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La fatica di mettere a tema la questione del lavoro


Da Womenews.net

di Adelaide Coletti

Intervista
a Cristina Morini (giornalista, scrittrice e socia fondatrice di BIN
Italia Network). Sono domande aperte e discorsive che vogliono puntare
sull’approfondimento delle questioni oggetto del dibattito che si è
tenuto il 6 novembre a Perugia “Donne e lavoro quale sicurezza? Reddito
per tutte e tutti”, organizzato dal collettivo femminista Sommosse.

Molti
aspetti della vita delle donne oggi diventano paradigmatici all’interno
della crisi. La femminilizzazione del lavoro ha significato estendere
le condizioni di lavoro e di vita e anche le forme di disciplinamento,
che prima riguardavano peculiarmente le donne, a tutte le componenti
del lavoro contemporaneo. Le donne rappresentano la punta avanzata di
questo processo.
Possono essere proprio per questo la punta avanzata della lotta intorno
alle questioni del reddito, dell’accesso a nuovi diritti?

I paradigmi produttivi sono cambiati e nel corso degli ultimi vent’anni ciò si è manifestato in maniera sempre più evidenti.

Il passaggio da una produzione di merci di tipo fordista a una
produzione di servizi ha determinato l’utilizzo di tutta una serie di
caratteristiche delle persone impiegate che hanno a che vedere con la
capacità relazionale e di ascolto, vengono dunque messe a valore
competenze che non hanno a che vedere direttamente con la forza fisica
del corpo.
Le donne sono la maggioranza dentro questo contesto, si è dunque
assistito ad un vistoso processo di femminilizzazione del lavoro, anche
se in Italia persistono tutta una serie di limiti che non sono presenti
in altri paesi. Le donne, come dicevi, possono diventare la punta
avanzata delle lotte proprio perché la messa a valore di questa
differenza femminile da una lato diventa un fattore di accumulazione di
ricchezza ma dall’altro vi è la presenza di tutta una serie di fattori
che rappresentano uno scarto e quindi un’alternativa rispetto ad un
meccanismo di asservimento tout court che mette a profitto anche le
differenze.
La scommessa è sull’eccedenza, che io ritengo da femminista sia
anch’esso un portato delle donne e non a caso si possono osservare dei
meccanismi di infedeltà dentro il lavoro. Le donne si sono approcciate
al mondo della produzione anche con tutto l’interesse ad uscire dalla
famiglia e da contesti meramente riproduttivi dopodiché il tipo di uso
che di loro viene fatto, e che richiede una dedizione spaventosa e un
numero di ore che esubera sempre gli orari di lavoro pattuiti nel
contesto di una precarietà estrema, fa si che si possano intravedere
degli elementi di infedeltà come ad esempio l’importanza di non darsi
tutte intere al lavoro, di cercare di mantenere una unità di se stesse
che il lavoro ti chiede di non avere più perché ti vuole tutta intera
nella dimensione produttiva. Inoltre si intravedono delle possibili
forme di collegamento, di alleanze anche con altre dimensioni delle
lotte: con le lotte dei precari , degli studenti.
Detto questo la soggettività precaria delle donne può
rappresentare un paradigma molto interessante di questa dimensione in
cui sono state tutte le categorie: quelle del tempo di vita e tempo di
lavoro, produzione e riproduzione, corpo e cervello, lavoro manuale e
lavoro intellettuale. Il corpo della donna ha da sempre condensato in
se stesso queste dicotomie e nell’elemento produttivo e riproduttivo
questo è evidente. Penso che dentro le donne si possa rintracciare la
speranza di una rivincita dell’altrove, di una rivincita dell’eccedenza.

Oggi le sfere del pubblico e del privato – quel personale è
politico che negli anni 70 proprio il femminismo considerava necessario
saldare- si sono completamente confuse.

Il movimento delle donne ha faticato nell’aggiornamento, cioè solo
da poco sembra aver accolto esplicitamente tra i propri argomenti
quelli del lavoro, la cui dimensione biopolitica sposta la questione
molto al di fuori di nesso.

In generale tutti i movimenti hanno fatto fatica a mettere a tema la
questione del lavoro; proprio nel momento in cui diventa evidente
questo meccanismo ci sono state alcune parole d’ordine per esempio
quella del reddito, che però ha rischiato di diventare una specie di
feticcio.

Dopodiché sono d’accordo con la tua premessa, le donne hanno fatto
più fatica nel conferire centralità alla questione del lavoro perché il
lavoro rappresentava e rappresenta ancora un fattore di inclusione
estremamente forte. Le donne, appena della generazione scorsa erano
rinchiuse dentro le mura domestiche, come fotografa chiaramente il
documentario “Vogliamo anche le rose” di Alina Marazzi, ma questo
desiderio di inclusione e di emancipazione da un lavoro riproduttivo,
invisibile e mai retribuito si è poi scontrato con una realtà di
sfruttamento.
Trovo drammatico che ci si stia accorgendo così in ritardo di
queste contraddizioni che ormai sono evidenti, oggi occorre saper
guardare con lucidità alle modificazione del lavoro, alla dimensione
biopolitica nella quale siamo immerse, e bisogna sapervi intravedere
quelle che sono state solo false promesse e dei problemi concreti che
il lavoro contemporaneo porta con sè: la precarietà prima di tutto, che
dentro una dimensione di individualizzazione del lavoro fortissima fa
saltare tutta la dinamica salariale, precludendo la possibilità di
ottenere un’ equa distribuzione del valore che effettivamente si
produce.
Le nuove forme di asservimento e sfruttamento vanno guardati con
un occhio più lucido e più critico. Senza dimenticare quello che è
stato ma tenendo presente che il posto fisso, la piena occupazione, il
lavoro di cittadinanza sono in questo momento concretamente
improponibile, sono d’accordo con l’analisi che Gorz
elabora sull’ ’Immateriale: il processo di precarizzazione generale del
lavoro porta al superamento della categoria del lavoro salariato così
come lo abbiamo conosciuto secondo le categorie fordiste e porta verso
un’ autoimprenditorialià di massa, che può aprire a inediti spazi di
liberazione. Il capitalismo cognitivo, o meglio il biocapitalismo si
attaglia perfettamente alla dimensione dell’autoimprenditorialità.

Le donne sono da sempre al cerchio di massimo sfruttamento
innescato dal neoliberismo. Ora in questa crisi – che lungi dall’essere
contingente è strutturale – le lavoratrici verranno espulse in massa
dal mondo del lavoro: quali sono gli strumenti per pensare la
contemporaneità oltre la crisi?

Le soggettività dovrebbero partendo da sé e cercando l’alleanza con
altre lotte, assumere un atteggiamento critico cercando delle forme e
dei strumenti di sottrazione di fronte al capitalismo per come si dà
nella contemporaneità, un biocapitalismo che cerca di divorare la vita
stessa, un sistema paralizzante di tutte le attività del pensiero,
della lotta, e del desiderio.
La battaglia dovrebbe essere quella per il reddito, anche
graduale a partire da sperimentazione che hanno molti limiti ma
comunque rappresentano dei passi in avanti. Il tema è quello della
sicurezza declinato come possibilità di scelta, di rafforzarsi dentro
la negoziazione, nel rapporto con la controparte.
Anche un reddito minimo, in questo momento può rappresentare un
elemento importante per far ripartire la dinamica salariale.
Diversamente da quello che tanti pensano , il fatto di avere un piccolo
reddito fisso dentro una dimensione di precarietà non fa si che le
persone si mettano ad oziare, viceversa possedere una piccola cifra
sarebbe uno strumento per: distribuire una ricchezza che è
collettivamente prodotta, frenare la corsa la ribasso del costo del
lavoro, rafforzare i percorsi di autodeterminazione e di
autovalorizzazione, costruire una soggettivazione possibile del
precariato.
L’autovalorizzazione e l’autodeterminazione sono fattori
imprescindibili per il libero dispiegarsi della creatività , ad esempio
si possono elaborare e realizzare idee e progetti, che poi possono
ricadere dentro il mercato ma uscendo dal meccanismo della schiavitù e
dell’assoggettamento, per costruire ipotesi alternative che seguono le
capacità, le inclinazioni effettive delle persone.

E’ da almeno due anni che il movimento femminista scende in
piazza contro la violenza maschile sulle donne, le politiche
securitarie e una violenza che è sistemica, che viene perpetrata
attraverso la precarizzazione delle vite e del lavoro, la
privatizzazione dei servizi, la distruzione dello stato sociale.
Secondo te espungere la questione della violenza sistemica e della
precarietà in una ipotesi di mobilitazione nazionale delle donne
potrebbe costituire un passo indietro rispetto alle elaborazioni e
pratiche intraprese?

Certo, non guardare alla precarietà sarebbe un limite grandissimo,
per tutte le cose di cui abbiamo discusso fino ora. La precarietà è
diffusa e generalizzata a tal punto che anche chi ha un contratto a
tempo indeterminato vive in uno stato di precarietà esistenziale.
Inoltre la precarietà, che è di vita e di lavoro, fa si che le donne
permangano in strutture tradizionali di dipendenza come la famiglia,
dove troppo spesso- dati istat alla mano- subiscono violenze. E proprio
la mancanza di autonomia economica è uno dei fattori che costringe le
donne a permanere dentro relazione ormai usurate o in contesti di
violenza.
La precarietà restringe fortemente gli spazi dell’autodeterminazione.

La questione del reddito è stata parola d’ordine agita sin
dagli anni 70 e se un tempo sembrava riguardava una parte allora
ritenuta “marginale” della società, oggi invece riguarda la maggioranza
della società che vive in una condizione di precarietà diffusa. La
crisi, unitamente a questo dato di fatto, potrebbe fare del basic
income un ordine del giorno di assoluta centralità?

Spero che così sia, addirittura Luciano Gallino è uscito tempo fa
ponendo la questione del reddito in prima pagina della Repubblica, e
stiamo parlando di un economista che è stato da sempre un forte
sostenitore dell’idea piena occupazione, che si è costruito dentro una
dimensione “lavorista”; eppure lui stesso arriva oggi a enucleare ,
dentro la dimensione della crisi, come fondamentale un ragionamento
serio sul basic income.
Oggi è impossibile risolvere la questione della crescita
esponenziale della disoccupazione con una riforma degli ammortizzatori
sociali che, per forza di cose, non tengono conto di tutta una serie di
figure che non sono previste dentro il lavoro cosiddetto “standard”.
Per quanto riguarda la condizione delle donne ad esempio considero
inutile riproporre il tema della conciliazione: la stragrande
maggioranza delle donne che lavora in condizioni di precarietà come può
conciliare? Per di più in Italia lo strumento del part time non è mai
decollato dato che le imprese avevano ben altro di cui disporre ovvero
un’ infinita tipologia di contratti precari.

Posted in Fem/Activism, Omicidi sociali, Precarietà.


One Response

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  1. enrico says

    Pur ammettendo che continua ad esserci una disparità di trattamento fra donne e uomini, soprattutto a livello di compensi e salari, trovo che il precariato sia una malattia sociale che non ha genere, colpisce uomini e donne allo stesso modo. E a proposito di precariato, colgo l’occasione per segnalarti questo interessante sito