerali medioevali del sovrano in cui si riteneva che la morte toccasse soltanto il corpo fisico del re, ma lasciasse intatto il suo corpo politico. Allo stesso modo, di fronte allo sfacelo dello stato di diritto democratico – che si vuole eroicamente prodotto dal risorgimento – si celebra la presupposta permanenza del suo corpo politico al di là della crisi delle sue condizioni reali. Mentre le garanzie di wellfare vengono rase al suolo, il principio della rappresentanza annichilito dal ritorno di un potere carismatico, la decisione politica sostituita dalle esigenze acefale e predatorie dell’economia capitalistica, si celebra la sopravvivenza di un feticcio.
La retorica dell’anniversario, tuttavia, non si limita a riesumare il cadavere ma auspica di rianimarlo: il senso di appartenenza alla nazione, infatti, dovrebbe produrre una sorta di riscatto, di ripresa in senso civico e moralistico. A tamponare le ferite del paese, i suoi acciacchi e la sua vecchiaia, sono chiamate in primis le donne. Dalla manifestazione del 13 febbraio, passando per l’8 marzo, la politica istituzionale ha infatti operato una vera e propria chiamata alle armi delle donne italiane. Le ha chiamate ad essere – ancora una volta – custodi dell’onore e della dignità della patria, a ri-produrre e ribadire inviolabili valori tradizionali, ad essere i corpi fecondi della terra dei padri, a «rimettere al mondo l’Italia» come recita – inequivocabile – l’appello stilato in area PD in occasione della Festa della donne. Se, da sempre, il nazionalismo contempla le donne come madri, il patriottismo del 150° anniversario dell’unità d’Italia le invita a prendersi cura di un corpo morto. A questa litania le donne hanno molto da opporre.
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