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#Zaia: Perché non vai a trovare le vittime violentate da italiani?

Leghisti oramai ridotti al 3 % come dato nazionale sobillano razzismi per ricordare che la ministra per l’integrazione Cècile Kyenge altro non dovrebbe fare che la casalinga, perché no, la badante, giusto? Ci si mette anche Zaia a ricominciare il tam tam mediatico e bugiardo del rischio degli immigrati per le donne italiane. Tutto ciò mentre fior di commentatori in giro per il web chiamano la ministra “troia negra”.

Commenti come: “Scimmia congolese“.  ”Zulù“. “Governante puzzolente” ,”Negra anti italiana”. “Faccetta nera“.

E poi: “Un ministro Bonga Bonga”, “una scelta del cazzo” con “l’aria da casalinga, modesta e inadeguata” (Borghezio dixit).

Tutte delizie alle quali lei ha risposto su twitter “Ringrazio per la partecipata attenzione e vicinanza che mi esprimete. Credo che anche le critiche insegnino se ci si confronta con rispetto”.

Sapere almeno che lei è:

Sposata dal 1994 con Domenico, ingegnere, ha due figlie adolescenti, Giulia e Maisha, nata a Kambove in Katanga nella Repubblica Democratica del Congo, è in Italia dal 1983, ora cittadina italiana. Vive a Castelfranco Emilia. Ha una laurea in Medicina e Chirurgia conseguita all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma. Specializzata in oculistica presso l’Università di Modena e Reggio Emilia, esercita la professione di medico oculista.

Il resto del suo curriculum è sparso in giro per la rete. Basta solo andare su wikipedia.

Di certo si sa che è donna, nera, non soddisfa i pruriti colonialisti di tanti razzisti che la vorrebbero a fare la badante, e oltre a prevenire la perdita di vista di tanta gente miope è evidente che ci vede più lontano.

Non so neppure che posizioni politiche abbia. Fa parte di un governo che non mi piace affatto. Ma quel che è certo è che io come tante altre persone che hanno una idea di civiltà moderna e progredita e rispettosa delle differenze non lasceremo che questa signora sia perennemente insultata.

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La malafede della zoofobia – IV (e ultima) parte

HomelessmanandhisdogDa Intersezioni:

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§ Ritmo, Grazia e Afflizione
Esistono validi motivi per supporre che la crisi globale della nostra creazione non richieda un inasprirsi della dominazione tecnoscientifica e zoofobica, ma un ritorno ai nostri sensi, ovvero, ad una vita animale più libera. Infatti, in Dialettica Negativa Adorno scrive che “l’individuo rimane con niente più che… provare a vivere in maniera tale da poter pensare di essere stato un buon animale.” (51) Essere un buon animale (umano), commenta Christoph Menke, significa agire mossi da un sentimento di solidarietà. Il soggetto animale è tale che “non separa sé stesso dalle proprie “spinte” o “impulsi” per seguire la legge e per liberarsene, ma la cui libertà, anzi, la cui propria forza, consiste nel permettere alle sue pulsioni e impulsi di esprimersi. Solo così, in “armonia”, persino in “riconciliazione” con sé stesso, l’uomo può essere buono verso gli altri.”(52)
Gli homo sapiens possono essere se stessi, e specificatamente esseri umani, solo se sono buoni animali, e quindi solo quando “non agiscono, e tantomeno si presentano, come persone,” (53) vale a dire, come ego che sopprimono i propri impulsi interiori. In Body Transformations, Alphonso Lingis attinge a Nietzsche dicendo che “le forze lussuriose di un individuo possono allontanarsi dall’immagine ideale di sé proiettata dagli adulti della propria famiglia, classe, etnia, nazione e razza per puntare su quegli istinti antichi che risorgono in lui, affermandoli e conferendo loro potere. “(54)

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“La nostra guerra buonista al cancro al seno” – Prima parte

Ci segnala e volentieri condividiamo. Da Le Amazzoni Furiose:

Peggy Orenstein e` una scrittrice e giornalista statunitense. Vive a San Francisco con marito e figlia, Daisy. Aspettando Daisy e` il titolo del libro, diventato un best seller, che l’ha resa famosa nel 2007. Racconta delle peregrinazioni dell’autrice per avere un bambino, lei che al principio non era nemmeno sicura di volerne avere. Lei che, anni prima, aveva avuto il cancro al seno.
Da qualche giorno non si fa che parlare nella breast cancer community d’oltreoceano di un suo articolo, piu` che un articolo un vero e proprio pamphlet, uscito il 25 aprile sul magazine del New York Times e intitolato “La nostra guerra buonista al cancro al seno”. Di seguito la prima parte della traduzione in italiano di alcuni stralci significativi.

“Una volta pensavo che una mammografia mi avesse salvato la vita. Lo scrissi persino su questo giornale. Era il 1996, avevo appena compiuto 35 anni quando il mio medico mi prescrisse un primo screening che potesse poi servire da termine di confronto quando avessi cominciato la mammografia annuale a 40 anni. Non avevo nessuna familiarita` per cancro al seno, ne` alcun fattore di rischio.
Cosi` quando il radiologo trovo` una strana formazione a forma di ruota di bicicletta – nemmeno un nodulo – e mi mando` a fare la biopsia, non mi preoccupai. Dopo tutto, a chi viene il cancro al seno a 35 anni?
Sta di fatto che io ce l’avevo. Ricordare la paura, la confusione, la rabbia, il dolore di allora mi fa ancora male. La mia unica consolazione e` che il sistema ha funzionato esattamente come previsto: la mammografia ha identificato il tumore precocemente, mi sono sottoposta a una quadrantectomia e sei settimane di radioterapia. Ero destinata a sopravvivere.
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