Mi
chiamo Pierpaolo e sono un disertore anch’io. Ho disertato dall’esercito degli
uomini violenti quando ne vidi uno, mio padre, che picchiava costantemente mia
sorella.
Sono
il più piccolo di una famiglia di sei componenti. Mia madre, nessuno me la deve
toccare. E per me non è mai valso il detto che mia madre è una santa e tutte le
altre sono puttane.
Mia
madre mi ha insegnato quanto possono essere grandi le donne. Tutte le donne. Di
lei ho sempre amato il fatto che non fosse una che si piangeva addosso, un
capro espiatorio, un agnello sacrificale. E’ una persona dura, che lotta ed
esige quello di cui sa di avere diritto e capire lei mi ha davvero aiutato a
vedere quanto sono forti e meravigliose le donne.
Le
mie sorelle hanno imparato da lei e si portano dietro un’eredità fatta di
lavoro, fatica e conquiste, nonostante le difficoltà che hanno dovuto vivere.
A
casa mia tutti i ruoli erano stabiliti. Io dovevo fare il maschio e le mie
sorelle dovevano fare le femmine. Per me c’erano i compiti più virili e per le
mie sorelle la cura della casa e lo studio.
Se
dovessi descrivervi i nostri discorsi a tavola rischierei di copiare il lessico
familiare di Natalia Ginzburg. Mi
limito a dire che la mia famiglia era fatta di violenze sottili ed esplicite,
che anch’io ho abbondantemente subito.
Mia
madre era a capo del sindacato di famiglia. Difendeva noi "minoranze". Era in
prima linea, prendeva cinghiate quando erano dirette a me, assorbiva sputi e
lanci di oggetti che erano destinati alle mie sorelle. Non era una cosa così ovvia, se ci
pensate bene. Era di sicuro il suo modo di rivendicare un briciolo di potere
nella nostra famiglia ma se non fosse stato per lei noi non avremmo avuto
nessuna chance di resistere a quella vita.
Mio
padre si divertiva con abitudini sadiche. Sveglia prestissimo al fine
settimana, mi portava a caccia con i suoi indegni amici. Ho spesso accettato di andare
con lui solo per evitare che lui restasse in casa a torturare mia madre e le
mie sorelle.
Qualche
volta pretendeva che io scuoiassi l’animale che lui aveva preso. Non è
semplice crescere con l’immagine degli occhi dei conigli terrorizzati che ti
resta stampata nella mente.
Piangevo
come un deficiente e arrivato a casa dovevo pure fingere di mangiarlo
altrimenti erano ceffoni.
Le
mie sorelle dovevano aiutare la mamma a lucidare, pulire, stirare, lavare e
dato che mia madre era quella che era provava il più possibile a fare tutto da
sola per evitare a loro lo stesso destino che era toccato a lei.
Le
mie sorelle dovevano anche studiare e fare bella figura. A questo mio padre
teneva molto e quello che però non sopportava era che lo studio desse alle mie
sorelle strumenti critici che poi, com’era ovvio, applicavano anche nelle
discussioni familiari.
Di
sicuro non puoi chiedere ad una ragazza, una donna, di imparare a usare senso critico per poi lasciarlo fuori dalla famiglia.
Devo
dire che loro sono state molto più coraggiose di me. E non finirò mai di
ringraziarle per avermi dato l’opportunità di essere quello che volevo essere.
Il
mio unico atto di ribellione, quello che mi riusciva di fare, era chiudere a
chiave la mia stanza per impedire che qualcuno la rimettesse a posto. Volevo
farlo io.
Quando
mia sorella maggiore istituì una specie di calendario per sostituire mia madre nei
lavori di casa, giacchè era malata, io presi volentieri parte ai turni e
dovetti realizzare anche la mia quota di sostituzioni dei turni che mio padre si
rifiutò di coprire.
Mia
sorella sapeva che lui non avrebbe mai mosso neppure un dito ma aveva scritto lo
stesso il suo nome, a stampatello, sul calendario. Significava tanto. Diceva
che lui mancava nell’assumersi una responsabilità e questo non poteva
sopportarlo.
Mia
sorella fu picchiata anche per quello.
Mia
sorella maggiore sviluppò nei confronti di mia madre quello che si chiama senso
di protezione e in un certo senso diventò il nostro terzo genitore. Chiedeva a
mia madre perché non decidesse di lasciarlo e lei, che ragionava come
ragionavano le donne di un bel po’ di anni fa, diceva che non aveva
problemi. I problemi c’erano a causa dei figli.
Non
l’abbiamo mai del tutto perdonata per quella vigliaccheria, doveva essere lei a tirarci fuori da quel contesto e non il contrario, ma nella sua condizione di totale dipendenza economica da mio padre non potevamo non
apprezzare almeno la sua coerenza. Restava responsabilmente a presidiare il territorio
e non si sottraeva mai alle accuse e perfino alle nostre lamentele.
Ammise
però di essersi sbagliata molti anni dopo. Quando rimase sola con lui e non avevano
nulla da dirsi, perchè lei lo vide sgonfiato di quella boria che tirava fuori solo quando assestava colpi su di noi. Così fece la valigia e lo mollò. Per stare assieme alla sua
quadruplice alleanza fatta di figli e figlie.
La
seconda delle mie sorelle era quella più ribelle. Odiavo il suo coraggio e
quando volevo ferirla mi comportavo con lei ne più e ne meno che come si
comportava mio padre.
Non
aveva nessuna voglia di fare la casalinga e non aveva voglia di chiudere fuori
dalla porta il suo senso critico. Lei fu la prima a contestare apertamente mio
padre, a tavola, durante una conversazione qualunque, gli disse che si
sbagliava e che lei aveva le prove di quanto stava dicendo.
Mio
padre la picchiò, lei portò un libro dove erano scritte le cose che affermava e
lui glielo lanciò addosso, assieme ad un pezzo di pane, un limone duro e un
coltello che per fortuna non era tagliente.
La
cosa bella della nostra casa era la stanza da pranzo. Grande abbastanza per
permetterci di correre da un capo all’altro e sfuggire agli inseguimenti
paterni. Un ottimo allenamento che era interrotto dal fatto che mio padre si
serviva di ostaggi per rivendicare il diritto di punire chi tra noi pensava lo
avesse offeso.
Era
ancora mia madre che provava ad attuare strategie dissuasive, spesso senza
riuscirci.
Uno
dei temi frequenti che venivano affrontati in casa mia era quello della colpa
della morte di qualcuno.
Se
mia sorella rischiava di morire perché si era messa in mezzo tra mio padre e me
quando rifiutavo di obbedirgli allora io avevo colpa della sua eventuale morte.
Se mia madre beccava i colpi che mio padre tentava di assestare a mia sorella
allora era mia sorella colpevole dell’eventuale colpa di mia madre.
Gira
e rigira tutti eravamo responsabili per tutti. Tutti meno che mio padre ovvero
quello che ci metteva costantemente in pericolo.
Mia
sorella, dicevo, fu quella che le prese più di tutti. Osava troppo, era
ostinata, non abbassava lo sguardo e stava sempre con la schiena e la testa
dritta. Mio padre non sarebbe riuscita a piegarla e sottometterla neppure se
l’avesse uccisa. Sarebbe comunque morta con quello sguardo di sfida che le
restava stampato negli occhi.
Si
prendeva il diritto di vivere, dentro e fuori. Mi diceva che non era giusto che
potesse ribellarsi fuori, contro professori e gerarchie costituite, senza che
potesse farlo anche dentro casa, proprio dove l’espressione delle gerarchie era
sistematica e ti spezzava le gambe prima di qualunque tuo ingresso nella
società.
Ci
fece vedere quell’uomo per quello che era, borioso, arrogante, spaccone, con un
cervello che misurava il suo potere sulla capacità di ammazzare un piccolo
coniglio e di farlo scuoioare a me. O con quella stramaledetta abitudine di sparare colpi a capodanno con il rischio di ammazzare qualcuno.
Quando
mia sorella propose lo sciopero della selvaggina lui diventò furioso. La
bastonò sulla schiena e quando lei riuscì a sfuggirgli, mentre mia madre e mia
sorella trattenevano mio padre, lui la insegui e spaccò la porta della sua
stanza per raggiungerla e insistere in quell’andazzo da regime del terrore.
In
casa mia nessuno parlò mai di denunciarlo. La complicità era una cosa
garantita. Mia madre non avrebbe mai pensato che qualcuno potesse farlo. Non si
aspettava certo che lo facessi io.
Non
parlo di denuncia alla polizia, tanto che a loro non sarebbe neppure
interessato. Erano cose di famiglia, tutti sapevano, il vicinato sapeva e
d’altronde anche loro ci rendevano grazia di tante belle urla e tante altre
belle scene per le quali nessuno osava dire niente.
Parlo
del fatto che io ruppi la catena del silenzio, quell’omertà che protegge gli
uomini violenti e misi in piazza i fatti nostri.
Lo
dissi a scuola, lo dissi ai vicini di casa, lo dissi forte perché sentissero
anche quando non volevano sentire: “mio padre ci picchia! solo perchè porta i soldi in casa pensa che può fare di noi quello che vuole… mia madre non dispone di niente, non può neppure fare la spesa senza che lui gli dia la paghetta, come fosse l’ultima sguattera della casa… noi non possiamo contare su di lui mai…”. E ne dissi molte altre, perchè ce le avevo dentro da tanto, tantissimo tempo. Nessuno se ne curò.
Mia
madre disse “che vergogna!”, mia sorella maggiore litigò al solito con mia
madre, mia sorella minore e la mia quasi coetanea mi dissero che bisognava fare
di meglio.
Lo
aspettammo in casa la sera, con le valigie pronte. Nascondemmo coltelli e
fucili da caccia, chiamammo la nonna e la sorella di mia madre e comunicammo la
nostra pronta evasione. Dovevamo affrontarlo direttamente perchè non potevamo permettere che lui se la prendesse con mia madre.
Ci
urlò che eravamo irriconoscenti, che non era certo quello il modo di
ringraziarlo dopo quello che lui aveva fatto per noi (?) e ci disse che
comunque non ci avrebbe lasciati andare in nessun posto.
Mia
madre lo convinse a lasciarci fare. Lei sarebbe rimasta con lui. Noi saremmo
stati in vacanza per un po’ dalla nonna. Così gli disse.
Da
quella vacanza noi non siamo più tornati e come dicevo dopo un po’ di tempo mia
madre venne via con noi.
Tra
tutti i figli quello che ha preso più insulti sono stato io. Perché le
mie sorelle, chiaramente, puttane erano e puttane restavano. Ma io ero parte di
un esercito, mi aveva addestrato apposta, non potevo certo fare l’obiettore di
coscienza, deporre le armi, addirittura disertare e consegnarmi volontariamente
al nemico. Roba da brivido.
Da
allora me ne sto beatamente tra le braccia di queste mie "nemiche" e fortuna
vuole che dopo una compagna ho avuto anche una figlia, femmina, bella e
intelligente come mia sorella.
Le
assomiglia anche fisicamente, lo stesso sguardo furbetto e combattivo e io sono
felice di arrendermi e di dirle che è forte, splendida, meravigliosa, viva,
e che deve potermi "sconfiggere" quando vuole, anzi deve coesistere con me, insieme
a me, perché io non sono suo nemico e neppure il suo padrone.
Non mi sentirà mai dire, come mio padre diceva alle mie sorelle "ecco, stupide, si fa così e non così, non vedete che non sapete fare niente?". Non mi sentirà mai dire qualcosa per prevaricarla, farmi grande di fronte a lei, brandire i miei muscoli per dimostrargli che sono più forte. Quello che faceva mio padre era miserabile e non posso e non devo vergognarmi di dirlo.
Io invece guardo mia figlia e penso che ho solo avuto la
fortuna di averla nella mia vita e che mi guadagnerò ogni secondo del suo affetto, della
sua stima e del suo rispetto.
Questo
racconto lo dedico a lei e a tutti gli uomini disertori come me!
Grazie per l’attenzione.
Pierpaolo
—>>>Grazie a te e a tutti i disertori di questo mondo 🙂
Complimenti, per il coraggio, per la solidarietà , per il senso di giustizia e la sensibilità … e ancora complimenti a tutti voi 🙂
cara paola, ti sbagli
quelle di cui parla pieropaolo non sono “nuove donne” ma sono le donne di sempre, quelle che ingoiano umiliazioni e tirano avanti la carretta. come sempre. sono donne che lottano in famiglia e delle quali si sente parlare solo quando muoiono per mano di un maschio, marito, padre, fidanzato, ex, in seguito ad un atto violento.
gli uomini che non disertano e continuano a perpetrare violenza hanno semplicemente fatto una scelta di campo. hanno scelto di non vedere, di schierarsi con il proprio branco e di copiarne le gesta.
gli uomini violenti hanno ignorato quanto subivano le loro madri e hanno copiato di riflesso tutto quello che i loro padri facevano. perchè la violenza viene insegnata da chi la pratica e non da chi la subisce.
continuare a insinuare che le donne siano responsabili della cattiva educazione dei maschi è quanto di più falso e meschino si possa dire.
se vedi un uomo che picchia tua madre, chi ti educa alla violenza, tua madre che è lì stesa a terra massacrata o tuo padre che continua a infliggergli botte?
bella storia, che dimostra gli effetti di una buona educazione ricevuta da un figlio e fratello maschio in una famiglia di donne non sottomesse: possiamo trarne incoraggiamento nel senso che saranno le nuove donne ad educare i possibili nuovi uomini?
P.S. tutta la mia stima e i miei auguri a Pierpalo e alle donne della sua vita…
Grazie a Pierpaolo,
e lode a tutte le persone che disertano da ruoli stabiliti e imposti con la forza, con l’ipocrisia, con l’inganno o con la brutalità .
il tuo scritto fa bene al cuore; severo senza odio,; sofferto ma lucido descrive un percorso che troppi conoscono ma non sempre diventa liberatorio come il tuo:
A tutte le donne succubi ma resistenti come tua madre che impotente per sé è stata promozionale di coscienza e coraggio per i figli ,spero che con questa tua testimonianza “maschile” arrivi alle donne l’incoraggiamento culturale a confidare con tempestività nella possibile risoluzione della condizione di vttima violentata da una arcaica padronalità di genere. Grazie