Mentre le posizioni progressiste della socialdemocrazia svedese erano legate a vigorose tradizioni del femminismo liberale, a un settore agricolo bene integrato nonché a una cultura civile e a costumi sessuali relativamente omogenei, il patriarcato fascista affondava le sue radici nel fragile liberismo dell’Italia dopo l’unificazione e nell’instabile opinione pubblica di una società che si industrializzava in ritardo e in modo non uniforme. Sviluppatosi intorno alla svolta del secolo, il movimento delle donne italiano rimase piccolo e diviso, mentre i suoi membri si tenevano lontani dalla “piazza” dedicandosi alle opere pie in favore di donne e bambini indigenti. La questione femminile, tuttavia, si profilava grave. In parte ciò era dovuto al fatto che le élite liberali si erano mosse in modo estremamente discontinuo riguardo alla stessa integrazione degli uomini successiva alla raffazzonata unificazione del paese. Alla svolta del secolo le spaccature regionali, civico-culturali e di classe erano, semmai, più grandi di mezzo secolo prima, aggravate non solo dal lento sviluppo del sud ma anche dall’evidente disuguaglianza dell’imposizione fiscale, dallo stentato sistema d’istruzione pubblica e dal rinvio fino al 1912 di una significativa riforma elettorale.
La “questione femminile” si complicò ulteriormente sovrapponendosi alla “questione sociale”: il socialismo italiano, combattivo e dotato di una base estesa, raccoglieva un vasto seguito tra le operaie, come pure tra i riformatori frustrati del ceto medio. Oltre a ciò, fino al 1904 la Chiesa cattolica si mantenne irriducibilmente ostile al sistema liberale. La sua cultura antimodernistica, che in genere mal tollerava le filosofie individualistiche, era contraria all’emancipazione femminile. La Chiesa si mostrò tuttavia paternalisticamente protettiva nei confronti delle donne e si propose come il principale campione dei valori della famiglia. Più specificamente, l’atteggiamento dello Stato liberale verso le donne presentò alcune contraddizioni che il regime fascista avrebbe poi sfruttato. Il governo liberale consisteva in un laissez-faire spinto all’estremo, caratteristica che i propagandisti mussoliniani avrebbero denunciato per legittimare la pretesa fascista di essere una forza riformatrice. La legge Pisanelli del 1865 aveva costituito un passo indietro rispetto alla legislazione familiare vigente nell’Italia austriaca. Come altre codificazioni del diritto di famiglia di ispirazione napoleonica, essa affermava l’interesse dello Stato nei confronti del nucleo familiare rafforzando l’autorità dei capifamiglia maschi.
Le donne erano escluse dalla maggior parte degli atti giuridici e commerciali in assenza del consenso dei propri mariti, dalla possibilità di agire come tutori nei confronti dei figli, e persino dai “consigli familiari” che fino al 1942 ebbero il potere di disporre del patrimonio di famiglia, dell’eredità e delle assegnazioni dotali in caso di morte e incapacità del padre. Nel 1900 i governi di altri paesi stavano diventando più paternalistici, approvando riforme intese a proteggere le donne e i fanciulli non foss’altro che per salvaguardare i salari maschili e la purezza razziale. Il 30 per cento della forza lavoro industriale italiana era costituito all’epoca da donne. E tuttavia nessuna legge sul lavoro industriale fece parola del lavoro femminile fino all’approvazione nel 1902 della legge Carcano, la quale stabiliva per le donne e i minori una giornata lavorativa massima di dodici ore e vietava alle madri di tornare al lavoro prima che fosse trascorso un mese dal parto. Com’era prevedibile, la legge era piena di eccezioni ed era difficile controllarne l’applicazione. Anche le leggi familiari rivelavano la politica di non intervento propria del liberalismo italiano. Per mantenere intatto il patrimonio familiare, lo Stato diseredava i figli nati da unioni adulterine o incestuose, rendeva l’adulterio un crimine soltanto femminile e proibiva ogni forma di azione legale in questioni di paternità. Cosa non meno importante, l’Italia liberale riconosceva solo i matrimoni civili, sebbene ogni anno se ne celebrassero migliaia con rito religioso o comunque senza approvazione ufficiale, e i figli che ne derivavano risultassero illegittimi agli occhi del governo.
Alla luce di questo retaggio di noncuranza, il nascente movimento femminista italiano – e forse le donne in generale – sviluppò un rapporto ambivalente, quando non antagonistico, con le istituzioni e l’ideologia liberali. Alcuni gruppi, i più antichi, sotto l’influenza dell’egualitarismo radicale della democratica progressista Anna Maria Mozzoni simpatizzarono con il movimento socialista in rapida espansione, stringendo legami con donne della classe operaia; l’emancipazione femminile era per loro inconcepibile senza una completa democratizzazione politica ed economica. Altri gruppi, che divennero più coesi dopo il 1908, erano legati alla Chiesa cattolica e oltre al diritto delle donne a organizzarsi come presenza pubblica difendevano la famiglia e altri valori conservatori. Dopo il 1900, un numero crescente di donne del ceto medio era impegnato nel cosiddetto “femminismo pratico”. Il loro principale punto di riferimento organizzativo era costituito dal Consiglio nazionale delle donne italiane, fondato nel 1903. a differenza delle femministe angloamericane, e quali ponevano l’accento sulla parità dei diritti, le femministe borghesi italiane avevano poca fiducia che dalle forze del mercato o dal diritto di voto potesse nascere l’emancipazione. Abnegando se stesse con il fervore patriottico e il familismo tipico delle classi medie italiane, esse consideravano questo loro sacrificarsi in sforzi filantropici come una premessa alla concessione dei diritti civili. Prudenti in fatto di politica di massa, esse cercavano di ottenere il riconoscimento sociale e dello Stato della speciale missione materna che le donne svolgevano all’interno della moderna società. Molte, inevitabilmente, si dimostrarono sensibili alle altisonanti pretese mussoliniane che ciò fosse appunto avvenuto nell’epoca fascista.
Il fatto che il movimento appena descritto – mai numeroso, poco unito e raramente combattivo – riuscisse a stimolare un diffuso antagonismo sarebbe inspiegabile senza alcune osservazioni riguardanti la debole cultura civica dell’Italia liberale. Il comportamento delle donne emancipate non passava inosservato in questa società per metà industriale e per metà contadina, in cui esistevano bensì moderni centri industriali come Milano o Torino ma più del 50% della popolazione viveva ancora di attività agricole. Le élite liberali favorirono gli atteggiamenti antifemministi, non da ultimo negando alle donne il diritto di voto. Mostrarono inoltre scarso apprezzamento circa il servizio sociale reso dalle donne che, guidate dalla fede nella necessità della propria “sensibilità materna” per “temperare e completare l’assetto politico”, cercavano di curare i mali sociali e di calmare l’inquietudine della classe operaia attraverso iniziative filantropiche. Trascurando di agire esse stesse in questo campo, le élite liberali persero l’occasione non solo di riconoscere la validità dell’opera volontaria prestata dalle donne, ma anche di assoggettare il mutualismo operaio e la beneficenza cattolica all’autorità del governo centrale. Era un’occasione che i fascisti non mancarono invece di cogliere. In nome della “ricostruzione nazionale” essi criticarono aspramente il “disinteresse” liberale, imposero la “disciplina” alle associazioni locali, e mobilitarono come volontarie nelle associazioni fasciste decine di migliaia di donne del ceto medio.
Il fascismo fu in grado di sfruttare anche l’esasperato maschilismo degli italiani. Si potrebbe dedicare un intero studio alle origini sociopsicologiche dell’atteggiamento maschilista assunto dagli intellettuali italiani dopo la svolta del secolo e alle sue innumerevoli manifestazioni, dalla sensibilità erotica dello scrittore decadente Gabriele D’Annunzio e dalle metafore antifemministe dell’influente rivista letteraria fiorentina “La Vice” fino alle famigerate dichiarazioni del poeta futurista Marinetti sul “disprezzo per la donna”. In Italia, la semplice discriminazione sessuale di tipo “latino” era a quanto pare aggravata sia dalla frustrazione derivante dal senso di venire esclusi dalla ristretta “gerontocrazia” liberale, sia dal disagio provocato dal modesto prestigio internazionale in un’epoca in cui insieme ai risultati delle imprese imperialistiche era in gioco l’onore maschile. La paura dell’esaurimento demografico aggiungeva un ulteriore componente, sebbene il tasso di fertilità italiano del 30 per mille fosse il più alto d’Europa dopo la Spagna e la Romania. Le inquietudini circa il disordine sessuale e il declino della razza erano evidentemente aggravate da altri fattori che comprendevano il salasso di popolazione maschile provocato dall’emigrazione (alla vigilia della Grande Guerra partivano ogni anno 500.000 persone), l’importanza attribuita al semplice numero delle braccia da lavoro in un contesto economico scarsi di capitali, la sorprendente varietà di comportamenti sessuali in una società che si sviluppava in modo tanto disuguale e, infine, la penetrante influenza esercitata in materia di fertilità dalle teorie scientifiche positivistiche e dalla dottrina cattolica.
Alla vigilia della guerra si profilava in Italia ciò che potremmo definire una politica “neopaternalistica”. Dal 191 circa, moralisti fanatici lanciarono campagne contro la degenerazione della vita familiare, unendo le loro forze a quelle delle associazioni cattoliche nell’attribuire la colpa del calo di natalità all’urbanizzazione, all’emancipazione femminile e alle pratiche neomalthusiane di ispirazione radicale. Le élite liberali, ancorché sempre riluttanti a intervenire nella politica sociale, tendevano ormai ad aderire a quello che il preveggente sociologo liberale Vilfredo Pareto denunciava come il mito “virtuista” dei riformatori morali: cioè abbandonavano il laissez-faire e i principi anticlericali per legiferare in materia di costumi sessuali. Con il “Manifesto futurista” di Martinetti del 1909 si allineò anche la cultura modernizzante: “Noi vogliamo distruggere i musei, le biblioteche, le accademie d’ogni specie, e combattere contro il moralismo, il femminismo e contro ogni viltà opportunistica o utilitaria”.
Questo atteggiamento neopaternalistico, tuttavia, non si tradusse affatto in un nuovo regime per governare le donne. Né tracciò una chiara posizione sul problema demografico che, dalla metà degli anni ’20 in poi, avrebbe fornito il quadro intellettuale e politico entro il quale formulare e realizzare un programma antifemminista. Qui è importante sottolineare piuttosto il fatto che il regime fascista, impadronendosi del potere, ereditò intorno alla “questione femminile” tutto un insieme di opinioni e consuetudini. Alcune, come quelle della Chiesa, l’avrebbero sostenuto pur entrando con esso in concorrenza. Altre, ad esempio in materia di dottrina razziale, vennero liberamente sfruttate da un fascismo alla ricerca di proprie strategie di governo. Il regime poté soprattutto denigrare “l’agnosticismo” liberale nei riguardi della famiglia, dei figli e della maternità, per avanzare la pretesa di essere una forza pionieristica. Cosa non meno importante, il duce sfruttò l’ardore patriottico, lo spirito di sacrificio e il mai esaudito desiderio di riconoscimento sociale da parte di molte donne del ceto medio, tra cui numerose ex femministe.