E’ un pezzo che Cristina Morini ha scritto per L’Altro (condiviso via Zeroviolenzadonne):
Il libro La schiavitù delle donne scritto
nel 1869 da John Stuart Mill e da Harriet Taylor – i quali
condividevano oltre alle idee anche la vita – conserva una certa
attualità ed efficacia. Sfrondando per brevità alcuni passaggi che
andrebbero invece inclusi, potremmo affermare che la condizione
economica delle donne determina tuttora, marxianamente, chi esse sono e
come sono, ovvero il loro grado di libertà.
Dopo
molti anni dalla partenza, eccoci qui, insomma, a discutere ancora di
emancipazione femminile e reddito. Le veline e le sexworker che
popolano questo Paese, talmente consapevoli dell’uso di mercato che
fanno di bellezza e sesso da risultare disorientanti, non ci fanno
dubitare nell’idea che sia necessario.
Il senso in cui intendiamo il
tema dell’emancipazione oggi è però, evidentemente, diverso dallo
spunto utilizzato. Restano identici il problema della libertà e il
nostro desiderio di essa. Si sono modificate le donne e anche gli
uomini. Sono mutati i contesti produttivi, le forme e i modi
dell’assoggettamento. Sono cambiati il mercato del lavoro, i processi
di lavorazione e gli oggetti della produzione. Invariate rimangono le
gerarchie implicite nei rapporti di lavoro, nei rapporti tra capitale e
lavoro e nella dimensione sessuata del lavoro. E la società, per parte
sua, non ha fatto sforzi sufficienti per sostenere, mettendo in campo
adeguate politiche pubbliche, quelle differenze che pure il mercato ha
avidamente ingoiato.
In Italia, il tasso di attività delle donne è
cresciuto a ritmo sostenuto, con incrementi anno su anno, dalla seconda
metà degli anni Novanta fino al 2003, spinto dalla crescente
scolarizzazione femminile e dalla terziarizzazione dell’economia.
Qualche anno di stagnazione per poi raggiungere quota 51,6 per cento
nel 2008 (Rapporto Cnel 2008-2009). Rispetto ai tempi di Stuart Mill e
di Taylor sembra dunque che l’emancipazione delle donne non dipenda
esclusivamente dallo stare “nel lavoro” invece che nel matrimonio. Le
donne italiane sono infatti ampiamente parte del mercato del lavoro
contemporaneo – anche se non ancora ai livelli previsti dalla strategia
di Lisbona del 2000 – e tuttavia sono tutt’altro che libere.
Nella
maggior parte dei casi l’attività produttiva delle donne non è in grado
di garantire loro una reale indipendenza economica. Secondo l’Inps, tra
i lavoratori parasubordinati nel 2006 la retribuzione delle donne è
stata pari al 68% di quella maschile. Le donne sono maggioranza in
tutte le svariate forme di contratti atipici che esistono in Italia.
Instabile, precario, poco pagato, il lavoro presente pone un concreto
problema di mancata valorizzazione e di adeguata remunerazione. Perfino
la Banca d’Italia da qualche tempo sottolinea la serietà del problema
salariale del nostro Paese, dove il Pil pro capite è tra i più bassi
d’Europa, più giù della Spagna (dati Fmi, 2009). La questione è
particolarmente complessa per le donne.
La carenza di reale autonomia
economica favorisce il loro ritorno entro circuiti di dipendenza da
strutture tradizionali a cui debbono, come in un gioco di specchi,
continuare a provvedere, si tratti di bambini o di parenti anziani e
malati. La condizione di precarietà difficilmente consentirà loro la
possibilità di agire scelte d’amore in totale autonomia. Facilmente ne
condizionerà l’esistenza e la durata. All’inverso, può forzare ad
adeguarsi a un ménage usurato, poiché l’unica “sicurezza” sembra stare,
ancora come sempre, nella famiglia. Lungi dall’essere un problema
privato questo è un immenso problema politico. Una siffatta situazione
limita infatti fortemente le possibilità di valutazione indipendente,
lo spettro delle possibilità del soggetto. In più di un caso le donne
rimangono costrette nel matrimonio pur stando anche nel lavoro.
E
allora la famiglia, mantenendo pressoché inalterato il proprio ruolo di
ammortizzatore sociale, conserva potere sulle donne, benché
lavoratrici. Le tensioni collegate alle problematiche economiche hanno
influenza tutt’altro che remota anche su fenomeni come la violenza in
famiglia. Secondo i dati Istat del 2006 sono state 690 mila in Italia
le donne che hanno subito violenze ripetute dal partner e avevano figli
al momento della violenza. Il 62,4% ha dichiarato che i figli hanno
assistito a uno o più episodi di violenza. Chissà che cosa ne
penserebbero Harriet Taylor e suo marito, l’economista liberale Stuart
Mill.
E’ così che il tema del reddito prende forma e assume
l’importanza di un obiettivo per il femminismo contemporaneo. Ed è
questo, quello dell’autonomia dalla famiglia e del diritto di scelta
delle donne, all’interno di una diversa concezione della “sicurezza” e
dell’idea di welfare, il primo argomento che vogliamo usare.
Sembrerebbe addirittura un fatto di civiltà, di maturità
socio-culturale, prima ancora che frutto dell’azione di spinte
antagonistiche e conflittuali. Il Basic income network Italia
(www.bin-italia.org), struttura che si è costituita da poco nel nostro
Paese allo scopo di promuovere la consapevolezza del significato
virtuoso dello strumento del reddito, punta proprio sulla necessità di
contaminare l’opinione pubblica, dissipando equivoci e al contrario
generando consensi il più possibile allargati sul tema.
Le donne non
vengono sostenute dalla “pubblica istituzione” nelle necessità
richieste dai loro percorsi, ma viceversa difese da branchi di
immigrati “clandestini” resi di questo colpevoli per assecondare il
crescente risentimento collettivo, provviste di una colf, che benché
straniera verrà, in questo caso, “sanata”, costrette più a lungo al
lavoro nonostante i molti ruoli che svolgono, salvate dallo stalking
dentro l’idea del controllo e della punizione che permea ormai
completamente il presente. La precarietà è tutt’altro che un concetto
opaco, essa è incarnata nella vita, nei corpi, di molte donne e uomini.
Ha agevolato, in questi anni, il progressivo esaurimento della dinamica
salariale – egualmente fuori e dentro i luoghi di lavoro. In un
contesto strutturalmente precario, reddito e salario smettono di
opporsi, la rivendicazione di reddito diventa condizione minima per
pensare la rottura rispetto a modelli usurati e mutilanti come quelli
descritti, e forma di potenziamento dei processi di soggettivazione e
di autovalorizzazione, nonché di distribuzione della ricchezza
collettivamente prodotta.
Il
secondo argomento è infatti la riappropriazione del valore prodotto
collettivamente e non distribuito. A partire, per le donne, dal lavoro
di cura che costituisce un esempio particolarmente interessante.
Facendo leva su amore e dedizione, le donne si sono fatte carico da
sempre delle inadeguatezze delle forme tradizionali di remunerazione
del lavoro. Nell’epoca dello stagismo di massa, del consumo e del
"linguaggio come lavoro", della costruzione di immaginari atti a
compensare la miseria della misura con cui il lavoro viene pagato, dei
tassi di crescita della ricchezza fondati sulla conoscenza,
l’assistenza, sul lavoro migrante invisibile, sulla precarietà
generalizzata, la storica questione del lavoro gratuito – il lavoro non
pagato delle donne – assume nuova attualità. Esso diventa un
interessante archetipo della produzione contemporanea.
Quando
ragioniamo della dis-misura del lavoro attuale nel ciclo
dell’accumulazione flessibile, vediamo che il lavoro non pagato si
presta a descrivere un processo che connota l’essenza dell’ attività
lavorativa nella sua generalità, laddove “la vita è destinata a
lavorare per la produzione e la produzione a lavorare per la vita”. Nel
momento in cui il processo produttivo ingloba conoscenza e affetto,
desiderio e corpi, motivazioni e opinioni, risulta più evidente come
non possa risultare pagato ciò che viene effettivamente ceduto.
Se
misura del valore del lavoro di cura delle donne può darsi, esso si ha
solo per negazione, si deduce dal risparmio sul welfare che consente.
L’equilibrio sociale dipende in maniera sempre più evidente dal ricorso
a una serie di figure che assolvono funzioni delicate e imprescindibili
per la sopravvivenza della specie dentro un quadro di progressivo
disimpegno della compagine. Cosicché le caratteristiche di organismo
social-familiare che da sempre rappresentano l’Italia vengono esaltate
dal biocapitalismo, attraverso un processo di completa privatizzazione
dei bisogni sociali primari.
La sostenibilità della vita viene affidata
a una lavoratrice migrante, e mentre ciò consente, da un lato,
risparmio di interventi per lo Stato, dall’altro canalizza risorse su
nuovi mercati del lavoro. In un certo senso, esattamente come la
finanza sostituisce e diventa forma di assicurazione sociale privata,
anche il lavoro di cura della badante, salariata della famiglia,
assomiglia a una canalizzazione di reddito su nuovi mercati con l’esito
di valorizzare l’esistenza.
Declinare il reddito da un punto di
vista di genere significa allora tenere in conto il lavoro non pagato
delle donne e del suo "divenire modello" del lavoro contemporaneo.
Significa tenere conto del biowelfare, del welfare delle "risorse
umane" su cui si basa l’intera organizzazione sociale.
l’articolo offre spunti interessanti ma per uno terra terra come me che non ha sentito mai parlare di foucault 😉 rimane troppo fumoso.
io preferirei azzardare delle affermazioni politiche e delle proposte programmatiche, anche se so che alcune di esse mi mettono a rischio linciaggio :-((
io dire che strutturalmente si può dire:
A) il capitalismo nega il valore di qualsiasi attività non monetarizzata. Si pensi ad esempio alla negazione dell’intellettualità artistica rispetto a quella tecnologica(la riforma univ gelmini è anche questo). Il lavoro di cura , che è a stragrande maggioranza femminile, è altro punto dolente come evidenziato dall’articolo. Combattere il capitalismo è una necessità di Sistema (e strizzerei l’occhio : anche i blogger fanno gran lavoro , non finanziato da nessuna legge alll’editoria come i grandi giornali dei confindustriali o dei partiti)
B) bisogna difendere il modello del welfare socialdemocratico europeo al di là della condivisione o meno della socialdemocrazia. Sarà poco ma tra qualche anno, visto l’andazzo neoliberista, la socialdemocrazia potrebbe diventare un’utopia
come proposte concrete :
1) chiedere il welfare universale. la cassa integrazione è qualcosa che aveva come modello il lavoratore maschio, settentrionale, della grande impresa. Bisogna tutelare anche altre categorie : i precari e tra questi tante parte è costituita da donne, giovani e meridionali. Tutti devono avere un minimo di reddito affinchè non siano ricattabili.
2) bisogna prendere atto che la società è cambiata e cambiare i destinatari dei finanziamenti. E’ inutile oggi finanziare le borse studio in rosa visto che le donne sono in maggioranza tra gli studenti e tra coloro che terminano gli studi(semmai , se proprio si vogliono spendere soldi nel settore, ormai bisognerebbe finanziare i maschi) e credo persino che bisogna tagliare i finanziamenti all’imprenditoria femminile visto che le donne raggiungono la cifra del 25%.
Questi fondi dovrebbero essere re-investiti in assistenza ad altre categorie, dapprima le madri-lavoratrici.
Poi in quei settori tecnici dove ancora vige il pregiudizio anti-femminile (quante donne sono idraulico od elettricista?) invece che in settori come lo studio o l’imprenditoria dove essere donna non è un problema. Tra l’altro un idraulico guadagna molto meglio di un insegnante di lettere… e finalmente pure io potrò sognare di chiamare l’idraulic* come si vede nelle pubblicità 🙂