Da Il Corsaro:
di Filippo Riniolo
In risposta all’eclatante suicidio dell’attivista anti-gay Dominique Venner sull’altare della Cattedrale di Notre Dame, è apparsa ieri sulla homepage di Repubblica la lettera di un adolescente gay di 17 anni. Anche lui confessa di aver pensato al suicidio, ma per la ragione opposta: non essere sicuro di saper «sopravvivere all’adolescenza con un peso del genere, con la consapevolezza di non aver fatto nulla di sbagliato se non seguire i propri sentimenti, senza vizi o depravazioni».
La lettera è chiaramente scritta da una persona che, forse per via delle forti convinzioni cattoliche che traspaiono lungo tutto lo scritto, non ha ancora accettato appieno la propria omosessualità, e si limita a prenderne atto. I toni sono quelli del pietismo e della commiserazione: «Non a tutti è data la fortuna di nascere eterosessuali» (sic!), «Se ci fosse un po’ meno discriminazione e un po’ più di commiserazione o carità cristiana, tutti coloro che odiano smetterebbero di farlo». Il paradigma espresso appare quasi da epoca pre-Pride: io gay, poverino e vittima, non chiedo diritti, chiedo solo di essere accettato e difeso, «ascoltato»; non voglio il matrimonio o l’adozione («non sono così sconsiderato»), ma semplicemente una legge contro l’omofobia che mi difenda in quanto vittima. In nome della carità cristiana.
Il punto però è un altro: perché Repubblica sceglie di dare rilievo a questa lettera e non ad una qualunque delle tante che la comunità glbtqi scrive quotidianamente per rivendicare i propri diritti? Perché questa lettera e non un articolo sulle manifestazioni di lotta come il Pride o la Slutwalk, realizzata a Roma nei mesi scorsi contro la cultura dello stupro, dove femministe e soggetti glbtqi hanno dato vita ad un corteo non autorizzato, coloratissimo, che è giunto fin sotto il Parlamento?