Quando
ero bambina mio fratello aveva la pessima abitudine di strapparmi tutti i
capelli. Gli chiedevo di smettere e lui non smetteva. Poi perdevo la pazienza e
gli davo uno spintone. Lui cadeva, senza farsi male e inscenava la sua
performance per farsi consolare dai nostri genitori.
Mia
madre arrivava, guardava lui piangente e mi lanciava uno sguardo fulminante,
peggio che un lanciafiamme. Chiedeva al piccolo dove si fosse fatto male e lui
tirava fuori la posa tenera e con il ditino segnava un punto non precisato
della testa “qui, bua”.
Aveva
capito che mia madre poteva tollerare tutto meno che gli si toccasse la testa,
a causa di quella fontanella che a tutti i bimbi si chiude dopo la nascita.
Quella di mio fratello si era chiusa da un bel pezzo ma la strategia continuava
a risultare vincente.
La
mossa successiva era quella della richiesta di coccole e così mia madre partiva
alla riscossa del piccolo stratega e ordinava a me di dare un bacino sulla
testa del mio fratellino.
Comincia
così la saga della mia attività consolatoria. Per la società devi consolare
soprattutto i maschi. Le femmine, si sa, si consolano da sole, sono le
consolatrici per obbligo statale e morale, mentre i maschi sono gli aventi
diritto alla consolazione. Sta scritto sul loro certificato di nascita. Già lo
sanno al primo vagito. Si convincono che è “naturale” che sia così.
Per
ogni maschio che aveva la bua io dovevo correre a scalfire il dolore, alleviare
la pena, come uno psicofarmaco, un palliativo, una droga. Perciò il mio nick
name in rete era “morfina”.
Mio
fratello alla fine crebbe e io gli voglio ancora un bene dell’anima. Guai a chi
me lo tocca. La stronzaggine gli è rimasta uguale ma, detto con affetto, c’è
gente tanto più stronza di lui.
Quello
che conta è che ora voglio raccontarvi di come alla fine le donne vengono
educate, da madri e padri, ad essere le consolatrici dell’umanità. Come fossero
missionarie a domicilio, una per ogni uomo non in grado di gestire da solo la
propria vita.
Ci
dicono perfino che è tanto bello avere la mania del “ti salvo io”. Perfino
nelle leggende dark si attribuisce un compito che deresponsabilizza gli uomini
e lascia alle donne tutte le colpe.
Pensate
alle storie di vampiri e mostri in cui ai maschi si lascia intendere che sono
così conciati per natura e che dipende dalla capacità delle femmine impavide
l’estirpazione del mostro che c’è in loro.
E
se non sei capace di estirpare alcunché o giustamente te ne vai per la tua
strada estirpando il possessore di mostritudine dalla tua vita, allora arriva
l’esorcista che decide che sei tu che hai qualcosa che non va.
Come
puoi tu rifiutare “l’onore” di aspirare non altro che al ruolo di cavia di un
maschio con le ombre nel cuore? Che detto tra noi a mio avviso certi uomini le
ombre le hanno altrove, ma questa è tutta un’altra storia.
Come
puoi tu rifiutarti di fare da palestra del maschio violento lusingata dall’idea
di poterlo fare guarire? Come fai a deludere una intera società che ti esorta
a non smettere, perché “puoi farcela”, ma certo, sei una grande, se tieni in
riga un maschio e lo mandi in fabbrica tutte le mattine, e gli tieni a posto i
conti in casa, l’igiene, la spesa, le bollette, i figli, lo rendi presentabile,
gli pulisci i vestiti, lucidi le scarpe, lo nutri, lo accarezzi con dedizione
assoluta e gli dai i bacini sulla bua ogni volta che torna a casa frustrato,
stressato, incazzato come una iena, fino a porgergli il corpo per farti
picchiare un po’ giusto per farlo sfogare.
Come
puoi tu, cara, rifiutare una così meravigliosa prospettiva?
Ebbene,
ovviamente io non la rifiutai. Mi sembrava anzi essere l’unica aspirazione
della mia vita, dopo aver letto di maschi che scrivevano sulle gioie della
sottomissione femminile, la meraviglia di mettersi in ghingheri per lui, di
vivere solo per farlo stare bene, di considerare tutta una esistenza come un
dono da fare al maschio, non potevo fare altrimenti.
In
tutta la mia vita ho avuto tre pazienti. Convenzionalmente si chiamano
fidanzati/mariti/compagni, io li ho chiamati con il nome più appropriato.
Con
il mio paziente numero uno ho fatto il tirocinio. Con il secondo mi sono
diplomata e con il terzo ho preso la specializzazione. Ci sono mie amiche ancora intente a fare master e ricerche. Io ho deciso di uscire fuori dal mondo
accademico e di darmi alle giostre.
Le
giostre per me sono quei pezzi della vita che ti obbligano a concederti solo
per le feste comandate. Io ho deciso di vivere la mia vita come un piacere per
me stessa. Mi coccolo, cerco chi mi coccola e se non mi coccola allora niente
coccole neppure da parte mia. Altrimenti avrei deciso di fare la prostituta,
che poi non è una cosa diversa dal fare l’infermiera o la psicologa. Anzi penso
che implichi capacità interdisciplinari che solo le mogli, ovvero le
puttane/badanti a domicilio, hanno.
Il
mio primo paziente, vi dicevo, purtroppo non è guarito. Tutti erano lì a dirmi
che era colpa mia. Dovevo avere più pazienza, dovevo aiutarlo di più, dovevo
avere più compassione. E quando, dopo la fine della nostra storia, mi perseguitò
alcuni mi dissero che dovevo agevolargli in distacco, che non potevo di certo
andarmene via così impunemente, senza lasciarli almeno il tempo di picchiarmi
un altro pochino. Non si nega mai l’ultimo colpetto di spranga in faccia,
l’ultimo stupro autorizzato, l’ultimo tentato femminicidio. Anche i maschi
violenti pensano di avere il diritto alla loro “ultima volta”. Ovvio che io non ero d’accordo: la sua
“ultima volta” per me diventava “l’estremo saluto”.
Con
il secondo paziente avevo un compito di co-gestione aziendale del personale.
Una specie di palliativo per malati terminali. Sapete che ogni azienda si assicura che i suoi dipendenti abbiano in casa una
moglie che li faccia stare tranquilli, senza aspirazioni, ricattabili, schiavi,
legati a doppio filo ai debiti, all’esigenza di restare a fare lavori di merda
per stipendi di merda per arrivare a fine mese.
Ogni
azienda che si rispetti ha innanzitutto bisogno di avere la certezza che le
donne non lavorino, che restino in casa a fare da co-motivatrici a domicilio,
affinche gli uomini restino a produrre profitto per i capi.
Quando
io decisi di avere un ruolo più attivo nel rapporto e ripresi a lavorare, fu
l’azienda che richiamò il mio paziente “perché stava perdendo colpi” e il
paziente richiamò me.
Decisi
allora di andare a colloquio con l’azienda e di chiedere uno stipendio per il
mio ruolo. Io sarei rimasta a casa a fare da co-motivatrice a domicilio, avrei assicurato che il
mio paziente andasse a lavorare tutti i giorni, puntualmente, sbarbato, ben
vestito e profumato, e avrei assolto a tutti i miei doveri, utili più
all’azienda che a me, per una modica cifra mensile più tredicesima e
quattordicesima (ferie e malattia).
Mi
guardarono come si guarda una matta e a quel punto decisi che la cura per il
mio paziente non ero io, ce l’aveva l’azienda. Io ero solo, per l’appunto,
morfina, che rendeva più accettabile una vita decisamente grama.
Il
mio terzo paziente credetti di poterlo guarire prestissimo. E’ così bello
vedere negli occhi dell’altro la gratitudine da “tu mi stai salvando la vita”.
Ci si era messo d’impegno. Non perdeva mai la concentrazione, aveva tutto sotto
controllo. Anche troppo. Nel giro di pochi mesi passai dall’essere quella che
doveva salvarlo a quella che doveva essere salvata da malattie non meglio
precisate.
Il
mio paziente ebbe la meglio, creò il vuoto attorno a me, mi parlò di strani
sintomi, e quando ti parlano di sintomi che nessuno può confutare è chiaro che
lo fanno per averti sotto il loro controllo. Così di punto in bianco mi
ritrovai a colloquio con uno psichiatra che mi diceva quanto era meravigliosa
l’opportunità di avere un paziente che mi mandasse in cura da una specie di dio
uno e trino sulla terra.
Avevo
capito che il mio terzo paziente era stato il più furbo di tutti. Aveva
trasformato il bisogno che lui aveva di me in una clamorosa bugia: mi diceva
che ero io ad aver bisogno di lui.
Dopo
alcuni anni gli feci una pernacchia e la sua persecuzione fu alquanto
originale. Provò a farmi rinchiudere con un Tso, provò a togliermi la bambina
che avevo partorito e provò perfino a dire che io ero pericolosa per il genere
umano.
Non
gli hanno creduto e io sono qui a raccontarvi questa storia per invitarvi ad
essere egoiste, a pensare a voi stesse, a non lasciarvi abbindolare con tutte
le leggende sulle donne/salvatrici perché in realtà quello di cui hanno bisogno
è di donne/schiave.
Chi
tra voi vuole essere schiava? Scommetto nessuna. Beh, non lo voglio neppure io.
E ora che è cresciuta non lo vuole neppure mia figlia.
—>>>immagine da Humanity is trash