"Le lotte politiche non sono corporative. Quando scendo in piazza non posso dimenticare di essere femminista, antifascista, antirazzista, antisessista, anticlericale.
La formula da social forum non va bene perché c’e’ troppa gente con la quale non voglio avere a che fare. La formula del gay pride non va bene perché molti gay sono misogini e nelle loro battaglie legittimano il concetto di famiglia che condanna me ad avere un unico destino di moglie e madre.
La formula del corteo antifascista non va bene perché in piazza arrivano fior di machisti che mostrano i muscoli e fanno azioni “virili” che non si addicono alle mie convinzioni.
La formula dei cortei antirazzisti non va bene per lo stesso motivo e perché a marciare con gli uomini di altre razze e altre culture legittimo le violenze che essi compiono contro le donne.
Non mi piace molto neppure avere a che fare con certi compagni dei centri sociali che legittimano comportamenti sessisti, fanno finta di non vedere se un “compagno” picchia in pubblico una “compagna” e usano le donne solo in maniera decorativa per addobbare i carri delle manifestazioni o per piazzarle in apertura del corteo così la foto nei quotidiani è garantita.
Non mi piace partecipare a nulla che non sia coerente con le mie idee ed è per questo che non salirò sul palco a prendermi il mio pezzo di visibilità concesso dalle associazioni istituzionalizzate. Non rivolgerò la parola a nessuno che possa incrinare la mia coerenza perché io voglio vedere solo quello che ci divide e non voglio contaminare. Voglio accentrare, fagocitare. Io non voglio attraversare mantenendo la mia identità, voglio il mio spazio assoluto senza opposizioni di nessun tipo, senza antipatici dibattiti, senza amore per la complessità.
Esigo il massimo della semplificazione. C’e’ la destra e c’e’ la sinistra. C’e’ un centro e poi ci sono io che sono una cosa a parte e non voglio avere a che fare con nessuno. Tutto ciò che non sta nella mia idea di “sinistra” dovrà stare certamente a destra.
A me piace la frammentazione perché se io sto frammentata emergo. Se invece mi accorpo allora sparisco. Perciò mi piace creare scissioni addirittura oltre le mie stesse parole d’ordine. Perciò mi piace che tutt* vengano a me perché la mia parola è verbo e io faccio miracoli, il mio nome è gesù.
Io sono fatta così, non riesco a mantenere aperta una dialettica anche aspra. Se non sono d’accordo con qualcun* lo guardo storto, non ci parlo più, anzi trovo ogni pretesto per descriverl* come il più infame o la più infame dei/delle compagn*.
Questo si chiama separatismo strategico, nel senso che strategicamente mi separo – quando voglio – persino da me stessa ed esigo di riunirmi in altre occasioni. Nella mia lotta politica i matrimoni di interesse vanno bene solo per area. Area antagonista. Già le associazioni mi stanno strette e ogni cosa che ha a che fare con il termine “istituzionale” mi procura una allergia permanente.
Do’ grande valore al termine autogestione, autofinanziamento, autodafe’. Che non basta autogestire e autofinanziare e fare da me tutta la mia precaria vita. Qui la mia coerenza comincia a fare acqua: E’ un obbligo morale quello di comprare bandiere, contribuire alle spese dei processi dei compagni anche se hanno fatto emerite stronzate che io non condivido, andare ad improponibili cene sociali in cui per 5 euro ti danno pasta scondita e un po’ di insalata con le verdure di scarto della coop. E’ un obbligo morale non bere coca cola, non comprare scarpe della nike, mobili dell’ikea, anche se costano in maniera decente e qualche volta ci sono le offerte che a 20 euro ti compri un letto con il materasso dentro.
E’ un obbligo morale vestirsi non troppo da femmina perché se sei queer il tacco a spillo non ci si abbina. E’ d’obbligo fare la faccia incazzata e grugnire quando vedi la polizia, anche se c’e’ uno che è figlio della tua vicina di casa e ci sei cresciuta assieme. E’ d’obbligo sfondare nei cortei perché un metro in più rispetto al percorso stabilito mi cambia la vita. Perché le prove di forza forgiano il mio carattere e se io non avanzo i poliziotti avrebbero speso in manganelli inutilmente.
E’ un obbligo morale fare la rivoluzione anche mentre piscio la mattina perché se sto rilassata un attimo il nemico potrebbe travolgermi."
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La militanza è un lavoro duro, bisogna saperlo fare con destrezza. Ci vuole energia e qualche volta bisogna anche essere parecchio stronz*. Ciascun* di noi si crea paradisi che ospitano le nostre idee. Rifugi segreti in cui tutto deve sembrare perfetto, in cui tutti devono sembrare fantastici e terribilmente intelligenti. Abbiamo talmente bisogno di stare in branco che alla fine ci trasformiamo in clan senza più neppure la capacità di guardare dentro di noi e senza la voglia di prenderci un po’ per il culo. Ci prendiamo troppo sul serio, come un branco di soldati in guerra che non si concedono neppure il lusso di uscire fuori dalle trincee per mandarsi a fare in culo reciprocamente. Che talvolta ce n’e’ davvero bisogno. Stiamo stretti e complici con la paura del pericolo che fuori incombe. Diventiamo corporazione, diventiamo lobby, diventiamo clero, diventiamo massoneria, diventiamo integraliste con un burka ideologico, carbonari dell’oggi che si autotutelano come e meglio delle famiglie.
Le donne spesso sono uccise in famiglia, in luoghi chiusi, che si ritengono protetti. Questo dovrebbe bastare per non fare mai spegnere la nostra capacità di giudizio critico. Il segreto sta nel non appartenere. Il segreto sta nell’essere sempre convinti di non dovere attraversare le esperienze per affiliazione e dipendenza.
Le violenze stanno spesso in famiglia. Così come tra tanti e tante splendid* compagn* ogni tanto c’e’ chi dice o fa qualche cazzata. Impariamo a guardare e a parlarne. Così capirete che ogni gruppo reagisce al dissenso allo stesso modo: con l’espulsione, con il mobbing. Fino a che non riusciamo a sviluppare un linguaggio e una dinamica di gruppo differente ho il dubbio che non riusciremo ad essere credibili mentre proponiamo modelli di società possibili.
Anzi: ce l’abbiamo noi un modello di società diverso? Come comporremo noi uno stato? Un governo? Vorremmo uno stato e un governo? Come tratteremmo le opinioni delle minoranze? Qual’e’ il nostro esempio di democrazia? Come intendiamo la partecipazione? Voto a maggioranza? Maggioritario secco con premio? Unanimità obbligata? Metodo del consenso? Chi gestisce il "cambiamento"? Un organigramma gerarchico? Un leader maximo? Un presidente dagli ampi poteri? Un gruppo delegato alle decisioni? Come gestiremmo le questioni che ci riguardano? Su quale idea innovativa si basano le nostre reciproche relazioni? Qual’e’ la novità che noi portiamo? In che consiste il nostro modo di fare politica?
Non fraintendetemi. Il mio modello di società sta a sinistra, una mia sinistra ideale che forse non ha nulla di originale. Anzi sta a metà tra l’anarchia e il situazionismo, contro ogni forma di autoritarismo, contro ogni forzatura e schiacciamento, contro ogni omicidio della complessità, contro la banalizzazione e la presunzione, contro ogni forma di dogmatismo. Sto con tutt* quell* che sono abbastanza radicali da essere persino imprevedibili nelle pratiche e nelle azioni, che sanno rinnovare i propri linguaggi e che non pensano per stereotipi militanti. Sto con quell* con un cervello indipendente che non applica rimozioni per desiderio di appartenenza. Ce ne sono tant* che sento compagn*. Ma per mantenermi un po’ più "autonoma" e per saperne di più è necessario che vada un po’ a parlare con la salumiera all’angolo e poi con l’ortolano. Non parlo di negozianti lontani mille miglia. Parlo dei vicini di casa. Almeno con quelli dovrò pur scambiare qualche parola, che da sola non sono in grado di cambiare il mondo. Altrimenti è meglio che me ne sto a casa.
come hai ragione…