Da AsinusNovus:
Cinzia Arruzza insegna filosofia antica alla New School for Social Research, a New York. E’ autrice di due volumi: Le relazioni pericolose. Matrimoni e divorzi tra marxismo e femminismo (Alegre 2010) e Les Mésaventures de la théodicée. Plotin, Origène, Grégoire de Nysse (Brepols, 2011). Al momento ha appena completato la traduzione in inglese con commento e introduzione del trattato di Plotino su potenzialità e attualità, Enneade II 5, e sta lavorando a un libro sul rapporto tra filosofia e politica nella Repubblica di Platone. E’ un’attivista e collabora con il network Communia.
Le abbiamo posto alcune domande su questioni relative agli intrecci tra le forme di oppressione e le relative prospettive di liberazione.
1) Puoi spiegare ai lettori il taglio teorico della tua ricerca sul femminismo? Quali problemi ti hanno maggiormente spinto a scrivere della condizione della donna?
A costo di apparire un po’ banale, il mio interesse nei confronti della teoria femminista è nato dalla mia esperienza concreta: non solo dalla mia esperienza di donna nata e cresciuta nella Sicilia degli anni ’70, ’80 e ‘90, in un contesto particolarmente opprimente dal punto di vista di genere, ma anche dalla mia esperienza di attivista politica costretta a confrontarsi quotidianamente con sessismo e omofobia persino in contesti politici da cui mi sarei aspettata una maggiore sensibilità e attenzione. Sono quindi diventata un’attivista femminista molto prima di iniziare a occuparmi di teoria. Tuttavia, nel corso degli anni il mio modo di concepire il femminismo si è trasformato profondamente. In particolare, dal punto di vista teorico i momenti di svolta sono stati da un lato l’incontro con la teoria queer, nella quale ho trovato insieme a molti elementi problematici, anche la possibilità di una critica della costruzione sociale del genere e delle identità sessuali più inclusiva e per molti versi più liberatoria, gioiosa e giocosa anche. Dall’altro, l’esposizione al femminismo marxista e materialista angloamericano, che mi ha aperto un mondo di nuove possibilità rispetto a un dibattito italiano che ho sempre trovato asfittico e ripiegato in una discussione ormai autoreferenziale sulla differenza di genere. Da quel momento il mio maggiore ineteresse di ricerca è divenuto il rapporto strutturale tra capitalismo e oppressione di genere, e la relazione tra classe, genere e ‘razza’ nei processi di soggettivazione politica e sociale.