Vi racconto di una esperienza – diciamo differente – a proposito di stupro e soluzioni. Lei è stata ribattezzata Mara, è una ragazza di bologna che dopo aver subito una aggressione a scopo di stupro è diventata collante per un esercizio quotidiano di solidarietà tra donne, femministe, lesbiche, che l’hanno accompagnata per tutto il processo e che a lei hanno dedicato un account mail che inizia per "maragridaforte" e un gruppo che si chiama "Quelle che non ci stanno". Nessun rumeno (l’aggressore è il cosiddetto "padre di famiglia" italiano) e nessuna ronda. Tanta rabbia, un contesto completamente diverso (leggerete il perchè) e una analisi cruda che ha trasformato un tentativo di stupro in impegno politico volgendo una esperienza assai negativa in un umano sodalizio tra donne che perseguono una loro idea di giustizia e che includono le loro pratiche nella rete bolognese femministe e lesbiche che darà vita alla manifestazione notturna del 7 marzo. Comunque la pensiate, questa è la lettera – piuttosto eloquente ed attuale – che Mara ha scritto un anno dopo l’aggressione.
SONO MARA, LA RAGAZZA AGGREDITA AL PARCO NORD IL 26 AGOSTO SCORSO.
Sono la ragazza del parco nord o almeno così mi hanno definita. I giornali, i carabinieri e vari esponenti politici durante i loro dibattiti. Il mio caso è servito per fare statistiche o rivendicare falsi aiuti e disponibilità mai giuntemi concretamente. Hanno tentato di stuprarmi in via Stalingrado il 26 agosto all’uscita
della festa dell’unità, luogo a detta dei cosiddetti compagni sicuro,
“alle nostre feste solo brava gente”.
Permettetemi di dirvi cari compagni che nessun luogo per le donne può
ritenersi sicuro, non lo sono le mura domestiche figuriamoci se può
esserlo uno spazio dove certo prioritaria non è la sicurezza per le
donne. Fino a quando non si riconoscerà che la violenza alle donne non è un
fatto privato, che non si risolve con qualche lampadina in più, ma con
l’impegno comune per rompere il silenzio da cui si alimenta, noi donne
continueremo ad essere sempre più esposte.
Ma io non sono la ragazza del parco nord o almeno non solo, il mio vissuto raccoglie e racconta molto di più. Vengo da un paese dove gli stupri e le violenze vengono tenuti
nascosti dentro le pareti di casa, dove ogni sopraffazione fisica e
psicologica su una donna è quotidianità, dove non desta scalpore
soprattutto se viene consumata da un uomo che ti sta vicino.
Sin da ragazzina mi sono ripromessa che mai mi sarei resa complice di
una violenza non denunciandola e non isolando in tutti i modi chi la
compie. Non avrei mai accettato di avere accanto a me un uomo che in
qualunque modo avrebbe potuto agire violenza su una donna, e su di me
per prima. E credetemi non è cosa semplice in una famiglia con prevalente presenza maschile.
Con il tempo ho scoperto che l’omertà e l’indifferenza che vedevo in
chi abitava nel mio paese era la normalità assoluta in ogni luogo, in
ogni angolo del pianeta. Ho cominciato a Bologna a fare politica con le
donne, sono cresciuta tanto , ho imparato a dare valore a tutta me
stessa al mio corpo e alla mia testa.
Ho conosciuto donne che hanno subito violenza, che hanno denunciato,
che hanno urlato la propria rabbia e nel momento in cui sono state
aggredite, violate e insultate l’ hanno trasformata in forza per
difendersi, per liberarsi. Io a loro dico grazie, perché queste donne mi hanno dato la forza di
urlare e di salvare il mio corpo quando la notte del 26 agosto hanno
tentato di stuprarmi.
La violenza che ho subito ha avuto solo un inizio quella notte poi è continuata inarrestabile e continua ancora.
Aggressione, carabinieri, pronto soccorso, interrogatori, confronto, stampa. Ho visto sulla prima pagina dei giornali la mia foto, i giornalisti mi
aspettavano fuori dalla porta di casa e si presentavano sul posto di
lavoro. Ma non ero io la complice o colpevole di un delitto.
Ho dovuto lottare per la mia credibilità, attraverso quasi
un’indagine sulla mie abitudini, sulla mia socialità e sulla mia
occupazione.
Mi chiedo se non avessi avuto tanti testimoni, se non avessi avuto
un’occupazione stabile, se sul mio corpo non fossero stati evidenti
graffi e in particolare sul collo il segno inconfondibile di un tentato
strangolamento, se fossi un’immigrata senza permesso di soggiorno, una
disoccupata, una senza fissa dimora, tossicodipendente, una prostituta
quale sarebbe stata la mia credibilità?
Mi chiedo, perché una donna violentata deve continuare a difendersi
mentre ad uno stupratore vengono riconosciute delle attenuanti.
Il mio aggressore ha tutte le caratteristiche riconosciute comunemente
affidabili è bianco, italiano, buon padre di famiglia. Assieme ai suoi
avvocati ha dichiarato di avermi scambiato per una prostituta,
nell’intento palese di scagionarsi e fornire un’attenuante. Come se il corpo di una prostituta fosse oggetto di violenza socialmente e giuridicamente e più comprensibile.
In quel momento ho pensato quante altre aggressioni sono avvenute in quel luogo e in quel modo.
Quante taciute e rimaste nel silenzio, quanti stupratori non
identificati che continuano la loro vita nella totale accettazione di
chi hanno accanto, le donne che non denunciano si trovano di fronte ad
una scelta obbligata legata alla loro condizione sociale ed economica. In questo stato non esistono diritti per le immigrate clandestine.
Ma lo stupro e la violazione del corpo non può lasciare impuniti chi le
compie perché la vittima non è considerata un soggetto di diritto.Certo
è che se i tribunali ritengono un attenuante stuprare una prostituta e
la nostra società civile lo avvalla allora altri sono gli strumenti di
difesa che noi donne e lesbiche dobbiamo inventare e sperimentare. Io per difendermi ho usato gli strumenti che tutte noi donne possediamo
e ho urlato, scalciato graffiato. Ma ho anche scelto di denunciare il
mio aggressore e di raccontare la mia esperienza.
Come me altre. Vorrei ricordare la grande forza che è arrivata a tutte
noi da Paola di torre del lago stuprata perché lesbica. La forza di
una donna stuprata da due ragazzi che conosceva bene insospettabili in
un appartamento qui a Bologna. Attraverso la mia esperienza sento di poter riaffermare con forza una
convinzione che già avevo maturato all’interno del collettivo
femminista e lesbico di cui faccio parte, il collettivo clitoristrix, e
cioè che difendersi e denunciare sono strumenti da cui non si può
prescindere.
Quando parlo di denuncia non mi riferisco elusivamente ad un percorso
legale, necessario però per rompere il meccanismo di complicità che
instilla la paura nelle donne ma anche la necessità di dire, nominare ,
raccontare e condividere con altre donne un’esperienza che solo così
può essere superata e diventare patrimonio comune come strumento di
autodifesa e di resistenza.
L’indifferenza e la complicità delle istituzioni che discutono ,ma non
agiscono, promettono finanziamenti ai centri delle donne e poi li
negano, non annebbiano la verità che dobbiamo insieme restituire a
tutte le donne che si espongono e che mettono in gioco se stesse. Per questo insieme saremo il 2 dicembre a Crevalcore luogo di residenza del mio aggressore perché le donne non dimenticano.