Una tre giorni di antifascismo a tutto tondo: cie, corpi, ambiente, repressione. Il programma potete leggerlo QUI e per chi è in zona è tutto da partecipare e seguire. Tra gli appuntamenti ce n’è uno che affronta i temi da una prospettiva di genere. Ecco gli spunti di riflessione che i compagni e le compagne hanno preparato per l’appuntamento del 14 marzo alle 17.00, facoltà di lettere e filosofia di Tor Vergata, via Columbia 1, Roma. “Né stato, né dio, sul corpo mio!”. Buona lettura!
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Spunti di riflessione sul tavolo “Né Stato, né Dio, sul Corpo Mio!”
Il genere è l’ espressione e la metafora di un rapporto di potere tra i sessi che ha radici storiche profonde. Questo Potere mantiene sé stesso e si nutre attraverso le mille sfaccettature del vissuto quotidiano: dalla questione lavorativa, al comune ben pensare, dalla moralità cattolica ed istituzionale, alle leggi, dalla psichiatria, alle immagini mass mediatiche. L’ apice massimo di tutti questi abomini si esprime attraverso la violenza sulle donne e la loro tratta. Parlando di sessi e di sessualità intendiamo riferirci non solo ai mille volti della questione femminile, ma anche alle discriminazioni verso tutti quegli individui che escono dal canone dell’eterosessualità e della famiglia classicamente concepita.
Con il tavolo di discussione da noi preparato intendiamo affrontare una serie di tematiche, che verranno poi affrontate all’interno degli atri tavoli, secondo una prospettiva di genere. Facciamo questa scelta nella convinzione dell’importanza di tale visione prospettica, quella femminile e femminista, all’interno di questioni che riguardano i Poteri contemporanei, economici, politici e religiosi. Le vittime di tali poteri sono infatti sia uomini che donne, ma è anche vero che queste ultime ne ricevono i soprusi in maniere ancora diverse e spesso maggiori. Si pensi alle differenze che ancora esistono nel mondo del lavoro, o al controllo sul corpo delle donne che la Chiesa pretende ancora oggi di esercitare,
Nonostante i mutamenti culturali avvenuti nella nostra società, nel mondo del lavoro continuano a riscontrarsi delle differenze basate sul genere. Certo siamo lontani dai problemi affrontati dalle femministe negli anni ’60, epoca in cui il diritto delle donne ad inserirsi nel mondo lavorativo era ancora messo in discussione. All’epoca infatti era ancora comune pensare alla vita di una donna come prettamente dedicata alla cura della casa e della famiglia, e quindi il lavoro rappresentò uno dei principali strumenti di emancipazione, sia per l’indipendenza economica che produceva, sia per l’uscita da una dimensione puramente privata che è quella della vita domestica.
Oggi nell’immaginario comune (o almeno in quello ufficiale..) il diritto al lavoro delle donne non è certo messo in discussione, e tuttavia i dati statistici dimostrano che per le donne questo rappresenti comunque un obiettivo di più difficile realizzazione rispetto ai loro coetanei uomini. I nodi centrali della discussione ci sembrano essere questi: non si tratterebbe tanto di diritti non garantiti sulla carta, ma di come poi questi si realizzino in un contesto in cui, tra l’altro, il lavoro precario si sta silenziosamente sostituendo a forme contrattuali maggiormente garantite. In una società come quella italiana il lavoro di cura ricade ancora per la maggior parte sulle donne e ciò nonostante i permessi per motivi familiari siano garantiti anche ai loro compagni. La maternità rappresenta ancora un motivo di abbandono del posto di lavoro nonché (anche se non ufficialmente) una motivazione in più per non trovarlo.
Ci sono anche altri nodi importanti, ad esempio il fatto che la presenza di donne nei posti di comando, o comunque in quelli più prestigiosi (anche dal punto di vista del reddito) sia limitata nonostante le laureate siano di più dei laureati (record italiano sia rispetto all’Europa che agli U.S.A.!). Anche nella retribuzione, a parità di impiego, si riscontrano delle differenze, e questo in generale continua a confermare come la dimensione privata rappresenti ancora oggi una difficoltà soprattutto nella crescita professionale.
La chiesa cattolica, essendo religione di stato, impone la propria forza autoritaria e con il proprio paradigma di regole e concetti morali interferisce con le libertà personali dell’individuo (vedi eutanasia) e consacra la completa sottomissione del genere femminile. La chiesa, nascondendosi dietro la sua croce, esercita un potere politico ed etico, erge crociate contro la procreazione assistita, l’aborto, la sessualità libera, consapevole e consensuale. Allora come ora, chiunque si discosti da questo paradigma viene considerato rivoltoso nei confronti del sistema, malato, amorale, un elemento da discriminare. E, ancora essa, porta avanti un concetto di famiglia “tradizionale”, quella dell’unione stabile dell’uomo e della donna, fondata e legittimata dal matrimonio, il cui fine più alto è la procreazione. Essa promuove e tutela soltanto questo tipo di famiglia, che non ricorre a contraccettivi, a procreazione assistita, ad aborto; è perciò contraria al riconoscimento etico-legale delle coppie di fatto, omosessuali ed eterosessuali, negando loro quella tutela giuridica prevista per quella famiglia convalidata dal rito nuziale, argomentando che esse non meritano di godere di tutela giuridica equiparabile a quella prevista per la famiglia fondata sul matrimonio.
Il maschile ed il femminile, hanno sì una base biologica ma sono anche il frutto di una costrizione sociale e di una rigida determinazione dei ruoli che vede le donne in una posizione emarginata e subalterna. Dal momento in cui nasciamo dobbiamo essere normalizzati all’interno di un dualismo che è quello di una natura, di un ruolo, di un’ eterosessualità, di una fertilità, di una pratica sessuale normale e procreatrice.
Anche la psichiatria e le sue lobby farmaceutiche hanno creato nel corso degli anni una patologizzazione delle pratiche sessuali e del genere femminile, bollando, etichettando ciò che è sano e ciò che è patologico. Etichette create da uomini che continuano a perpetuano il potere autoritario del sesso maschile su quello femminile. Si pensi al fatto che l’omosessualità è fuoriuscita dalle patologie dal dsm III (manuale diagnostico dei disturbi mentali) solo nel 1972; oppure alla Sindrome di Alienazione Parentale, o PAS, diagnosticata nelle donne che hanno una storia di violenza e maltrattamenti, ed utilizzata quindi come minaccia per l’ affidamento dei propri/e figli/e. Milioni di pillole vengono prescritte ogni anno alle donne definite depresse, ansiose, instabili, senza considerare il reale contesto all’interno del quale esse vivono, le costrizioni sociali, i lavori di cura, i pregiudizi sessuali.
La violenza sulle donne: è una storia lunga quanto il genere umano. Non conosce confini, non prevede rifugi. E’ endemica, indifferente al grado di sviluppo industriale delle nazioni, alle differenze socio-culturali. E’ la più antica forma di fascismo, la più vecchia negazione del diverso. E’ una guerra multiforme e non conosce pause né tregue, mai. In ogni parte del mondo, in ogni momento, migliaia di donne sono costrette a subire violenze fisiche e psicologiche di ogni genere: stupro, persecuzione, mutilazione, aborti selettivi, sterilizzazione e prostituzione forzata, matrimoni coatti, segregazione, emarginazione, stalking. Una lista infinita, un bollettino di guerra in un supposto tempo di pace. Il mantenimento del potere e del controllo non ammette deroghe temporali o spaziali. Il corpo ed il pensiero femminile devono essere negati, devono rimanere dipendenti e soggetti a quello maschile attraverso il dispiegamento di ogni genere di dispositivo possibile; se non basta, la violenza è uno strumento accettabile in alcuni casi (gli davo due schiaffi quando alzava la voce, non l’avrei mai uccisa), comprensibile in altri (lei voleva portargli via i figli), necessaria addirittura (sarebbe scappata con la dote). Ciò spiega tristemente l’innegabile realtà: quanto più la donna si autodetermina, acquisisce indipendenza e sicurezza, tanto più le reazioni del potere patriarcale – di chi lo esercita – si fanno violente. Gli ultimi dati mostrano come in Italia, malgrado il numero degli omicidi in generale sia sceso, è esponenzialmente aumentato quello dei femminicidi, troppo spesso giustificato dal protagonista (e dai media) come delitto passionale (la consequenzialità di amore e violenza è una delle spiegazioni più false ed aberranti mai date).
Il giornale utilizza con una certa frequenza parole quali “raptus” e “follia” non menzionando mai il concetto di “violenza domestica”. Così le mura domestiche, tanto sbandierate dal potere come baluardo contro i pericoli del mondo esterno, sono lo scenario più diffuso. La guerra ce l’abbiamo in casa, ma i media offrono al pubblico uno schema di interpretazione della violenza, dalle sue cause e delle possibili soluzioni; modello che a sua volta ha un peso importante nelle pratiche e nelle decisioni riguardanti la salute pubblica perché induce la massa dei cittadini a chiedere determinati interventi piuttosto di altri, permettendo all’ideologia dominante di legittimare l’utilizzo di ronde e polizia, sotto falsi pretesti securitari.
Malgrado tutto questo moltissime donne lottano ogni giorno, ogni ora resistono, ogni momento combattono: contro la paura, il dolore, la solitudine, lo smarrimento, la (auto)colpevolizzazione. Malgrado tutto questo resisto nel mio corpo contro gli occupanti. Resisto perché la violenza su una riguarda tutt*, dato che la colpa è semplicemente quella di essere donna, femmina, altra. Lo facciamo perché è un fatto politico, perché è innegabile che questa discriminazione è funzionale al sistema di potere vigente. La storia insegna che le classi dominanti, in qualunque forma di dominio si presentino (dittatura, monarchia, democrazia ecc.), tendono a dividere i dominati, ponendoli, in un contesto gerarchico, gli uni contro gli altri. La divisione è funzionale al mantenimento dello Status quo.
I gruppi vengono messi in competizione gli uni con gli altri per il lavoro. I bianchi vengono aizzati contro gli immigrati, gli occupati contro i disoccupati, i maschi contro le femmine ecc.
Ricordiamo anche il carattere disumano del regime di carcerazione extrapenale dei Centri di Identificazione ed Espulsione, all’interno dei quali l’intera vita viene violata. L’abuso vi regna sovrano, e investe ogni aspetto e ogni bisogno degli individui rinchiusi. Dai CIE trapelano notizie di pestaggi sistematici, di “morti accidentali”, di suicidi disperati, di brutali repressioni poliziesche, di privazione di cibo, acqua, spazio e assistenza Medica e di umiliazioni sessuali, soprattutto molestie nei confronti delle donne, recluse in container separati dove le porte restano aperte..
Complici di questo calvario sono le forze dell’ordine, le associazioni umanitarie (quali croce rossa, misericordia, auxilium..), che supportano questi lager di stato, guadagnando ai danni delle detenute e dei detenuti.
Spesso le donne rinchiuse sono vittime di tratta, si trovano in una situazione di maggiore difficoltà perché ricattabili e controllate anche all’interno di tali gabbie, da parte di quelle persone responsabili o coinvolte nel loro sfruttamento. D’altro canto ad aspettarle all’esterno dei CIE ci sono solo i loro aguzzini, unico riferimento per loro.
Gli stupri che vengono perpetrati ai danni delle donne che giungono nei centri di identificazione sono una realtà che pur se eclissata fa risuonare il suo eco grazie ai racconti che le stesse vittime riescono a portare alla società esterna. troppo spesso episodi di gravissima entità come gli stupri da parte dei detentori e non di meno l’imposizione ad abortire con pratiche inumane, vengono taciuti e ancor peggio sconfessati come produzioni fantasiose ed inverosimile delle vittime stesse. In questi casi denunciare può˛ non portare alla risoluzione del problema, ma per le detenute, essere solo un ulteriore aggravante del proprio status. L’unica colpa: “essere donna”.
La grande maggioranza delle donne nelle carceri proviene da una precedente situazione di esclusione sociale, caratterizzata appunto da svantaggi quali madri single, con una bassa scolarizzazione, disoccupate per lunghi periodi – straniere, prostitute, donne rom, immigrate clandestine – prive di formazione scolastica e di esperienza professionale, e ancora donne tossicodipendenti, che provengono da un contesto maschile violento e hanno subito una violenza di genere, spesso con figli avuti in giovane età.
Il periodo di detenzione non fa che accentuare ancora di più tale esclusione in quanto all’interno del sistema carcerario i bisogni specifici di una donna si trasformano progressivamente in fonte di discriminazione e le poche risorse esistenti vengono convogliate verso le masse più numerose di detenuti maschi, e quindi l’offerta di operatori, corsi professionali, corsi scolastici, attività trattamentali e lavoro per le donne, specialmente per quelle ristrette in piccole sezioni femminili, diventa scarsissima.
Parlare della parità dei sessi e della questione lgbtiq è indispensabile per chi vuole ribadire le parti più dannose dell’ideologia fascista. Tutte le discriminazioni razziali ancora oggi presenti in associazioni fasciste (vedi blocco studentesco, casa pound), colpevoli ad esempio dell’aggressione dello scorso anno ai ragazzi del Clic di lettere, si basa sul concetto razzista della supremazia maschile sulle donne, principio cardine della propaganda di tutte queste realtà autoritarie. Proprio da questa assurda convinzione nasce l’idea che l’uomo debba adempiere al suo ruolo machista ed autoritario, quindi sottomettere la donna considerata debole al proprio volere e vessare invece tutte le minoranze che non la pensano nello stesso modo.
L’appuntamento per incontrarsi e dibattere, in maniera assembleare, su questi e altri temi, è
LUNEDI’ 14 MARZO ORE 17.00 PRESSO LA FACOLTA’ DI LETTERE E FILOSOFIA DI TOR VERGATA VIA COLUMBIA 1
compagne e compagni antifascisti di Tor Vergata