di Eva Rizzin (da womenews)
Giovedì 17 dicembre alle 8.30 all’Osservatorio riceviamo una chiamata da parte di una donna: “Un’ora fa sono venuti i vigili a casa mia, hanno detto che devo dare le mie generalità perché stanno facendo un censimento per i rom e per i sinti. Cosa devo fare? Perché ci stanno facendo questo? Siamo tutti cittadini italiani, se vogliono fare un censimento possono andare in Comune e chiedere lì tutte le informazioni”.
La signora vive nel Veneto da sempre, in un terreno privato di sua proprietà, in una casa mobile, con suo marito e i suoi tre bambini, sono sinti, cittadini italiani. Nel terreno privato ci sono altri cinque nuclei famigliari, anche loro sinti, anche loro cittadini, anche loro proprietari della loro terra.
La signora ci dice di non aver valuto fornire le sue generalità perché i vigili sono entrati nella sua proprietà privata senza autorizzazione e che vuole sentire il suo legale. Mentre erano lì, la figlia più grande si stava preparando. I vigili stupiti hanno chiesto alla madre se la bambina andasse a scuola; lei meravigliata della domanda ha risposto ovviamente di sì e, raccontandocelo, aggiunge: “Per chi ci hanno presi?”.
I vigili a quel punto se ne sono andati dicendo che sarebbero tornati con un’ordinanza e che a quel punto lei si sarebbe dovuta recare in comando per fornire i propri dati.
Era molto scossa: “Oggi mi sono sentita violata, umiliata, sono indignata nel profondo, mi sono sentita in un lager, ho detto loro che mi stavano mettendo un marchio, ho chiesto se a loro avrebbe fatto piacere camminare con una lettera scarlatta. Volevano i dati dei miei bambini. Non riesco a capire il perché, visto che siamo cittadini italiani”.
Non è nemmeno passata un’ora e i vigili si sono ripresentati per chiedere nuovamente documenti e informazioni sue, di suo marito e dei sui figli, senza presentare alcun provvedimento; lei inizialmente si è opposta poi, temendo di peggiorare la situazione, ha ceduto. Non si sono limitati a chiedere le generalità, hanno preso il numero di targa delle autovetture parcheggiate e di fronte alla sua richiesta di motivazioni i vigili hanno risposto che stavano conducendo l’operazione per contrastare eventuali casi di tratta dei minori. A quel punto la signora ha alzato il braccio, suggerendo di fare un esame del DNA, aggiungendo che in questo modo sarebbero stati certi della sua maternità. Loro l’hanno rassicurata sottolineando che poteva stare tranquilla e serena perché non avevano l’intenzione di fotografarli.
Questa operazione di censimento non è un fatto nuovo; a tal proposito vorremmo riproporre un’intervista rilasciata al quotidiano di Verona ("l’Arena") il 6 marzo scorso da Don Francesco Cipriani che da anni vive con la comunità rom del cosiddetto “campo” di Strada La Rizza a Verona. Il titolo è: «Mi pare di tornare ai campi di internamento».
«Siamo tutti cittadini italiani, siamo residenti a Verona, siamo da vent’anni in questo posto e non capisco perché devono controllare in questo modo». Suona indignata la voce di don Francesco Cipriani, dal 1972 incaricato diocesano per l’assistenza e la pastorale tra i rom e i sinti. «Mi sembra che siamo tornati agli inizi dei campi di concentramento. Mi pare purtroppo che sia così…». Anche don Cipriani, assieme a un’altra esponente della comunità che da anni vive dentro il campo di strada La Rizza 65, Forte Azzano a Verona, è stato fotografato di fronte e di profilo, con nome, cognome e dati anagrafici. «Io avevo il numero 40 ed Elisabetta Adami il 41», riferisce. «Faccio una riflessione da cittadino, quale sono e quali siamo tutti qui al campo: questo non succederebbe in un quartiere normale, non succederebbe in un condominio o in un’area di casette a schiera. Mi pare quindi che ci sia discriminazione. Bastava che andassero in Circoscrizione per avere tutti i nostri nomi. Qui nessuno è abusivo. Questa operazione ci ha sorpresi», conclude, «e preoccupati perché si avvicinano tempi brutti. Alcuni dei più anziani sono stati internati a Tossicia, nei campi di concentramento fascisti, e temono di rivivere quelle esperienze».
Le operazioni di censimento, o meglio di schedatura su base etnica, dei cittadini rom e sinti in Veneto sono iniziate già il 5 marzo 2009. Le testimonianze raccolte da diverse associazioni per la tutela dei diritti di rom e sinti hanno dimostrato che le modalità operative si sono diversificate da città e città.
Le testimonianze di quello che è avvenuto a Verona sono veramente inquietanti. Si pensava che il possesso di carta di identità, e quindi il riconoscimento della cittadinanza italiana tramite l’iscrizione nei registri anagrafici locali, preservasse chiunque dal subire metodi di identificazione così lesivi della dignità personale. Evidentemente ci si sbagliava.
Il 21 maggio 2008 con un decreto legge del Presidente del Consiglio dei Ministri, che non ha precedenti nel secondo dopoguerra e il cui titolo recita: Dichiarazione dello stato di emergenza in relazione agli insediamenti delle comunità nomadi nelle regioni di Campania, Lazio e Lombardia. (estesa al territorio delle regioni Piemonte e Veneto, fino al 31 dicembre 2010.) indica la presenza di rom e sinti in queste zone come causa del grande allarme sociale dovuto alla concreta possibilità di gravi ripercussioni in termini di ordine pubblico e di sicurezza: il Governo italiano ha proclamato lo stato di emergenza adottando nelle regioni indicate delle ordinanze applicative. Per affrontare il “problema” sono stati conferiti a funzionari dello stato e degli organi locali poteri straordinari, concepibili solo in casi di gravi calamità naturali.
In teoria il censimento dovrebbe riguardare solo i cosiddetti “campi nomadi” autorizzati e non; in realtà di recente ci è giunta un’altra segnalazione da parte di altri appartenenti alla comunità sinta che vivono in Veneto, i quali ci hanno comunicato di essere stati censiti pur vivendo in una casa in muratura in un terreno privato edificabile. I testimoni di tali violazioni istituzionali ci hanno chiamato sabato 19 dicembre dicendoci che i vigili volevano effettuare il censimento la domenica mattina, senza considerare il giorno festivo comune a tutti i cittadini. Le persone non hanno accettato e il censimento è stato effettuato il lunedì; sono state chieste le generalità, informazioni sui minori e numero di targa delle autovetture presenti nel terreno privato.
Sembra assurdo: il 16 dicembre a Montecitorio si celebrava il 71° anniversario della promulgazione delle leggi razziali ed antiebraiche, “L’internamento dei rom e dei sinti in Italia dal 1940 al 1943”, le testimonianze che ci sono pervenute sollevano in noi interrogativi forti sulla discrepanza tra questa importante iniziativa e la realtà.
Di fronte all’esistenza di queste politiche istituzionali discriminanti che portano all’adozione di metodi di identificazione lesivi della dignità umana proviamo un senso di impotenza e la paura che tutto questo sia visto e vissuto dagli altri, e dalle stesse minoranze, come qualcosa di normale; dispiace dirlo, ma riteniamo a questo punto che la memoria non sia sufficiente. Abbiamo un desiderio e speriamo si avveri: che un giorno in Italia si possa avvertire un sentimento di vergogna e di indignazione, come quello che ancora ci assale al ricordo delle schedature e delle testimonianze di tanti anni fa!