In Sicilia, in ogni paese c’è uno scemo – ‘u babbu ro paisi[1] . In alcuni ce ne sono anche due o addirittura tre. La colpa è sempre stata delle madri. Qualunque fosse il difetto: genetico, fisico, estetico, il reclamo si porgeva sempre all’origine della fabbricazione. Spesso era motivo di abbandoni e separazioni. Spesso le donne venivano “schifiàte”[2] dai mariti e dalle loro famiglie. Le regole per avere un figlio sano venivano imposte da una mentalità abbastanza comune. Le donne durante la gravidanza:- dovevano mangiare qualunque cosa compresa nel loro campo visivo o di cui avessero la voglia;
– non dovevano vedere o fare cose che potevano causare loro spavento, paura (niente horror, thriller, gialli);
– non dovevano provare shock, emozioni forti;
– non dovevano essere coinvolte in litigi, discussioni;
– non dovevano fare troppi sforzi fisici, quindi niente sesso.
La questione del cibo, nel meridione, è – in generale – abbastanza complessa. In Sicilia i cattivi raccolti, la fame, hanno alimentato un pregiudizio che in tempi diversi tornava certamente utile alle donne gravide. Se non mangiavano, appunto, tutto quello che vedevano o di cui solo avevano voglia, era certo che poi avrebbero partorito figli con delle macchie talvolta mostruose. Le concentrazioni di melanina a volte erano anche esteticamente repellenti (se unite a strati di pelle ispessita), specie quando riguardavano grosse parti del volto.
La storia stava così: la donna incinta vedeva un carciofo e doveva mangiarlo. Se non lo faceva, o malauguratamente gli veniva voglia di un frutto o qualunque altro alimento che non fosse di stagione – perciò non reperibile, e si toccava – per esempio – sulla coscia: in quel punto preciso il figliolo avrebbe avuto la macchia meglio conosciuta come “voglia”. Questa era perlomeno la storia che ci veniva propinata di generazione in generazione.
In più le donne approfittavano di quel momento e di quella fobia per ottenere cibi – anche da estranei – che non potevano affatto permettersi. Capitava infatti abbastanza spesso che le donne incinte, captando l’odore di una pietanza che proveniva da una casa qualunque al loro passaggio, si fermavano mostrando con orgoglio il pancione e reclamavano una lauta porzione del pasto.
A volte l’espediente della “voglia” era (o è) anche un modo per ottenere attenzione dal proprio compagno che, in quel particolare momento e pur di avere un figlio sano, sarebbe andato dritto fino in Madagascar per recuperare all’occorrenza un frutto tropicale in meno di un paio d’ore. Si parla di un tempo anche abbastanza recente (a seconda della mentalità delle famiglie) durante il quale le donne erano legittimate a riposare e ottenere un po’ di coccole solo durante le gravidanze.
Questa esigenza ha comunque, nel corso degli anni, assunto carattere d’obbligo (e questo vale per tutte le norme elencate), per cui chi si sottraeva a questo tipo di comportamento era guardata come strana, “cca’ nasca all’aria”[3], incosciente, nobile[4] e in ultimo persino puttana.
Una volta accadde che una donna passò davanti alla casa di una signora che stava soffriggendo dell’aglio. L’odore era fortissimo, ma la donna incinta non aveva nessun tipo di intenzione di avvalersi della facoltà di richiesta di quel bulbo disgustoso. Disgraziatamente la suocera non la pensava allo stesso modo. Così le ficcò in bocca a sorpresa due spicchi d’aglio appena rosolati. La donna, disgustata, subito vomitò. La suocera invece era più che soddisfatta per aver provocato il vomito della nuora e quindi aver salvato la auspicata rosea e omogenea carnagione del nipotino.
La storia delle emozioni forti (horror, litigi, shock) invece non so che origine abbia. So solo che ogni volta che nasceva un figlio “babbu” (che non sta per papà ma per scemo, ritardato, con gravi o meno gravi difetti di deambulazione, o una qualunque forma di talassemia o anemia mediterranea. Varie forme quindi di malattie di tipo ereditario) era indiscutibilmente “colpa” del latte “àcitu”[5] della madre. Il detto frequente era: “U latti ci fici àcitu!”[6].
La madre doveva seguire passo passo i consigli dei padri ma soprattutto delle madri. Le donne erano spesso maltrattate, selvaggiamente picchiate, bistrattate. In quel caso l’unica forma di difesa diventava quella di opporre ai maltrattamenti la carta del latte avvelenato: “Tu mi picchi e io ho il potere di avvelenare tuo figlio”. Diventava anche il modo per scaricare un insostenibile peso dalla coscienza che le condanne sociali imponevano: “Mio figlio è nato malato perché mio marito, mia suocera, mio zio, mio cognato… mi hanno fatto arrabbiare.” Oppure: “Mio figlio è malato perché ho preso un gran spavento.” Ancora: “Mio figlio è malato perché Dio ha voluto darmi questa croce da portare.”
In quest’ultimo caso si ricorreva alla giustificazione mistica. Era l’asso pigliatutto. Quando c’era di mezzo Dio tutto poteva accadere. Tutte quelle donne che hanno, per la loro salvezza, alimentato pregiudizi e credenze popolari, hanno alla fine fornito un alibi perfetto ai mariti che preferivano vedere una partita in televisione piuttosto che un bel thriller. Ovviamente il calcio era la risposta alle preoccupazioni paterne.
Anche la questione degli sforzi fisici temo sia stata inventata apposta per fare in modo che le donne non facessero gli abituali sforzi. Quantomeno non durante la gravidanza. Solo che questa cosa non doveva riuscire loro granchè bene.
La storia che invece funzionava era quella del non fare sesso.
I mariti in quel caso rispettavano il volere delle donne e per quei mesi le lasciavano in pace. Stiamo parlando di un periodo in cui i matrimoni spesso erano combinati o si facevano alla cieca. Un uomo passava con il mulo, il carretto (e negli anni a seguire questa abitudine non si è persa: molti fidanzamenti sono nati da centinaia di passaggi in motorino e poi in macchine con lo stereo ad alto volume e la scritta laterale: “Turbo”, oppure per uno scambio di sguardi durante la passeggiata in piazza alla domenica), davanti la casa della prescelta. “Ci faciva ‘nzinca”[7] e lei doveva scegliere se rispondergli con un altro cenno oppure se ignorarlo.
Se la questione era risolta allora l’uomo chiedeva la mano della donna al padre (che la cedeva con una dote che spesso comprendeva una casa e dava la possibilità di garantire serenità al nuovo nucleo familiare. Il genitore non avrebbe mai ceduto dote e case a donne che avessero voluto vivere per proprio conto o investire in altro modo quei soldi. Il genero era l’unico degno di fiducia.). Se per caso il padre della donna non era d’accordo, allora organizzavano la fuitina.
Attraverso quello stratagemma si metteva il genitore di fronte al fatto compiuto. Così sarebbe stato necessario il matrimonio riparatore con tanto di dote come da regole generali. Capitava spesso che le giornate di fuitina, tre in tutto con privazione della verginità inclusa, erano seguite da un rifiuto delle donne a riparare il danno fatto. Erano state stuprate, trattate male, avevano provato disgusto, non erano per nulla sicure di voler vivere con l’uomo con cui avevano perso la propria verginità. Il matrimonio però era obbligato.
Stessa cosa accadeva nel caso in cui esisteva un accordo solo tra genitore e pretendente, o se il genitore non era d’accordo proprio per rispettare la volontà della figlia, o semplicemente perché non gradiva che si svolgessero quelle nozze. In questi casi la fuitina avveniva attraverso il rapimento e lo stupro conclamato. A quel punto il genitore era costretto a obbligare la figlia al matrimonio riparatore. E’ solo degli anni ’60 il primo e rarissimo caso di denuncia di stupro post rapimento da parte di Viola: una donna siciliana che si è così sottratta al matrimonio riparatore.
Quel caso creò una rivoluzione in termini culturali che purtroppo non ha avuto un grande seguito. Fino ai primi anni ’90, infatti, il reato di stupro – che pure era stato immaginato dal legislatore – era un “reato contro la morale” e non contro la persona. Cioè: se una donna veniva stuprata, il problema era che gli altri sentivano ferita la loro sensibilità morale e non che quella donna aveva subìto una gravissima violenza.[8] In seguito le cose sono cambiate ma solo in apparenza. Di questo comunque avremo modo di discutere in altri passaggi di questa raccolta di indizi e memorie.
Tornando alle credenze popolari, comunque la questione del rifiuto di fare sesso durante le gravidanze era dato, anche e soprattutto, dal fatto che le donne, già normalmente, non sopportavano di essere usate e abusate sessualmente dai loro mariti.
L’attesa di un figlio forniva a queste madri l’occasione di non essere toccate dai loro uomini. Le donne che si sottraevano a questo tipo di regole sociali creavano pericolosi precedenti che mettevano in pericolo le altre donne, quelle che di questi espedienti fruivano ampiamente per motivi di necessità. Le loro accuse rivolte alle donne non istruite e disobbedienti diventavano però, come sempre, freni sociali per le generazioni successive.
La generazione di donne di transizione (quelle che ora hanno 40/45 anni, per capirci) hanno dovuto scansare dunque obblighi e pregiudizi per imprimere nuove autonomie faticosamente raggiunte. Di queste autonomie hanno poi fruito le trentenni. Queste autonomie sono state invece messe in discussione dalle attuali ventenni. Forse perché divenute anch’esse obblighi residui di qualcosa che viene spacciato per “debito storico” ma che è semplicemente un insieme di vittorie, certamente importanti, che avevano valore contingente in quella precisa fase e non più in altre. Non come allora.
In Sicilia oggi sappiamo che le donne incinte possono vedere film horror. Possono agire i conflitti piuttosto che stare perennemente frustrate a rimuoverli. Possono soprattutto, e menomale, fare sesso se lo vogliono, poichè sono cambiate le forme di relazione. In ogni epoca si inventano nuove religioni, nuovi linguaggi, nuovi sistemi, a seconda delle esigenze che vengono via via poste. Le donne hanno subìto e subiscono il controllo sociale della riproduzione da parte degli uomini. Spesso hanno quindi inventato sistemi di utilizzo degli stessi metodi di controllo per sovvertirli, a partire dallo stesso linguaggio.
Oggi, qualche volta, le donne scelgono di abortire; oppure scelgono di tranquillizzare gli embrioni con la musica classica; spesso o quasi sempre fanno corrette amniocentesi per sapere in tempo di che male soffre il loro figlio. Riescono a sapere così se nascerà un bimbo sano oppure no.
Qui si apre un altro capitolo: quello della libertà delle donne di abortire un figlio, se gravemente affetto da qualunque malattia che diversamente lo costringerà a vivere, nonostante non abbia spiragli di nessun genere per poter chiamare il suo stato “vita”. E così torniamo all'inizio di questa riflessione condivisa. Ci troviamo ancora, cioè, nella situazione in cui bisogna trovare giustificazioni sociali o metodi di sovvertimento dei pregiudizi legati a forme reiterate di credenze popolari.
Le donne si sono sempre difese come potevano. Inventando regole. Diventando spessissimo conniventi con quelle di origine patriarcale. Stato, impero, mafia, monarchia e chiesa sono stati e sono tutt’ora lo strumento al maschile che detta le norme di comportamento delle madri in ogni situazione possibile.
In Sicilia i primi gruppi di assistenza/aiuto per gli aborti clandestini sono nati negli anni settanta (parlo di Palermo, nei paesi non mi risulta che ci fosse nulla di simile). Uno di questi agiva proprio all’interno di uno dei quartieri più popolari del capoluogo: la Vuccirìa. Si trattava per lo più di studenti di medicina della sinistra radicale. Poi venne la legge 194. In alcune strutture ospedaliere medici militanti crearono rarissimi spazi nei quali non agivano obiettori di coscienza.
I consultori sono stati invece attivati tra la metà e la fine degli anni ottanta. In molti paesi dell’entroterra siciliano ancora non esistono. L’alto numero di medici obiettori è pari al numero delle cliniche private e/o convenzionate con gli enti pubblici. Questo giusto per anticipare qualche generica notizia.
Il punto è che molte cose in realtà sono accadute solo l’altro ieri. Il tempo che è trascorso è meno di un trentennio. Meno di 25 anni. Meno di 15. E ora stiamo tornando indietro. Il nastro si sta riavvolgendo molto rapidamente.
Non ci siamo. Non ci siamo ancora. Quello che sembra lontanissimo in realtà è proprio lì. Questo per dire che dare per scontate alcune conquiste sociali è una giocosa imprudenza. Le donne tutte dovrebbero raccontarsi i propri percorsi per tirare fuori il meglio da ogni storia. Senza che questo disegni traiettorie obbligate o che, infine, determini negazioni irriverenti. Siamo state, siamo, saremo ancora – spero – tutte, vecchie e giovani, ciascuna a nostro modo, in modo reciproco o insieme: eretiche!
[1] Lo scemo del villaggio
[2] Dileggiate. Ripudiate.
[3] Con il naso rivolto in su’. Presuntuosa. Snob.
[4] Nell’accezione negativa del termine. Detto da donne del popolo che guardano ad una donna aristocratica con odio.
[5] Acido. Non letterale. Significa che quel latte era corrotto. Avvelenato. Inquinato da una particolare sostanza che la madre produceva – secondola mentalità comune – in caso di trasgressione alle regole imposte.
[6] Il latte gli ha provocato la malattia. Letteralmente: il latte gli ha fatto acido.
[7] Le faceva un cenno con la testa
[8] Quella denominazione fu cambiata attraverso molte lotte sociali e tuttavia sono rimasti aperti tutti i capitoli relativi alla sensibilizzazione di tipo culturale del problema.
[e.p.]
Grazie zunamee 🙂
sono contenta che ti sia piaciuto. a presto.
complimenti, come al solito, per il bell’articolo. quanta produzione! 😉
Ciao ‘nto 🙂
anche le cose che racconti nel tuo blog sono interessantissime – almeno per me che sono cresciuta in quelle spiagge meravigliose.
Un abbraccio virtual/solidale a te e alla tua compagna per tutto.
Il libro che consigli credo di averlo letto tempo fa. Non ne sono sicura. Vado a cercare in mezzo ai miei quintali di libri (sempre che non l’abbia prestato e non mi sia più tornato indietro…. ahi ahi). Se non lo trovo, me lo procuro 🙂
Grazie!
ciao, veramente interessante.
il tema mi tocca da vicino perchè la mia compagna è al nono mese; ne approfitto per consigliarvi un libro dal titolo “il buon selvaggio”(di Montagu, ed. Eleuthera), tratta dei vari modi di intendere la vita nel mondo e soprattutto nelle tribù più “lontane”.
Sulle paure, l’alimentazione da tenere durante la gravidanza, l’allattamento contraccettivo e molti atteggiamenti di tradizione fortunatamente matriarcale ma molto molto distanti da noi bestie occidentali.