I genitori degli uomini violenti normalmente negano che il proprio figliolo possa fare qualcosa che viene ampiamente sollecitata dalla cultura dello stupro del nostro paese. Negano che possano aver attuato le convinzioni che circolano in casa, durante i pranzi e le giornate festive in cui tutti, allegramente, si scambiano opinioni sull’ultimo calendario della velina che a prescindere da quanto guadagna comunque non sarà mai riconosciuta come una professionale venditrice autodeterminata del proprio corpo. Sempre un po’ puttana è. Negano di aver mai pensato che il proprio figliolo è un santo e che può sbagliare solo in presenza di scostumate senza dignità. Perchè lei non deve darla e lui non può comunque rifiutarla.
Nel meridione – senza generalizzare, ovvio – la categoria genitoriale molto spesso si restringe ad un solo componente. L’uomo sta fuori a lavorare e farsi i fatti suoi, detta due tre regole generali che la donna deve eseguire alla lettera e le donne devono muoversi tra sceneggiature predeterminate e copioni già scritti. L’improvvisazione consta di poche battute che danno l’illusione dell’autonomia ma che servono per compiacere il marito, il figlio, il suocero.
La madre di un marito violento è una suocera che adempie al suo ruolo come accade in ogni cultura patriarcale. Lei è una sorvegliante, non è solo la madre dello sposo, trasferisce obblighi alla nuora e sta attenta affinchè siano perfettamente adempiuti. I mariti maschilisti si fanno scudo della figura della madre per fare in modo che le mogli facciano quanto ordinato. E’ tipico che costoro mettano in competizione suocera e nuora senza che loro stessi decidano mai di prendere posizione. La competizione alimenta l’efficienza delle operaie. Così ci insegnano i capireparto in fabbrica. Lo stesso vale per il maschio che diventa marito senza rinunciare ad essere figlio e padrone.
La madre che non ha grandi strumenti per decidere di rendere il proprio figlio autonomo e perciò sollevarsi dagli obblighi che la legano a lui, solitamente accetta la sfida e corteggia la sua prole con manicaretti e intrusioni nella vita coniugale che spesso portano a conseguenze non bellissime.
E’ il caso di una faccenda avvenuta in questi giorni in provincia di ragusa. Lui prende a botte la moglie. La madre di lei prova a difendere la figlia e la madre di lui fa da sponsor per una ripassata a moglie e consuocera.
In alcuni contesti quando l’uomo picchia la moglie è quest’ultima che viene giudicata colpevole di chissà quali nefandezze. La suocera difende a spada tratta il figlio giustificandone ogni azione. La moglie del figlio diventa così non solo quella che fa un sugo peggiore di quello di mamma’. Diventa anche quella che non pulisce bene i mobili, che tiene le cose un po’ "in confusione" (cito opinioni di paese), che non provvede al marito facendogli trovare il pasto pronto quando lui rientra dal lavoro ma anche dalla passeggiata in piazza, che non sa stirare come si deve, che lascia i colletti delle camicie del figlio sempre un po’ sgualciti, che "manda in giro" il marito con il bottone attaccato male e i calzini bucati, che non lo aiuta nella sua carriera, che si rifiuta di trasferirsi (perchè la donna deve seguire il marito fregadosene del proprio lavoro) o di fare un bel nipotino per puro egoismo, che preferisce leggere libri invece che badare alla casa. Si potrebbe continuare all’infinito giacchè tutte queste ragioni non sono tirate in ballo solo per alimentare una competizione sciocca ma diventano motivo attenuante quando l’uomo picchia la moglie. Come si trattasse di legittima difesa. Sarà per questo che in altre culture le donne partecipano attivamente alla punizione da infliggere alle nuore.
Ecco: se mio figlio picchiasse sua moglie, la sua compagna, stuprasse qualcuna, io non lo difenderei. Inorridisco al solo pensiero. Il fatto che un figlio sia carne della carne di qualcun’altro non vuol dire che non possa autonomamente essere un uomo che sbaglia. Tutti gli uomini sono figli di una donna e se è presumibile che i padri gli siano complici non è tollerabile che le madri odino a tal punto le altre donne, le loro rivali, da ritenere che se il proprio figlio si sia comportato male con loro è perchè se lo meritano.
Donne del genere dovrebbero avere il coraggio di strappare i capelli delle femmine che odiano con le proprie mani e non per interposta persona. Imparate: i figli non appartengono alle madri. I figli non sono di nessuno. Li fai e poi diventano altro da te. A volte è un bene e a volte no. Per loro si discute di condanne sociali precise. Le donne complici restano avvolte da una giustificazione egualmente machista. Una madre piange sempre i suoi figli. Ogni scarrafone è bello a mamma sua. Per una madre un figlio è sempre un figlio…
Se la finiamo con questa retorica da maternità obbligata forse riusciamo a sganciarci anche dalle complicità coltivate per diritto di famiglia.
Una madre può non piangere se il figlio è una cattiva persona. Può non sentirsi in colpa perchè i figli vengono cresciuti da lei, dal padre, dai nonni, dalla strada, dalla scuola, dalla televisione, dai compagni, dalle persone che si incontrano nella vita. Se c’e’ una responsabilità va suddivisa in maniera eguale.
Lo scarrafone è bello per chi è bello. La mamma può decidere di preferire un figlio se è una bella persona perchè anche la maternità è un rapporto che si rinnova. Una scelta quotidiana di relazione tra persone e dunque di scambio, soprattutto se tuo figlio è un adulto e non dipende più dalla tua tetta per essere nutrito.
Per una madre un figlio è un figlio se lo ritiene tale. La sicurezza sulla quale poggia la convinzione di tanti italiani, che qualunque idiozia essi facciano le madri saranno comunque al loro fianco, dovrebbe essere demolita. Un figlio si partorisce ma poi – ripeto – si sceglie. Un figlio non si tollera, non oltre i doveri imposti dallo stato di dipendenza tra familiari. Un figlio bisogna lasciarlo crescere e lasciare che si assuma le sue responsabilità.
Tutto ciò dovrebbe lasciare spazio a nuove forme di solidarietà. Perchè le mamme prima di essere tali sono donne, proprio come le vittime della violenza maschile. Ricordiamocene.
ma no ale 🙂
che dici. ho capito perfettamente. ero io probabilmente che non aveva saputo comunicare ciò che volevo dire. così ho preso spunto da questo fatto di cronaca per raccontare meglio il mio punto di vista.
abbraccio
Il mio discorso nell’altro post faceva riferimento alla mancanza di riconoscimento dell’umanità (libertà, parità) che è in tutti noi. Che l’inferiorità non esiste (e che, ironicamente, se esistesse, tutti i maschi sarebbero inferiori, per dire, quindi, ancora, tutti simili nell’essere umani).
Non vorrei avessi frainteso 🙁
Mi è sembrato un paragone giusto, proprio perché si tende sempre a scollare l’essere madre dall’essere donna. Le parole utilizzate (forti, anche brutte) sono quelle che leggo quando qualcuno parla di donne e inferiorità.