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Le origini e le caratteristiche della politica sessuale fascista (IV° paragrafo – Il patriarcato fascista – da La storia delle donne – Laterza Edizioni)

 Affermare che per il controllo delle donne Mussolini abbia sviluppato un sistema caratteristico non vuol dire che non esistesse in questo senso un piano già pronto quando marciò su Roma nel 1922. il fascismo italiano fu un movimento camaleontico che cambiava colore secondo i potenziali alleati e il mutevole terreno politico del primo dopoguerra. Nel 1919 questo movimento appena nato aveva abbracciato le posizioni degli intellettuali futuristi, pronti a sbeffeggiare la morale convenzionale sostenendo il divorzio e la soppressione della famiglia borghese. Nello stesso anno la voce del suo populismo opportunistico parlò in favore del suffragio femminile, ma tali posizioni vennero presto abbandonate di fronte al movimento dei reduci e all’avversione mostrata al suo interno nei confronti del lavoro femminile dai gruppi sindacali, nonché al rigido anti-femminismo cattolico-rurale degli agrari che nel 1920-21 appoggiarono gli assalti squadristici compiuti dalle camicie nere contro le leghe e le cooperative socialiste. Dopo il 1923 la misoginia fascista venne rafforzata dal duro autoritarismo degli alleati di Mussolini provenienti dal partito nazionalista. Costoro sostenevano il criterio de “l’interesse dello Stato” cui si sarebbe dovuto subordinare ogni “particolarismo”, e la loro concezione dello Stato forte e competente riuniva antropologi criminali, studiosi di igiene sociale, medici, fautori della protezione dell’infanzia e altri riformatori che, a lungo frustrati dall’inazione liberale, speravano di infondere vita ai loro progetti di miglioramento della “stirpe” italiana. Dopo il Concordato con il Vaticano del 1929, istituzioni, personale e tradizioni della Chiesa cattolica si dedicarono al rafforzamento dell’antifemminismo fascista.

Il fatto che la dittatura mussoliniana potesse elaborare una politica vera e propria verso le donne in una società sviluppata in modo così uniforme fu certamente dovuto a questo eclettismo dottrinale. Lo stesso Mussolini si appropriò di un luogo comune quando raccomandò ai suoi seguaci di non “discutere se la donna sia superiore o inferiore; constatiamo che è diversa” – e il ragionamento poteva giustificare qualsiasi posizione, nel nostro caso citato, tanto la concessione del voto alle donne quanto il contrario. Le opinioni fasciste sulle donne coprivano in tal modo tutta la gamma delle variazioni, dalla misoginia di origine rurale di Mussolini (le donne sono angeli o demoni, nate per “badare alla casa, mettere al mondo dei figli e portare le corna”) alla raffinata teoria delle essenze complementari del filosofo neohegeliano Gentile (impastoiate in dettagli insignificanti le donne, “natura infinita”, “principio primordiale”, sono incapaci di trascendenza). Una grossolana polemica positivistica denunciava l’inferiorità biologica delle donne, mentre alcuni pragmatisti, come Giuseppe Bottai, il principale tecnocrate del fascismo, ne difendevano cautamente l’uguaglianza motivandola con il fatto che i membri della nuova élite fascista avrebbero avuto bisogno di compagne e madri valide per allevare i loro figli. Un immenso divario separava ad esempio il cattolico fanatico Amadeo Balzari, che nel 1927 lanciò una campagna nazionale per “moralizzare” l’indecente abbigliamento femminile, dall’ex futurista Umberto Notari, il celebre giornalista e redattore attivo a Milano i cui eccitanti racconti – ad esempio “La donna tipo tre” (1928), cioè né “cortigiana” né “madre-moglie” – parodiavano e contemporaneamente pubblicizzavano la “nuova donna” italiana. Allo stesso modo, le sedicenti “ femministe latine” come la brillante Teresa Labriola, che faceva i salti mortali per conciliare fascismo e femminismo, erano assai lontane dai compiaciuti funzionari le cui battute antifemministe circolavano nei salotti romani. Ciò che costoro condividevano era tuttavia il fatto di credere che lo Stato avrebbe dovuto dispiegare il suo potere per affrontare risolutamente le questioni di ordine privato ed etico al pari di quelle politiche ed economiche. A vantaggio della politica di ricostruzione nazionale essi trascuravano le propri differenze di valutazione in merito alla diversità femminile, e le implicazioni che queste avevano in campo politico.

Alla fine, tuttavia, furono le stesse azioni compiute dal regime fascista per consolidarsi al potere a determinare nella società italiana tra le due guerre lo schema globale di comportamento nei confronti delle donne. Sul piano politico il fascismo si trasformò da movimento “eversivo” in governo monopartitico alla metà degli anni ’20, e da regime autoritario scarsamente radicato nella società civile in Stato di massa nel decennio successivo; in politica economica passò dal laissez-faire alle politiche protezionistiche nella seconda metà degli anni ’20 e, sulla scia della depressione e della guerra d’Etiopia, nel 1936 aspirò a una compiuta autarchia. Tale evoluzione fu preceduta e accompagnata dalla conferma delle alleanze sociali strette dalla dittatura con le forze conservatrici, vale a dire il grande capitale e i grandi proprietari terrieri, la monarchia, i militari e la Chiesa cattolica. In cambio, il regime sottomise il partito fascista alla burocrazia di Stato e usò quindi il PNF come cinghia di trasmissione per raggiungere quei gruppi sociali – gli operai, i contadini, i piccoli proprietari – i cui interessi erano stati ignorati – quando non furono sistematicamente violati – sul piano economico, integrandoli in un ampio ancorché superficiale consenso politico.

Per rassicurare questa alleanza conservatrice la dittatura esercitò una pressione incessante sui salari e i consumi, e mentre lo sviluppo proseguiva negli anni ’30 si accentuava il carattere dualistico dell’Italia. Ad un estremo c’erano un’agricoltura inefficiente e larghi strati di piccole imprese, le cui precarie condizioni venivano travisate dai peana ufficiali in onore delle ideologie antiurbane; all’altro estremo si trovava un settore industriale estremamente concentrato, salvato economicamente dall’aiuto statale e stimolato dal riarmo dopo il 1933. Alla metà  degli anni ’30, si spendeva per le forze armate circa il 10 per cento del reddito nazionale e perfino un terzo delle entrate del governo. Contemporaneamente, la quota di reddito nazionale spettante ai lavoratori continuava a restringersi. Un indicatore dell’economia fascista dei “bassi salari” è costituito dal fatto che nel 1938 il reddito reale degli operai industriali era più basso del 3 per cento rispetto al livello del 1929, e del 26 per cento rispetto al massimo postbellico del 1921. nel 1938 una famiglia media spendeva in alimenti più della metà del proprio reddito, a paragone del 25 per cento negli Stati Uniti. Tutto considerato, tra l’inizio degli anni ’20 e lo scoppio della II guerra mondiale l’Italia fu l’unico paese industrializzato in cui i salari si mantennero tendenti verso il basso. Il tenore di vita misurato in base ai bilanci alimentari, all’acquisto di beni durevoli e alla disponibilità di pubblici servizi, la collocava assai indietro rispetto ad altre nazioni industrializzate.

Questa politica ebbe inevitabilmente ripercussioni di vasta portata sulla condizione delle donne italiane, specialmente sulla maggioranza operaia e contadina. Per realizzare la sua politica demografica, il fascismo tentò di imporre un maggiore controllo sul corpo femminile, e in particolar modo sulle funzioni riproduttive. Cerò allo stesso tempo di preservare le vecchie concezioni patriarcali della famiglia e dell’autorità paterna. Per sostenere la compressione dei salari e dei consumi, esso sfruttò le risorse economiche familiari deliberatamente e in misura fuori dal comune per un paese che si trovava già avanti sulla strada dell’industrializzazione. Pretese perciò che le donne agissero da consumatrici avvedute, da amministratrici domestiche efficienti e da astute fruitici del sistema di assistenza sociale – se volevano strappare a quest’ultimo i servizi di cui era particolarmente avaro – e inoltre che lavorassero spesso nell’economia nera per arrotondare le entrate familiari. Allo scopo di limitare l’impiego di manodopera femminile sottopagata  in presenza di un’elevata disoccupazione maschile, e mantenere tuttavia una riserva di lavoratori a basso prezzo per l’industria, il regime escogitò un elaborato sistema di tutele e divieti teso a regolare il lavoro delle donne. Infine, per rendere queste ultime disponibili alle pretese sempre più complesse rivolte nei loro confronti e approfittando contemporaneamente del loro desiderio di identificarsi con la comunità nazionale e di servirla, il regime giocò la carta della modernità pur sempre denunciando i suoi risvolti femministi. Entro la metà degli anni ’30 esso aveva sviluppato organizzazioni di massa che rispondevano al desiderio di impegno sociale da parte delle donne – soprattutto le giovani e le borghesi – ma scoraggiavano la solidarietà femminile, i valori individualistici e il senso di autonomia promossi dai gruppi emancipazionisti dell’era liberale.

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