L’attacco condotto dal regime contro la libertà di riproduzione costituisce l’aspetto forse più conosciuto della politica sessuale fascista. Nel suo famigerato discorso dell’Ascensione pronunciato il 26 maggio 1927, Mussolini pose gli interventi in “difesa della razza” al centro degli obbiettivi nazionali; lo scopo che il duce intendeva raggiungere entro la metà del secolo era una popolazione di 60 milioni in una nazione che ne contava all’epoca 40. Per giustificare questa ambizione egli faceva riferimento a due argomenti, e noi possiamo arguirne un terzo almeno altrettanto importante: ristabilire – “normalizzare” – le differenze tra uomo e donna che erano state sconvolte dalla guerra.
Il primo argomento era di tipo mercantilistico, ponendo l’accento sulla necessità di avere a disposizione semplici masse di persona come manodopera a basso prezzo. L’altro era invece più tipico di una nazione impegnata a espandersi imperialisticamente: il calo registrato nella crescita della popolazione, acceleratosi negli anni ’20 e reso sempre più evidente dalle migliorate tecniche di indagine demografica, frustrava le ambizioni espansionistiche dei suoi capi. Se l’Italia non fosse divenuta un impero, amava ripetere il duce, sarebbe certamente diventata una colonia.
Nella sua ricerca di “nascite, ancora nascite”, la dittatura oscillava tra riforme e repressione, tra l’incoraggiamento dell’iniziativa individuale e l’offerta di concreti incentivi statali. L’OMNI, ossia l’Opera Nazionale Maternità ed Infanzia, rappresenta meglio di qualsiasi altra iniziativa questo lato riformista: istituito il 10 dicembre 1925 con l’entusiastico sostegno dei cattolici, dei nazionalisti e dei liberali, esso si occupava principalmente delle donne e due fanciulli che non rientravano nelle normali strutture familiari.
Altre riforme riguardarono le esenzioni fiscali concesse ai padri con famiglie numerose a carico, i congedi e le previdenze statali in caso di maternità, i prestiti concessi in occasione di nascite o matrimoni, nonché gli assegni familiari erogati ai lavoratori stipendiati e salariati. E misure repressive compresero invece il fatto di trattare l’aborto come un crimine contro lo Stato, la messa al bando del controllo delle nascite, la censura sull’educazione sessuale e una speciale imposta sui celibi. Si potrebbero includere inoltre gli avanzamenti di carriera previsti per i padri con famiglie numerose a carico, una misura che, considerati gli alti tassi di disoccupazione, si mostrò punitiva tanto verso le donne quanto verso gli uomini “morbosamente egoistici”, cioè scapoli o sposati senza prole.
A differenza della Germania nazista, l’Italia fascista rinunciò ai provvedimenti eugenetici negativi. Non si vuol dire con ciò che l’Italia fascista non fosse eugenista, tuttavia l’ingegneria demografica del regime trasse origine da una concezione della razza assai diversa e sostenne un differente meccanismo di selezione razziale. A differenza della Germania l’Italia non aveva mai dovuto affrontare problemi di minoranze etniche, almeno fino a quando nel 1936 il duce non fondò l’impero in Africa con la conquista dell’Etiopia (e vennero perciò rapidamente approvate le prime leggi contro gli incroci razziali). Né i teorici della razza italiana temevano la prolificità delle classi popolari. Tutto il contrario. Ne celebravano la “fertilità differenziale” ed erano scettici circa la pseudoscientificità delle misure di selezione biologica dagli angloamericani e in seguito dai nazisti. La “rivoluzione dei giovani” fascista, teorizzata da Corrado Gini, il più importante studioso italiano di statistica demografica, si prometteva di utilizzare “l’unico serbatoio di energie vitali”, la campagna, con le sue “classi basse e prolifiche dai cui spostamenti interni e dai cui incroci sarebbe dipesa la riviviscenza della nazione”. E tali posizioni venivano rafforzate dai severi ammonimenti della Chiesa cattolica contro le “zootecniche applicate alla specie umana”. Ispirandosi a concezioni che potremmo definire in parte pessimistico laissez-faire maltusiano (la popolazione avrebbe sopravanzato le risorse) e in parte ottimismo darwiniano (i più adatti sarebbero sopravvissuti), il regime in tal modo tollerava e talvolta arrivava persino ad approvare pubblicamente le evidenti correlazioni che i suoi zelanti demografi rintracciavano fra le cosiddette famiglie “numerose” e la povertà, il sovraffollamento, la malnutrizione e l’analfabetismo.
Dire che la politica seguita dal fascismo sia stata fisicamente meno invadente dell’eugenetica nazista non equivale ad affermare che abbia pesato in misura minore sulle donne, soprattutto quelle povere. La politica demografica fascista sviluppò una doppia faccia. Da una parte fu energicamente normativa. Gli esperti consideravano le donne “malpreparate alla sacra e difficile missione della maternità, deboli o imperfette nell’apparato della generazione” e soggette pertanto a generare una prole “anormale”. Per correggere questi vizi lo Stato fascista ambiva a modernizzare il parto e la cura dei figli. D’altra parte l’eugenetica fascista giustificava una politica di non intervento almeno riguardo i cittadini più poveri. Se l’obiettivo era di aumentare le nascite, le riforme sarebbero state non solo costose ma persino controproducenti. Un tenore di vita più alto avrebbe potuto spingere la famiglia di un impiegato ad avere un secondo figlio, considerazione che giustifica la sollecitudine con cui la dittatura trattò il ceto medio impiegatizio. Nelle famiglie contadine lo stesso miglioramento avrebbe solo incoraggiato aspettative eccessive, facendo assumere anche a loro la mentalità calcolatrice che induceva le famiglie urbane a limitare le nascite.
Le conseguenze di questa politica bifronte furono gravi. Le donne italiane, soprattutto quelle appartenenti alla classe operaia urbana, volevano avere meno figli. “Un figlio unico, professore, un figlio unico noi vogliamo”, confidavano molte torinesi al dottor Maccone, un illustre pediatra. Per raggiungere lo scopo le donne praticavano la pianificazione familiare come potevano, ricorrendo principalmente all’aborto. Nonostante i draconiani divieti quest’ultimo divenne alla fine degli anni ’30 la forma di pianificazione familiare più diffusa. Dal momento che gli aborti erano tutti clandestini sia che fossero praticati da medici professionisti sia dalla “comare” del quartiere, le donne correvano elevati rischi di infezioni invalidanti, di danni fisici permanenti e di morte. Inoltre, il fatto che la repressione imposta al controllo delle nascite giungesse proprio nel momento in cui l’informazione ricominciava a diffondersi dopo parecchi secoli di censura controriformistica rese particolarmente coercitive le campagne antimalthusiane del fascismo. Soprattutto nelle aree rurali esse rafforzarono nei confronti dei processi riproduttivi un fatalismo sancito dalla religione. Ma anche ragazze appartenenti alla classe operaia settentrionale ricordarono “quasi con rancore” di essere rimaste ignoranti “come le bestie” circa i fatti riguardanti la vita sessuale. I nuovi modelli governativi, professionali e di mercato stabilirono per il parto e la crescita dei figli criteri sociali più elevati e stigmatizzarono, anche se in realtà non soppressero, i sistemi tradizionali. Non riuscirono tuttavia a fornire i mezzi sociali ed economici necessari a rendere le donne capaci di rispondere a questi nuovi criteri senza rilevanti sacrifici personali. La mortalità infantile diminuì di un quinto, passando dal 128 per mille del 1922 al 102 per mille del 1940, ma questo andamento fu all’incirca uguale a quello del ventennio precedente e mantenne ancora la mortalità infantile in Italia più alta del 25% rispetto alla Francia e alla Germania. In generale la maternità fascista fu esclusivamente “ad alta intensità di lavoro”. Non a caso durante gli anni ’30 le parole “sacrifici” e “stenti” attraversarono come un leitmotiv i resoconti femminili riguardanti la maternità e l’istinto materno.
cuesto brog efato per le nostzie del canavese
o no?