di Denise Celentano
Apprendiamo dal corriere che una donna incinta non vuole sottoporsi a un intervento di parto cesareo, e i sanitari dell’ospedale presso cui si è recata per partorire, il Ca’ Foncello di Treviso, chiamano la polizia. Risultato: la donna viene sottoposta all’intervento in modo coatto.
Cosa c’è di vagamente urticante in questa notizia di cronaca? Quali che fossero le motivazioni della donna, ci sarebbe da domandarsi che diritto abbiano le istituzioni (sanitarie, di polizia) a costringere una donna a sottoporsi ad un intervento chirurgico che rifiuta. Diritto, sembra, garantito a tutto il resto della popolazione. Negli articoli sul caso si leggono le opinioni dei medici, prima di tutto del primario dell’ospedale autore della telefonata al 113, si parla delle motivazioni della donna al posto suo, e si sottolinea il pericolo in cui sarebbe incorso il feto in caso di parto naturale, si parla dunque del feto e mai della madre. Ma noi, che non seguiamo le mode dei giornali, potremmo domandarci: come ci sente a esser costrette a un trattamento obbligatorio contro la propria volontà? Che percezione si può avere del proprio corpo in una simile vicenda, se non come di un crocevia di poteri che agiscono sulla propria carne e su ciò che contiene, calpestando tuttavia ciò che ci identifica come persone, ovvero i sentimenti, la morale, la dignità, la propria storia? La donna in questa vicenda emerge come puro corpo che contiene, non, dunque, come persona.
Quello che non vale per i parenti compatibili con persone che necessitano di un trapianto, quello che non vale per chiunque rifiuti di operarsi per libera scelta, vale invece per le donne incinte. Non è mai, che mi risulti, accaduto che una persona compatibile fosse costretta a donare degli organi contro la sua volontà, cioè a sottoporsi a un intervento chirurgico invasivo forzatamente, anzi sono molti i casi di rifiuto e di eventuale annessa condanna morale, ma mai condanna o coazione legale per la scelta. E’ accaduto che qualcuno si rifiutasse di sottoporsi a interventi di varia natura anche a costo di morirne, senza che ciò comportasse sanzioni legali o costrizioni di sorta. Accade, invece, che una donna che per motivazioni personali (etiche, religiose, dettate da fobie, o quant’altro) rifiuti un intervento cesareo meriti di interfacciarsi con la polizia di stato nel mezzo delle doglie.
Questa storia è particolarmente significativa perché emblematica rispetto all’esercizio capillare del biopotere e rispetto all’immaginario sociale relativo alla figura della madre.
Le motivazioni della donna sono sottovalutate, se non addirittura ridicolizzate (questo appare il tono dei medici auto-autorizzatisi a riferirle), ritenute espressioni di ignoranza, di scarsa capacità di valutazione, ecc., insomma si sottintende che la donna in questione non capisca quello che gli altri invece capiscono perfettamente; lei è incapace, di fatto, per gli altri, di intendere e dunque di volere: lei non ha nessuna capacità di decisione, non è considerata un soggetto con una propria etica e dei propri percorsi che conducono a precise decisioni lucidamente. No: la donna non capisce, le sue decisioni relative al proprio corpo sono irrilevanti, dunque merita di essere annullata come persona e di esistere solo come corpo che ne contiene un altro. Già, ne contiene un altro. E’ questo il punto. Il feto non può decidere, è vittima della scelta della madre, questa è l’argomentazione più comune. A proposito di ciò bisogna fare due considerazioni:
1) Non ho notizie di prelievi forzati di fegato, reni o che, a persone compatibili con moribondi in attesa di trapianto, poi magari appunto morti a causa del rifiuto di sottoporsi all’intervento da parte dei compatibili: perché, dunque, la coazione vale solo per la donna incinta? Anche in questo caso la persona decide non facendo nulla per evitare una paventata morte. Perché, dunque, in quel caso la scelta morale è rispettata, e nel caso della donna incinta no?
2) Il parto cesareo comporta tutti i rischi connessi a un intervento invasivo: rischi anestetici, infettivi, emorragici, di lesioni degli ureteri e della vescica, complicazioni cardio-polmonari e tromboemboliche. Esiste un margine di rischio piuttosto ampio, sufficiente, a mio avviso anche da solo, a motivare la scelta di non sottoporvisi. L’OMS ha qualcosa da dirci al riguardo: in relazione a una recente ricerca, apprendiamo dal Corriere che “I ricercatori hanno osservato, tra l’altro, che quando la scelta del taglio cesareo è legata a motivi medici i pericoli aumentano di ben 10 volte”.
E’ chiaro che nel caso considerato il rischio affermato dai medici con un parto naturale sia stato presentato come superiore rispetto a quello comportato da un cesareo. Tuttavia sono molti i casi in cui le pretese o reali evidenze scientifiche risultano poi scontrarsi con clamorose smentite (per una piccola ma significativa casistica, cfr. C. Botti Madri Cattive, 2007, Il Saggiatore). Inoltre, come si vede, se le alternative sono due (naturale/cesareo), ed entrambe rischiose, e nondimeno vi è rispetto ad esse una precisa posizione della madre, incontrovertibilmente protagonista del parto, non si capisce cosa giustifichi eticamente ma anche, diremmo, legalmente, il ricorso alla polizia da parte del personale dell’ospedale. Dietro tutto ciò c’è, sembra, una decisa negazione della soggettività della madre. Paragonando i casi di cesarei coatti al rifiuto di donare organi destinati al trapianto, Caterina Botti può così affermare che “quello che fa la differenza (…) è piuttosto che le donne, noi donne, arriviamo al parto già arrese all’idea di non decidere, di essere manipolate e asservite”.
La cosa che inoltre preoccupa è che non si tratta affatto di un caso isolato. Negli Stati Uniti si sono accumulate parecchie vicende analoghe, in cui donne che rifiutavano il parto cesareo vi sono state comunque costrette per decisioni (prese al telefono, in 48 ore o meno, dunque senza tutte le garanzie previste dalla legge – che sono diritti – accordate a chiunque: anche assassini e delinquenti) last minute di magistrati interpellati dai medici. Di fronte a una donna incinta, cioè, perdono ogni valore diritti e doveri della persona e delle istituzioni, le normali garanzie democratiche, il riconoscimento della propria soggettività. E ciò sembra prassi comune, nonostante la relativa rarità di situazioni come questa. E non estendiamo il discorso ai casi di parto post-mortem per motivi di spazio.
Naturalmente con queste parole non si intende affermare che sia di per sé giusto e auspicabile rifiutare pratiche mediche solo perché se la madre lo vuole va bene. Si vuole semplicemente:
1) Argomentare contro quell’aura di approvazione che in questo momento circonda quei medici e quei poliziotti, rappresentati come i buoni che hanno domato la madre “cattiva”, in quanto questa comune valutazione trascura l’aspetto coattivo e discriminatorio del loro comportamento (rispetto ad altre prestazioni, come donazioni per trapianti rifiutate)
2) evidenziare che questo caso comunemente giudicabile come in fin dei conti plausibile rappresenti al contempo un sintomo di “iperstatalizzazione” orientata all’esercizio del biopotere; e il corpo delle donne ne è di nuovo il bersaglio privilegiato
3) sottolineare il generale misconoscimento della soggettività femminile e delle sue capacità etiche, oltre che della sua dignità, particolarmente evidente quando la donna è incinta. Il puerperio è comunemente rappresentato come utero, natura, fianchi, doglie, feto; mai come intelligenza e moralità – intesa generalmente come capacità di decidere sulla base di motivazioni ponderate tra sé e sé alla luce della propria storia individuale, delle proprie aspettative, dei propri valori, ecc.
Nessuno nega la problematicità del caso. Tuttavia, preoccupa la leggerezza con cui viene valutata la coazione in un caso come questo.
Non ho parole! già essere donna in italia significa esseremeno di bestie ma quando si è immigrate è ancora peggio il trattamento…
alora:
dopo una ricerca di due ore sull’argomento ho trovato qualcosa sulle linee guida ministeriali. Per comodità faccio un po’ di copia-incolla.
aggiornamento:
ho faticato non poco per trovare qualcosa di “istituzionale” a riguardo.
L’ho trovato all’interno delle linee guida ministeriali pubblicate a gennaio 2010 e in vigore fino al gennaio 2014 all’indirizzo: http://www.salute.gov.it/imgs/C_17_pubblicazioni_1330_allegato.pdf
in particolare: In caso di taglio cesareo, sia programmato sia d’emergenza, il medico deve sempre richiedere alla donna il
consenso informato all’intervento. In considerazione del quadro clinico, è tenuto a fornire informazioni basate
su prove scientifiche, con modalità di comunicazione rispettose della donna, del suo parere, della sua
dignità, della sua privacy e della sua cultura. Il linguaggio utilizzato nella comunicazione sia verbale sia
scritta deve essere sempre appropriato e comprensibile per l’interlocutrice.
e soprattutto:
Una donna capace di intendere e di volere che rifiuti la proposta di un taglio cesareo programmato, anche
dopo un colloquio informativo approfondito in cui l’intervento sia stato presentato come vantaggioso per la
salute sua e/o del bambino, ha diritto di ricevere un secondo parere. Il rifiuto dell’intervento deve essere una
delle possibili opzioni per la gestante.
In caso di indicazione a un taglio cesareo d’emergenza, una donna in possesso della capacità di intendere
e di volere ha la facoltà di rifiutarlo.
Non so però quanto le linee guida possano essere legalmente vincolanti per un primario e quindi se possano giustificare eventuali azioni legali o richiesta di provvedimenti disciplinari a carico del primario.
Se poi vi vien voglia di fare un giro sul mio blog ho scritto qualcosa a riguardo pure io.
Ma l’hannoaperta conto la sua volontà? Mi sento male