Raccogliamo da Marginalia, prendiamo ispirazione da No Blogo. Buona lettura!
“Sapete dove porta questo autobus?”, così esordisce una donna del gruppo di compagne, femministe e lesbiche, salite sul mezzo pubblico in centro a Bologna. “Porta al Cie. E sapete cos’è un Cie?”. E comincia a leggere un volantino in cui si denunciano le violenze che le donne subiscono all’interno di questi lager per migranti.
Non è un caso che proprio oggi, in concomitanza con la sentenza del processo per la rivolta nel Cie milanese di via Corelli, a Bologna alcune donne abbiano deciso di andare sotto il lager bolognese di via Mattei, per rendere pubbliche le violenze che le donne migranti vivono all’interno di questi universi concentrazionari. Perché proprio durante un’udienza di quel processo una donna nigeriana ha pubblicamente denunciato il tentativo di stupro subito da parte dell’ispettore capo e ora rischia un processo per diffamazione.
Ma a ben vedere già con la nascita dei Cpt grazie alla legge Turco-Napolitano del 1998 sono cominciate immediatamente ad emergere le molestie e le violenze che subivano le donne là dentro. Già il numero 0 di “Corelli anno zero” (quindi nel luglio del 1999!), descrivendo la condizione di vita delle donne rinchiuse nel Cpt milanese, riporta “Una delle detenute ci racconta in lacrime che quando ha chiesto una scheda telefonica ad un agente questo ha risposto – riportiamo fedelmente – ’a fare un pompino come tutte le altre’”.
Quanti ricatti sessuali avvengano quotidianamente fra quelle mura blindate non ci è dato sapere, ma di tanto in tanto emergono violenze che sono lo specchio fedele di quei luoghi. E proprio per questo il gruppo di donne salito sull’autobus ha deciso di andare sotto al Cie per denunciare che questi lager, sdoganati in nome della nostra “sicurezza”, sono in realtà luoghi in cui la violenza contro le donne trova l’humus ideale, perché queste donne, come gli uomini rinchiusi lì dentro, sono delle non-persone.
“A chi chiedere l’autorizzazione per andare sotto un lager a dire che quello è un lager, se non a noi stesse?”. Ma la digos non la pensa così e, dopo una mezz’ora chiama in soccorso tre volanti per convincere il pericoloso gruppo di feroci amazzoni a consegnare i documenti. “Vi abbiamo fatto fare il corteo contro l’omofobia senza problemi, no? – dice il digos mostrando di non aver capito il senso di Stranabologna – ma questa volta non avete chiesto l’autorizzazione, quindi dovete darci i documenti”. “Ramm’ ’o documento ca si no po’ t’allamiente”, il ritornello è sempre quello e ormai un po’ noiosetto.
Ma intanto lo striscione QUI SI STUPRA rimane inesorabilmente aperto, suscitando la curiosità di qualche automobilista che, nel tentativo di capire che stia succedendo, rallenta il traffico nevrotico dell¹ora di punta su via Mattei. Un poliziotto in divisa scatta alle compagne una foto col cellulare. Lui e i suoi colleghi vengono immediatamente fotografati a loro volta. Intanto partono telefonate alle radio per raccontare la situazione, arrivano chiamate solidali, continuano gli slogan in italiano e in francese.
Ma chi le tiene ’ste donne?! Se qualcuno/a pensava che le discussioni su burqa e veli e sulle nostre sorti magnifiche e progressive e soprattutto democratiche avrebbero distratto tutte le donne da ciò che avviene nelle “quattro mura” (ma che coincidenza!) dei Cie, si è sbagliato/a di grosso. Rotta l’omertà sulla violenza in famiglia, rimangono tante altre omertà e complicità da rompere. E non è che l’inizio …
Questo il testo del volantino distribuito.
NOI NON SIAMO COMPLICI!
Quante volte, studiando la storia del Novecento, è capitato di chiedersi perché durante il nazismo la gente facesse finta di non vedere quanto avveniva nelle strade delle proprie città rastrellamenti, soprusi, violenze e di non sapere ciò che succedeva nei lager? E quante volte la risposta è stata “Io non avrei potuto far finta di niente”?
E allora perché oggi tante, troppe persone, fingono di non vedere quello che succede nelle strade, fingono di non capire gli effetti mortali che il cosiddetto “pacchetto sicurezza” ha sulla vita di migliaia di esseri umani, fingono di non sapere che nelle città in cui viviamo ci sono luoghi che, per come ci si viene rinchiusi/e e per alcune delle violenze che vi vengono esercitate, ricordano i famigerati lager di stampo nazista?
Questi luoghi si chiamano Cie Centri di identificazione ed espulsione, nuovo nome per i Cpt, Centri di permanenza temporanea, creati nel 1998 con la legge Turco-Napolitano e disseminati su tutto il territorio nazionale. Da tempo le migranti e i migranti detenute/i denunciano le spaventose condizioni di vita all’interno dei Cie, le continue violenze e umiliazioni, i pestaggi, le malattie non curate e le morti sospette. Ciononostante il ministro Maroni ha annunciato recentemente, in nome della “sicurezza”, la costruzione di nuovi Centri di identificazione ed espulsione.
Hanno provato a raccontarci che nei Cie vengono rinchiusi i “clandestini” perché gli stranieri sarebbero tutti, secondo la retorica del razzismo istituzionale, criminali e potenziali stupratori, e che quindi, anche senza che abbiano compiuto alcun reato, è giusto che stiano rinchiusi lì anche per 6 mesi per poi venire espulsi dall’Italia.Ma noi sappiamo cos’è la sicurezza di cui ci parlano. Sappiamo cosa sono i Cie. Sappiamo cos’è il razzismo istituzionale. E sappiamo cos’è la violenza.
Sappiamo per esperienza che i luoghi pericolosi per le donne sono soprattutto le case in cui viviamo, i luoghi in cui lavoriamo, le canoniche e le questure nelle quali abbiamo la sventura di avventurarci o di essere portate. E anche le quattro mura di un Cie, dove tantissime donne subiscono molestie, torture e stupri da parte dei loro guardiani.Umiliazioni e violenze che le donne migranti non hanno mai smesso di denunciare.
Come Raya, una delle donne migranti rinchiuse nel Cie di via Mattei a Bologna, che lo scorso maggio è stata picchiata da un poliziotto in borghese e poi lasciata svenuta sul pavimento sotto gli occhi indifferenti degli operatori della Misericordia, il “misericordioso” ente che gestisce ilCentro.
O come le donne migranti che nel Cie di Lampedusa hanno intrapreso, all’inizio dell’anno, una lunga rivolta per protestare contro i rimpatri, denunciare le condizioni all’interno del Cie e chiederne la chiusura. O come la protesta delle compagne di Mabruka, donna di origini tunisine da 30 anni in Italia, che si è impiccata nel Cie di Ponte Galeria a Roma ad aprile pur di non essere deportata, protesta che si è poi estesa alle camerate degli uomini. O come Joy, una donna africana imprigionata e processata a Milano per essersi ribellata, lo scorso agosto, ad un presunto tentativo di stupro da parte dell’ispettore-capo del Cie e alle condizioni disumane in cui, con altre donne e uomini, era costretta a vivere nel Cie di via Corelli.
Per le sue dichiarazioni Joy rischia, ora, un processo per calunnia, perché nell’Italia del terzo millennio questi lager non si possono mettere in discussione, e quello che accade lì dentro deve restare omertosamente nascosto. Proprio come la violenza sessista che le donne subiscono in famiglia e nei luoghi di lavoro.Noi sappiamo e non vogliamo tacere. Non vogliamo essere complici delle violenze perpetrate contro le donne migranti in nome della “sicurezza”.In concomitanza con la sentenza per la rivolta nel Cie milanese di via Corelli, abbiamo scelto di trovarci davanti al Cie di Bologna per esprimere alle donne rinchiuse lì la nostra vicinanza solidale, ma anche e soprattuttoper denunciare all’esterno quello che accade dentro questi lager del terzo millennio.E tu? Continuerai a far finta di non sapere?
è davvero spaventoso…e la cosa pazzesca è che nessuno sa niente di tutto questo, c’è un silenzio assoluto riguardo certi fatti. ma cosa si può fare per cambiare le cose?