La politica sessuale fascista fu sotto molti aspetti la peculiare risposta italiana al collasso verificatosi durante la Grande Guerra di ciò che lo studioso inglese di politica economica John Maynard Keynes definì nel 1919 come il modello vittoriano di accumulazione capitalistica. Fondato sulla massima riduzione dei consumi e sull’esercizio ristretto dei diritti civili, e rafforzato da una ideologia della scarsità, il liberismo europeo precedente alla I° Guerra Mondiale si era sviluppato esigendo dai cittadini una rigorosa disciplina sociale e costumi puritani. Il grande movimento d’emancipazione delle donne europee, già evidente nei movimenti suffragisti prebellici, ma che aveva le sue origini più profonde nella rivoluzione demografica e nella diffusione delle idee liberali alla seconda metà del secolo, divenne irreversibile quando milioni di donne furono mobilitate dall’economia di guerra. In seguito la presenza femminile crebbe nei lavori impiegatizi, e si verificò fra gli abitanti delle città una maggiore libertà dei costumi sessuali e sociali legata alla cultura di massa.
Nello stesso momento in cui combattevano queste spinte emancipative, i governi si trovarono a fronteggiare complesse questioni che i politici rubricavano come “problema della popolazione”. Esse andavano dal calo della fertilità, e da quelle che gli operatori sociali definivano “famiglie difficili”, alla concorrenza sul lavoro tra uomini e donne e all’impossibilità di prevedere il comportamento dei consumatori. In pratica tutti questi problemi erano connessi alla molteplicità di ruoli che le donne svolgevano nella società contemporanea in qualità di madri, mogli, cittadine, lavoratrici, consumatrici e utenti dei servizi sociali erogati dalla Stato. Le soluzioni proposte misero inevitabilmente i politici di fronte alla complessa questione riassunta nell’incisiva frase della sociologa e riformatrice sociale svedese Alva Myrdal: “Un sesso [costituisce] un problema sociale”.
Nei decenni tra le due guerre un duplice impegno si prospettò pertanto ai governi occidentali: la democratizzazione da una parte e la “questione demografica” dall’altra. Essi reagirono dapprima concedendo il suffragio femminile, e in seguito promuovendo nuovi discorsi pubblici sulle donne, legiferando in merito al posto di queste ultime nel mercato del lavoro e ricodificando la politica della famiglia. In questo modo, la ristrutturazione dei rapporti tra i sessi andò di pari passo con ciò che Charles Maier definì come una “ricostituzione” delle istituzioni economiche e politiche allo scopo di garantire gli interessi conservatori contro l’incertezza economica e la democratizzazione della vita pubblica. La misura in cui tale ristrutturazione riuscì ad assumere un aspetto autoritario o democratico, a reprimere o a cooptare i lavoratori, a permettere alle donne di progredire ovvero ad essere apertamente antifemminista, variò secondo il carattere delle coalizioni di classe al potere e le loro prese di posizione sulle ampie questioni dell’assistenza sociale e della redistribuzione economica. Il suo esito finale determinò aspetti significativi del rapporto delle donne nei confronti del capitalismo interventista statale manifestatosi negli anni ’30.
Nell’Italia fascista – e in seguito, forse, anche nella Germania nazista – il regime affrontò il duplice problema dell’emancipazione femminile e della politica demografica in chiave di salvezza nazionale, sfruttando vecchie tradizioni dottrinali del pensiero mercantilistico. Esse avevano acquistato nuovo credito dal settimo decennio dell’800 in poi perché le èlite europee, reagendo all’accresciuta concorrenza internazionale e all’aumento dei conflitti di classe, cercarono di proteggere i mercati interni dalle merci straniere e di potenziare la capacità di esportazione. Al pari dei loro precursori ottocenteschi che avevano teorizzato la necessità di una “moltitudine di poveri laboriosi”, i neomercantilisti si preoccupavano di ottimizzare il totale della popolazione per fornire manodopera a basso prezzo, soddisfare le esigenze militari e mantenere alta la domanda interna. Alla svolta del XX secolo a questi obiettivi si aggiunsero preoccupazioni ulteriori circa il declino del tasso di fertilità, le minoranze etniche che con le loro caratteristiche razziali e le lotte nazionalistiche si presumeva indebolissero l’identità dello Stato nazionale, e le differenze di fertilità all’interno, le quali minacciavano di moltiplicare i cosiddetti meno idonei mentre le èlite si riducevano costantemente di numero. Alla vigilia della Grande Guerra attorno alla questione demografica si andava affermando una nuova politica biologica, permeata da una concezione della vita come lotta mortale per l’esistenza propria del darwinismo sociale, la quale si proponeva di elaborare programmi eugenetici e relativi al benessere sociale secondo i fini della politica statale. Questi erano fondamentalmente due: sostenere un potere declinante sul piano internazionale e assicurare il controllo sulle popolazioni interne. Nella misura in cui la diversità etnica e l’emancipazione della donna furono identificate come ostacoli, la politica biologica venne agevolmente permeata dall’antifemminismo e dall’antisemitismo.
Le reazioni del fascismo italiano, che potrebbero essere definite integralmente autoritarie e antifemministe, si chiariscono meglio contrapponendo loro ciò che gli osservatori contemporanei consideravano l’esatto opposto, vale a dire la politica demografica svedese. Quest’ultima venne formulata dopo che i socialdemocratici, vinte le elezioni del 1932 e istituita nel 1935 la Reale commissione per la questione demografica svedese, furono in grado nel 1936 di consolidare la propria maggioranza in entrambi i rami del Parlamento, aprendo la strada l’anno successivo alla cosiddetta “sessione delle madri e dei bambini”. A socialdemocrazia svedese era cosciente almeno quanto l’élite fascista dell’importanza rivestita dalla popolazione nel mantenimento della potenza statale, dal momento che nel 1933 la stessa Svezia possedeva appena 6,2 milioni di abitanti. Per superare la “crisi” provocata dal calo del tasso di fertilità, lo Stato svedese era disposto ad annullare le differenze tra potere pubblico e privato, tra autorità della famiglia e del governo e tra interessi individuali e statali, che avevano guidato la concezione liberale della politica e delle relazioni tra i sessi nel XIX secolo.
Oltre a queste, poche erano le somiglianze. I socialdemocratici svedesi, sostenuti da un’ampia coalizione liberale che comprendeva tanto gli agricoltori e le femministe quanto la classe operaia, unirono all’obbiettivo della sanità pubblica un basto programma di riforme economiche e sociali. La politica demografica svedese, come venne definita dai suoi principali artefici Gunnar e Alva Myrdal, aveva come scopo fondamentale una popolazione sana e stabile. Ciò comportava la ricerca di mezzi non coercitivi “per far astenere un popolo dal non riprodurre se stesso”, e presupponeva una “forma mite di nazionalismo” coerentemente con l’apertura svedese nei confronti dell’economia internazionale. Le riforme erano comunque il principale strumento per convincere gli svedesi del fatto che i loro interessi privati sarebbero stati salvaguardati anche perseguendo l’interesse pubblico. Con lo stesso spirito di equità redistributiva che ispirava gli aumenti salariali e la tutela delle aziende agricole, il governo socializzò alcuni importanti settori del consumo allo scopo di rendere uniformi gli oneri derivanti dall’allevamento dei figli. I provvedimenti principali riguardarono i servizi in natura, dagli alloggi a basso prezzo alle mense scolastiche gratuite. Lo Stato affermò anche il proprio interesse a sostituire le strutture familiari patriarcali con strumenti più razionali, efficienti e giusti per aiutare le donne a bilanciare gli oneri gravosi e talvolta incompatibili connessi alla loro condizione di mogli, madri, lavoratrici e cittadine. In tal modo, la politica sociale comportava il fatto che le donne sopportassero ancora il peso maggiore in relazione alla gravidanza e alla crescita dei figli. La questione era di rendere meno arbitraria la scelta di averli e meno oneroso il doverli allevare. Di conseguenza, oltre ad avere bambini esse furono incoraggiate a lavorare, l’aborto venne legalizzato, mentre il controllo delle nascite e l’educazione sessuale furono ampiamente favoriti perché non vi fossero parti “indesiderati” o “indesiderabili”.
Per contrasto, l’Italia pose il problema demografico in termini neomercantilistici, e la dittatura giustificò le proprie “battaglie” demografiche in chiave di salvezza nazionale. Tale concezione rivestì nei confronti delle donne conseguenze immediate. Lo Stato si proclamava l’unico arbitro della salute pubblica e in linea di principio esse non avevano alcun potere di decisione riguardo alla procreazione dei figli. Si riteneva anzi che le cittadine di sesso femminile fossero antagoniste dello Stato: prendessero personalmente o meno la decisione di limitare le dimensioni della famiglia, la responsabilità di avere in tal modo interferito con gli interessi di quest’ultimo veniva attribuita soltanto a loro. In realtà la politica economica intesa a comprimere i consumi per ridurre le importazioni e favorire le esportazioni, oltre ad aggravare le diseguaglianze sociali, può aver accresciuto gli ostacoli economici alla procreazione e aumentato le differenze di fertilità tra aree urbane e rurali. Impedendo le riforme nel tentativo di ridurre tali fattori frenanti, il fascismo cercò di imporre le gravidanze proibendo l’aborto, la vendita di contraccettivi e l’educazione sessuale. Allo stesso tempo favorì gli uomini a spese delle donne all’interno della struttura familiare, del mercato del lavoro, del sistema politico e della società in generale. Ciò avvenne tramite l’esteso apparato di controllo politico e sociale escogitato in primo luogo per riversare il peso della crescita economica sui membri meno avvantaggiati della società.